Questo blog accoglie la nuova avventura di quelli di Sguardi d’Altrove, e il Reverendo Dogdson, con i suoi dubbi sulla realtà, si aggiunge al nostro olimpo di numi tutelari. Non dimentichiamo gli autori che più spesso ci hanno accompagnati nel viaggio di Sguardi d’Altrove, anzi, da loro ripartiamo. Quindi, un pensiero affettuoso e ammirato, in particolare, ad Alan Bennet a alla sua Sovrana Lettrice, mantenendo ben fermo il principio che ragguagliare non è leggere.
«La mia professione è attraversare frontiere. Quelle strisce di
terra di nessuno fra due posti di controllo sembrano sempre zone piene
di promesse: la possibilità di nuove vite, nuovi profumi, nuovi affetti.
Ma al tempo stesso scatenano in me un disagio che non riesco a
reprimere». Questo incipit di J.G.Ballard (in Cocaine Nights) potrebbe
essere una sinossi perfetta per Sovietistan, un viaggio nell’Asia
Centrale (Marsilio, pp. 540, euro 19.50, traduzione di Eva Kampmann)
dell’antropologa e scrittrice norvegese Erika Fatland.
Nel libro l’autrice non fa che passare frontiere, visibili e
invisibili. Il suo percorso affronta un’area che di confini veri e
propri, fino a qualche anno fa, non ne aveva e che oggi assiste
all’ergersi di barriere reali e di altre più nascoste, affiorate da un
passato sul quale, semplicemente, si era tentato di passare sopra ora
con l’ideologia ora con l’asfalto. Fatland percorre strade e volti e
devia su spassose e romanzesche epopee familiari che non arrivano da
chissà quale passato, ma dai giorni nostri, dal Kazakistan: «Nel 2010 il
parlamento approvò la decisione di conferire a Nazarbaev il titolo di
«leader della nazione», nonostante le proteste opportunamente umili
dell’interessato. Contemporaneamente fu approvata una legge che rendeva
perseguibile offendere il capo dello Stato o rovinare suoi ritratti. Per
di più a Nazarbaev fu concessa l’immunità a vita dai procedimenti
giudiziari e la facoltà di decidere della politica del paese anche dopo
il suo ritiro». Tra importanti e più che mai attuali riflessioni
geopolitiche su questi stati indipendenti che fino al 1991 costituivano
un unico blocco governato da Mosca, Fatland inserisce il suo passaggio
personale. La sua età, è nata nel 1983, non è un dettaglio banale: la
storia «sovietica» di questi paesi per Fatland è come un soffio leggero;
al contrario il crollo fu una detonazione i cui detriti l’autrice
raccoglie e impianta nei suoi passaggi fisici tra uno stato e l’altro. I
territori attraversati dall’autrice sono Turkmenistan, Kazakistan,
Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan: già messi così in fila, questi
nomi scatenano sensazioni capaci di unire curiosità e paura, desiderio
di avvicinarsi per esplorare, terrore di andare a incrociare il Grande
Gioco, la via della Seta e quel peso della storia che pare svanire in
statue d’oro e libri di testo scolastico a firma del presidente.
«L’Asia centrale – scrive l’autrice – era considerata un territorio
selvaggio e pericoloso, e pochi occidentali ci avevano messo piede. E
non erano neanche particolarmente benaccetti. Perciò i pionieri del
Grande Gioco si travestivano da monaci mendicanti o da mercanti di
cavalli per evitare di essere riconosciuti come europei, e in gran
segreto prendevano appunti e disegnavano cartine». Fatland percorre
tutto questo con lo sguardo di chi conosce bene la vicende recenti di
questi neonati stati, ne dispensa mitologie, concretezze economiche e si
perde come una viaggiatrice instancabile in tutte le ovvie voragini di
incomprensione. Lo spazio geografico prescelto – del resto – favorisce
imponenti digressioni sul versante preferito dall’autrice. Il
Tagikistan, ad esempio, unico paese post-sovietico ad avere una
religione di Stato (il novantotto per cento della popolazione è di fede
islamica) ha un presidente particolare: Rahmon è sunnita, ma nella
ricerca di una identità – un tema portante, forse il principale nel
volume di Fatland – sbanda proprio sulla religione.
