mercoledì 28 febbraio 2018

feminism

Chiuso e consultabile sul blog dedicato all’iniziativa (feminismfieraeditoriadelledonne.wordpress.com) il programma completo della prima fiera dell’editoria delle donne che si terrà a Roma da giovedì 8 a domenica 11 marzo. «Feminism», così il nome scelto che colloca l’iniziativa in un solco preciso, si svolgerà alla Casa internazionale delle donne; ospiterà 70 stand di case editrici rappresentative di una produzione culturale contemporanea tra le più vitali dell’editoria italiana e internazionale.
Non solo attente (e più numerose) lettrici infatti, secondo i recenti dati sul «consumo» di libri, ma anche prolifiche, da decenni, osservatrici della realtà che raccontano una esperienza di decenni alle spalle; lavorando nell’officina della scrittura a tutti i livelli della filiera editoriale.
Promossa, ideata e organizzata da Archivia, Leggendaria, Casa Internazionale delle donne e Sessismoerazzismo, con il sostegno di Odei (Osservatorio degli Editori Indipendenti) e Iacobellieditore, «Feminism» darà spazio a direttore di case editrici, collane, librerie, biblioteche e traduttrici.
Insieme a una mostra documentaria (promossa e curata da Archivia sull’editoria del secolo scorso), l’intento – si legge nel breve comunicato stampa – è quello di «mettere in evidenza, attraverso dei Focus, tutti i passaggi della Filiera del libro d’Autrice: le scelte editoriali, la stesura del testo, la produzione, la promozione, la distribuzione e l’attività critica e divulgativa di testate specifiche, sia cartacee che on-line». Il filo conduttore sarà quello della discussione, della testimonianza e soprattutto dell’esperienza che si costella anche in Italia di punti storici precisi e di novità.

