Crepuscolo, Kent Haruf


Intorno a Kent Haruf, spentosi nel 2014 a settantuno anni, lasciando in eredità sei romanzi e un pugno di racconti e saggi non ancora raccolti organicamente neppure negli Stati Uniti, si è creato in Italia una sorta di piccolo culto, i cui adepti aumentano costantemente di numero. Merito di un editore piccolo ma coraggioso e agguerrito, N.N., che si propone come missione, e fin dal nome, il lancio di autori – italiani o stranieri, poco importa – che non hanno mai avuto o non hanno più da tempo, nel nostro panorama editoriale, lo spazio e l’attenzione che meritano.
Ora, dopo Benedizione, atto conclusivo della cosiddetta «Plainsong Trilogy» cui è affidata, anche in America, la fama dell’autore, e Canto della pianura, suo primo capitolo (uscito originariamente per Rizzoli, nel disinteresse più totale della critica, e opportunamente ritradotto per l’occasione), N.N. propone il secondo volume della trilogia stessa, Crepuscolo (pp. 315, euro 18,00 euro), tradotto, come i precedenti e con perizia e identificazione sempre maggiori, da Fabio Cremonesi.
È poi già annunciata la pubblicazione di Our Souls at Night, l’ultimo romanzo di Haruf, uscito negli Stati Uniti ad alcuni mesi dalla morte dell’autore, e sembra del tutto ragionevole attendersi che anche le prime due opere, The Tie That Binds e Where You Once Belonged, si aggiungeranno presto all’elenco, visto il loro legame geografico ma soprattutto tematico con la materia narrata nella trilogia.
Proprio dalla geografia è necessario partire, per esplorare la scrittura di Haruf e comprenderne a pieno il fascino. Come l’Ohio e Winesburg per Sherwood Anderson, o il Michigan per i racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway, è il Colorado e la cittadina immaginaria di Holt, non lontana da Denver, a costituire il cuore della trilogia. Un luogo fatto di comunità sparse, di vite sovente isolate, di diner, spacci, supermercati, fattorie e roulotte. E di paesaggi scabri, naturali o umani, dove la quotidianità è scandita da piccoli gesti, tutti apparentemente irrilevanti ma in grado, purché li si racconti nel modo giusto, di rivelare mondi interi.
Haruf si colloca insomma in perfetta continuità con la grande tradizione americana nella quale, del resto, gran parte della critica lo ha ricompreso, e che proprio da Anderson e Hemingway prende le mosse, per arrivare fino a Richard Ford: una tradizione che si identifica concretamente e geograficamente con il Midwest e si oppone in modo deliberato tanto alla genteel tradition del New England, quanto, in tempi più recenti, al glamour newyorchese, rifiutando i barocchismi, le orchestrazioni dalla complessità esibita, i compiacimenti letterari fini a se stessi e lavorando invece sempre per sottrazione e per sintesi.
Se però in Anderson e in Hemingway la ricerca di questa sintesi estrema portava quasi naturalmente a privilegiare la forma del racconto, nella quale veniva messa in scena la scissione – o comunque il rapporto contrastato e difficile – tra un protagonista (il George Willard dei Racconti dell’Ohio o il Nick Adams di Nel nostro tempo) e il milieu nel quale era costretto a vivere e da cui progettava costantemente la fuga, Haruf opta invece per una costruzione a cappella, un coro di voci che, per poter suonare assieme e convergere verso un canto unico, necessitano di uno spazio più ampio e di una traiettoria compiutamente romanzesca, al punto di proiettarsi addirittura oltre i confini del singolo volume e di distendersi dentro le novecento pagine della trilogia tutta, dividendosi il proscenio in una costante variazione di prospettive e sfumature.
Se si seguono le sua vicende da un capitolo all’altro della «Plainsong Trilogy», appare evidente come la comunità di Holt – paese immaginario, si è detto, ma molto simile alla cittadina di Yuma dove Haruf ha trascorso larga parte della sua vita – non abbia nulla di irenico o di falsamente rassicurante: i personaggi che la popolano sono tutti, chi più chi meno, induriti e segnati da un cumulo di avversità che sembra rispecchiare la monotona asprezza del paesaggio contro il quale si stagliano. D’altro canto, però, tutti i protagonisti di Crepuscolo, fatta eccezione forse per il solo Hoyt Raines, villain alcolista e violento, condividono un sistema di valori elementari, nel quale la solidarietà, l’onestà e l’autenticità delle parole e dei comportamenti rappresentano gli unici puntelli certi contro i rigori di un mondo nel quale l’abbandono e il fallimento la fanno troppo spesso da padroni.