Per plasmare «il tagiko» decide di rifarsi ai tempi preislamici,
«quando le popolazioni che vivevano nelle terre corrispondenti
all’odierno Tagikistan erano seguaci dello zoroastrismo. Con orgoglio ha
elencato le tradizioni zoroastriane, come il fatto che i tagiki
trattano bene gli animali, a riprova che il retaggio è ancora vivo e
vegeto. Su insistenza del governo tagiko, nel 2003 l’Unesco indisse la
celebrazione dei tremila anni della cultura zoroastriana. Il terzo
millenario fu festeggiato con grande pompa in tutta l’Asia centrale,
soprattutto nel Tagikistan». L’impianto narrativo del libro, inoltre, è in
equilibrio costante tra reportage narrativo e saggio storico ed è in
grado di rendere avvincenti anche i passaggi più geopolitici, anche
grazie alle lasse dove un «io narrante» non diventa ostacolo alle storie
ma anzi facilita i passaggi e ricorda le analogie, senza porsi in prima
posizione; da esplorare , infatti, ci sono infinite vicende.
A Erika Fatland abbiamo posto alcune domande in occasione della sua
visita in Italia, a Incroci di civiltà a Venezia, festival durante il
quale ha presentato Sovietistan. Sembra che tutto il libro – un attraversamento costante di
confini visibili e invisibili – sia una continua ricerca di un’identità
perduta. Cosa aveva in mente quando ha cominciato a scrivere?
Ero molto incuriosita da questi posti, uno spazio bianco, quasi
sconosciuto, sulla mappa, del quale non sappiamo molto, e che chiamiamo
scherzosamente «lontanistan». Ho lavorato con la Russia e l’ex Unione
sovietica per molti anni, trovo la Russia un paese estremamente
interessante, così vicino, al confine con la Norvegia, ma così
differente. La mia tesi di dottorato l’ho fatta a Beslan e mentre ero
lì, ho capito che l’ex Urss non è fatta di russi, ma che ci sono culture
diversissime a popolarla e che le culture, le popolazioni più dissimili
dalla russa erano in Asia centrale: nomadi, musulmani, praticamente
privi di un’idea di stato, popolazioni che quando sono entrate a far
parte dell’impero russo, tra il XVIII e il XIX secolo, non hanno visto
cambiare il loro modo di vivere, rimasto più o meno sempre lo stesso. Ma
quando l’impero russo si è trasformato in Unione sovietica, per queste
popolazioni tutto è improvvisamente mutato, la modernità è arrivata nel
giro di una manciata di anni, i nomadi si sono dovuti stabilire nelle
fattorie collettive, le donne cominciare a lavorare e ad andare a
scuola. Sono paesi tornati indipendenti da poco più di 25 anni e
continuiamo a saperne pochissimo. Perché ha scelto questa forma di reportage narrativo con un «io narrante» presente all’interno del libro?
Mi ha ispirata il lavoro di Carsten Jensen, uno scrittore danese che ha
scritto anche reportage di viaggio meravigliosi (in Italia è stato
pubblicato La leggenda degli annegati, Rizzoli, 2007, ndr). Lui mi ha
spiegato che per raccontare queste storie, tenerle insieme, i tuoi occhi
e le tue orecchie devono diventare quelli del lettore, in modo che il
lettore faccia esperienza assieme all’io narrante. Quanto è stato complicato o meno mischiare il racconto di
viaggio alla storia dei paesi che ha affrontato, in che modo ha trovato
un equilibrio tra i due elementi del libro?
È stata una sfida trovare il giusto bilanciamento per rendere la parte
storica vivida: la parte di ricerca è stata interessantissima, tanto che
a un certo punto mi sono ritrovata a dovermi obbligare a smettere,
altrimenti il libro avrebbe superato il migliaio di pagine! Che idea si è fatta oggi, alla luce dello stato di molte
democrazie occidentali – penso a Ungheria e Polonia – delle tendenze
autoritarie di alcuni dei paesi ex sovietici che ha attraversato?
È molto complicato generalizzare, l’Ungheria e la Polonia, i paesi
comunisti, sono sempre più conservatori e autoritari, in Asia centrale, a
parte il caso del Kurdistan, la democrazia non è mai esistita. A quali libri di questo tipo si è ispirata, se esistono. O
quali sono stati i suoi riferimenti letterari nella stesura del libro?
Ho già citato Carsten Jensen, aggiungo che amo molto il lavoro di Kapuscinski. Cosa consiglierebbe a un viaggiatore che volesse andare nelle
zone che ha percorso: più studio della storia o più capacità di
adattamento?
Penso siano necessarie entrambe le cose. Anche imparare qualche parola
della lingua russa e di continuare ad approfondire una volta tornati a
casa, dove il viaggio può così continuare.
[Simone Pieranni 11/04/2018]