Lancio a effetto, Omar Shahid Hamid

Un poliziotto incorruttibile e di umili origini; una mente sopraffina e criminale, votata al terrorismo islamico. Sullo sfondo, la società pachistana contemporanea finalmente restituita con complessità e stratificazioni, in grado di superare la nomea unidimensionale di «stato canaglia» spesso affibbiata senza troppi complimenti alla Repubblica islamica.
Questi gli ingredienti che alimentano il motore narrativo di Lancio a effetto (pp. 256, euro 15), secondo romanzo di Omar Shahid Hamid, tradotto egregiamente da Giovanni Garbellini – specie nelle annotazioni dei termini in urdu – per Metropoli d’Asia. Hamid, già caso letterario nel subcontinente col suo romanzo d’esordio The Prisoner (2013), vanta una biografia dolorosamente adeguata all’indagine dell’estremismo islamico anche in ambito letterario: il padre Malik, direttore della Karachi Electric Supply Corporation, fu assassinato nel 1997 da un membro del Muttahida Quami Movement, formazione politica vicina all’estremismo islamico, evento che spinse il giovane Omar a entrare nelle forze dell’ordine, divisione antiterrorismo.
Dopo 17 anni di servizio, minacciato di morte dai Taliban pachistani, nel 2011 Hamid decide di prendersi un periodo sabbatico, tornando in servizio a Karachi solo a fine 2016 in qualità di sovrintendente di polizia presso il Counter Terrorism Department (Ctd) pachistano.
DISMESSA temporaneamente la divisa, Hamid ha messo al servizio della narrativa le conoscenze da «insider» maturate nell’antiterrorismo pachistana, aggiungendoci una certa abilità nell’organizzazione di «crime stories» dal ritmo serrato e fortemente aderenti alla cronaca criminale del Pakistan.
Così i personaggi principali di Lancio a effetto, il sovrintendente Abbasi e il terrorista Sheikh Ahmed Uzair Sufi, sono di fatto la trasposizione letteraria di Sanaullah Abbasi, agente antiterrorismo molto noto nella provincia del Sindh, e Omar Saeed Sheikh, terrorista britannico di origini pachistane autore, tra le altre, del rapimento e omicidio di Daniel Pearl, giornalista del Wall Street Journal, nel 2002.
Abbasi, per effetto di un tipico scaricabarile subcontinentale, si ritrova insignito della responsabilità di sorvegliare, in un ex istituto agrario dismesso nella campagna pachistana, il pericoloso terrorista Sufi appena trasferito dalla prigione di Hyderabad (dove il terrorista in carne ed ossa Sheikh tuttora risiede).
SHEIKH AHMED UZAIR SUFI, o meglio Ausi, nomignolo con cui era conosciuto ai tempi del college, deve essere tenuto in isolamento totale, evitando ogni contatto umano che possa dargli l’opportunità di mettere in pratica doti affabulatorie che, nel carcere di Hyderabad, per poco non hanno portato a un ammutinamento collettivo dei celerini, stregati dalla retorica del prigioniero. Esca cui Abbasi abbocca attratto dalle vicende pre-terroristiche di Ausi, svelate da una serie di lettere scambiate in gioventù tra il prigioniero e i migliori amici del college esclusivo – La Scuola – frequentato dal giovane: Sana, affascinante «prima della classe» lontana anni luce dallo stereotipo della «brava ragazza musulmana» ed Eddy, rampollo di miliardari e asso del cricket.
Imboccato da Ausi, Abbasi si lancia alla ricerca delle missive tra i tre, che l’autore utilizza per far emergere l’umanità di un personaggio archetipo della disumanità criminale, colpevole del rapimento e della decapitazione, ripresa in video, di una giornalista occidentale incinta. Il carteggio tra i tre post-adolescenti, con i loro amori non corrisposti, il senso di spaesamento dell’emigrazione di lusso accordata alla meglio gioventù pachistana spedita nelle università statunitensi, la disillusione dell’esperienza politica di Ausi – che per ristrettezze economiche deve rinunciare a una borsa di studio oltreoceano – e la passione per il cricket, aiutano Hamid a delineare delle circostanze plausibili che possono spingere, nel romanzo come nella realtà, un ragazzo di buone speranze tra le braccia dell’estremismo militante. Fino a trasformare un ragazzo come tanti in un mostro che, parafrasando le parole del padre di Ausi – tragica figura tra le più riuscite del romanzo -, «distrugge tutto ciò che tocca».
Il crescere della curiosità per il compimento della metamorfosi criminale di Ausi è degno del «binge watching» da serie tv e compensa alcune soluzioni narrative piuttosto banali o, purtroppo, non sviluppate come avrebbero meritato: su tutte, il mancato approfondimento dell’ispettore Shahab, personaggio promettente eppur sbrigativamente accantonato nella narrazione.
PRESI DALLA FRETTA di scoprire la conclusione delle indagini del sovrintendente Abbasi, sarebbe un peccato soprassedere ad alcuni passaggi illuminanti delle «confessioni» di Ausi, utili per orientarsi anche nella cronaca del terrore di questi tempi.
Hamid mette in bocca al terrorista delle ammissioni pesanti che, in clima di islamofobia diffusa, contribuiscono a slegare l’Islam dalla condotta criminale degli estremisti: la crescente efferatezza dei crimini di Ausi non ha nulla a che fare con la religione, ma risponde invece alle aspettative di sostenitori e aspiranti terroristi smaniosi di arruolarsi sotto il comando del leader più ambizioso, più carismatico e più senza scrupoli in circolazione. La descrizione, per filo e per segno, della lotta tra le varie sigle del terrorismo islamico attive in Pakistan negli ultimi anni.
[Matteo Miavaldi 28/2/2018]