La luminosità dei personaggi, la loro capacità di mantenere dignità e coerenza anche di fronte alle prove più difficili, primi fra tutte i lutti che li colpiscono spesso negli affetti più profondi e consolidati, è al centro del secondo capitolo della trilogia ancor più che del suo predecessore. Se infatti in Canto della pianura – centrato sul sofferto percorso esistenziale di Tom Guthrie, il quale, abbandonato dalla moglie, cercava faticosamente di ricostruirsi un’esistenza senza perdere la propria integrità di insegnante di storia americana, e sulla infanzia tormentata dei suoi due figli, Ike e Bobby – la sofferenza e il dolore dei protagonisti sembrava rispecchiarsi nel gelo di un paesaggio quasi sempre notturno, squassato dal freddo e dalle intemperie, in Crepuscolo il centro della scena viene occupato da Raymond McPheron, che nel romanzo precedente, insieme al fratello Harold, aveva accolto in casa propria la giovane Victoria Roubideaux, incinta e abbandonata dal fidanzato, e che ora deve fare i conti prima con la partenza della stessa Victoria, che si trasferisce insieme alla figlia bambina a Fort Collins per studiare all’università, e poi con la perdita di Harold, travolto e ucciso da un toro sotto i suoi occhi, in una scena di straordinaria delicatezza e strazio.
Un doppio abbandono, dunque, che però grazie alla bizzarra dolcezza di Raymond, all’amore e al rispetto che ha saputo guadagnarsi negli anni e dal quale è circondato, si traduce nella premessa di una rinascita, grazie al rinnovato affetto e alla vicinanza di Victoria e del suo nuovo ragazzo, ma soprattutto all’incontro con Rose Tyler, l’assistente sociale che, come già Maggie Jones, l’insegnante di Canto della pianura, funge da collante per un’intera comunità.
Proprio la concentrazione su Raymond – e su D.J., il ragazzino orfano che cresce insieme a un nonno anziano e malandato ed è sorretto da un senso della giustizia e da un’istintiva volontà di rivolta contro ogni forma di sopruso che gli conferiscono quasi la statura di un piccolo eroe – fa sì che i toni di Crepuscolo siano infinitamente più dolci e toccanti rispetto a quelli del primo capitolo della trilogia. D’altro canto, anche quando prende di petto i sentimenti più profondi e fa vibrare le corde della commozione, Haruf non abbandona mai quello che è il suo credo estetico: scrivere, per usare le sue stesse parole, il più possibile «vicino all’osso», alla sostanza ultima delle cose e degli stati d’animo. Basti pensare al finale del quarto capitolo, nel quale i fratelli McPheron, appena abbandonati da Victoria e subito dopo aver venduto i loro vitelli all’asta cittadina, tornano alla fattoria, ormai deserta. «Risalirono a casa attraversando il vialetto coperto di ghiaia. Ma l’eccitazione della giornata era ormai passata. Erano stanchi e spenti. Scaldarono sul fornello una zuppa in scatola che mangiarono al tavolo della cucina, poi misero i piatti in ammollo e si spostarono in salotto per leggere il giornale. Alle dieci accesero il vecchio, massiccio televisore in cerca di un notiziario qualsiasi proveniente da qualunque punto del mondo, prima di salire le scale e buttarsi a letto sfiniti, ciascuno nella propria stanza ai due lati del corridoio, confortati oppure no, demoralizzati oppure no, da ricordi e pensieri familiari logorati dal tempo».
In pagine come queste, delle quali il romanzo strabocca e in cui il sentire filtra senza intoppi attraverso i gesti più abusati, Haruf rinnova il piccolo, grande miracolo che rappresenta, probabilmente, la ragione ultima di un successo in costante crescendo: anziché elevare il quotidiano o trasformarlo in metafora di altro, lo ripropone in quanto tale, scandendo il succedersi delle azioni e soffermandosi sui dettagli, quando non sulle minuzie. E costruisce così un’epica minimale, tutta decentrata rispetto ai fasti massimalisti di tanti romanzi contemporanei, sperimentali e non, ma di un’autenticità e di un nitore così accecanti da lasciare un segno indelebile nella memoria dei lettori.
[Luca Briasco 26/06/2016]

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