mercoledì 21 febbraio 2018

Il morso della reclusa, Fred Vargas

La tanto desiderata vacanza interrotta dall’ordine di rientro per motivi di lavoro. È l’avvio del nuovo romanzo di Fred Vargas, la nota scrittrice francese di noir che ha ormai un pubblico fedele nel tempo ma a geografia variabile.
DOPO CHE LE VENDITE sono cresciute nel suo paese di origine, i titoli dei suoi romanzi hanno cominciato a campeggiare nelle classifiche dei libri più venduti anche fuori dai confini nazionali. Il titolo del nuovo noir – Il morso della reclusa (Einaudi, pp. 431, euro 20) – è allusivo di una condizione dove la privazione della libertà non sempre coincide con le sbarre di una prigione, visto che le recluse erano, nel mondo contadino, donne che sceglievano di segregarsi da sole dalla società. Ma reclusa è anche chiamato un tipo di ragno che vive sempre nascosto in qualche anfratto perché pauroso come pochi altri aracnidi; ha inoltre un morso innocuo se unico, ma letale se il veleno inoculato in un corpo umano è quello di venti ragni.
Da diversi anni, il protagonista indiscusso dei libri di Vargas è il commissario Adamsberg, capo carismatico e tuttavia più che discusso della squadra anticrimine del 13 arrondissement parigino. Il commissario, considerato un eccentrico e poco produttivo cacciatore di nuvole per l’aria svagata e distratta che lo contraddistingue, è in vacanza in Islanda, l’isola dove si è svolto il precedente romanzo. È però richiamato a Parigi per risolvere un caso di omicidio, la cui vittima è una donna. Il colpevole è indicato in un uomo di origine arabe che conduce tuttavia una vita al confine tra inclusione e esclusione sociale: è una figura che, in un clima di xenofobia diffusa e razzismo di stato, è ideale per spegnere la paura e il risentimento della maggioranza non più silenziosa.
IL CUORE DEL ROMANZO non riguarda tanto l’omicidio di quella donna, rapidamente risolto da Adamsberg. Quell’assassinio si è soliti chiamarlo, a ragione, femminicidio, perché episodio della feroce guerra che molti maschi conducono contro la libertà femminile. È infatti attorno a questa guerra che ruota il romanzo.
I maschi, è noto, misurano il proprio potere nella società attraverso una estenuante competizione su chi è più bravo. Adamsberg apprenderà che anche nella sua squadra la battaglia per la supremazia è cosa di tutti i giorni.
LA LOTTA PER STABILIRE la gerarchia di potere nella squadra anticrimine è condotta secondo modalità urbane, borghesi, propedeutiche a una soluzione «politica» che salvaguardi la dignità di tutti i componenti della squadra. Ma, altrove, la lotta su chi ce l’ha più lungo – la triste passione che anima molti maschi – si combatte con altri mezzi.
Alcuni anziani signori muoiono e si scopre che sono stati uccisi con il veleno del ragno chiamato la reclusa. Impazzano le discussioni sui social network sulla possibilità o meno che i mutamenti climatici e l’inquinamento ambientale abbiano provocato mutazioni nei ragni. Ma i flame della Rete sono nulla rispetto a quanto emerge dalle indagini.
Gli anziani morti facevano parte di una banda formatasi in un orfanotrofio e che quello stesso gruppo di bambini aveva usato i morsi della reclusa nelle sue sadiche scorribande contro altri bambini. E che proprio quella banda era diventata – durante e dopo l’adolescenza dei suoi componenti – una gang di stupratori seriali.
La seconda parte del romanzo è una discesa negli inferi della brutale guerra alle donne condotta da maschi incapaci di stabilire relazioni con i propri simili e con il genere femminile. Adamsberg conosce le sopravvissute a stupri e una vecchia usanza che vedeva donne che sceglievano di diventare recluse ai margini di piccoli paesi dopo essere state violentate. Nel romanzo vengono squadernate le cifre della guerra contro le donne: sono migliaia gli stupri compiuti da uomini senza volto e senza nome; e altrettanti i comportamenti riduttivi della polizia che, al primo vicolo cieco delle indagini, archivia i casi.
ADAMSBERG SI SCHIERA con le donne, ma sa che anche il suo maschile è intriso dal veleno del machismo. L’antidoto sta nel mettere a nudo la propria fragilità senza il timore di apparire debole, rompendo la gabbia del ruolo che rende reclusi anche i maschi. Chissà non sia questa la strada per praticare un liberatorio partire da sé, declinato al maschile. Ma le morti continuano. Il cacciatore di nuvole ipotizza che dietro le morti ci sia la volontà di vendetta di una donna stuprata o una vittima del bullismo della banda dei «bacarozzi», così l’aggettivo affibbiato ai ragazzi di un tempo. Manifesta empatia verso questo desiderio di vendetta, ma non ama la giustizia fai da te, anche se fa esplodere il suo furore quando si imbatte in uno stupro, un femminicidio, una molestia sessuale. Ma è pur sempre un servo dello Stato. Obbligato al rispetto della legge.
Romanzo amaro e bellissimo questo di Fred Vargas. Come i precedenti, racconta storie intrecciate, tematicamente collegate: l’affresco finale mette in evidenza una società violenta, in cui la divisione in classi è opacizzata dal grigio scorrere della vita quotidiana. Dove la violenza sulle donne non è però prerogativa di dinamiche arcaiche che la modernità ha sterilizzato, come molta pubblicistica afferma per ridimensionare la guerra a bassa intensità condotta contro le donne. Nella postmoderna Francia o Italia, Germania, Inghilterra il femminicidio, le molestie e la violenza sessuali sembrano infatti scandire il divenire di un maschile incapace di misurarsi con la libertà femminile. È questo il filo rosso che il noir riavvolge. Con ironia certo, ma anche con doloroso disincanto.
[Benedetto Vecchi 21/02/2018]

domenica 18 febbraio 2018

prossimo incontro lunedì 26 febbraio



 Carissim*,
ci troviamo dalle 21.00 di lunedì 26 febbraio da Rossella, che ci guiderà nel cuore di tenebra visto dalla parte degli africani in LE COSE CROLLANO di Chinua Achebe. 
Confermate, se potete.
A presto
Silvia

Quello che rimane, Paula Fox

Caseggiati popolari degradati, clochard che barcollano tra l’immondizia e gli appartamenti degli spacciatori in quello che sembra «un grande mare grigio di scorie»: per Sophia e Otto Bentwood, una coppia di borghesi esuli da Manhattan, la vita a Brooklyn all’inizio degli anni Settanta offre un punto di vista privilegiato sui cambiamenti che stanno trasformando la città. Agenti immobiliari e speculatori hanno iniziato a cacciare i vecchi abitanti, e sono mondi diversi quelli che si fissano dalle finestre a pochi metri di distanza.
Pubblicato per la prima volta nel 1970, Quello che rimane (traduzione di Alessandro Cogolo, Fazi, pp. 206, euro16,50) era passato inosservato, e non è sorprendente: la scrittura di Fox è meticolosa nella ricostruzione di ambienti e sonda l’interiorità dei personaggi con un’intensità e un rigore lontani dalla leggerezza ironica della narrativa postmoderna, che in quegli anni conosceva una delle sue fasi più entusiasmanti.
Quello che rimane descrive, il weekend in cui il matrimonio tra Sophia e Otto viene messo a dura prova da un evento in apparenza minimo: il morso di un gatto randagio accarezzato in modo incauto dalla donna. Segue lo sbandamento innescato dalla scoperta di un’imprevista fragilità, la rabbia per l’ingiustizia, il timore del contagio, il sospetto di non essere in fondo innocenti quanto si vorrebbe: le emozioni espresse e quelle ignorate si intrecciano in un crescendo di tensione che scava un abisso tra i coniugi. La stessa tensione contrappone Sophia e Otto, insieme questa volta, al mondo che cambia intorno a loro. I figli dei loro amici sono diventati hippies, vestono e parlano in modi che loro non capiscono, così che, da compiaciuti esponenti della cultura progressista liberal del dopoguerra – Sophie ha lavorato come traduttrice, Otto è avvocato – i due scoprono a cinquant’anni di impersonare una generazione in stallo, incapace di abbracciare i nuovi ideali e senza direzione.
I Bentwood sono coetaenei della loro autrice: Paula Fox, nata nel 1923, negli anni Settanta era nota soprattutto come autrice di libri per l’infanzia; tutto cambiò quando venne salutata come maestra del romanzo americano da due degli scrittori più influenti di fine Novecento: Jonathan Franzen, che in occasione della ristampa americana del romanzo, lo descrisse come «superiore» a qualsiasi opera di Philip Roth o Saul Bellow. E da David Foster Wallace, che lo inserì come lettura obbligatoria nei suoi corsi, lodando la serietà e l’ostinazione con cui Paula Fox ha ritratto le torsioni dell’interiorità.
[Valeria Gennero 18/02/2018]

Cento false partenze, F. Scott Fitzgerald

Nelle prime pagine del Grande Gatsby, Nick leva gli occhi verso una fila di finestre illuminate e pensa: «Ero dentro e fuori, simultaneamente incantato e respinto dalla inesauribile varietà della vita». Quel gesto, e quella capacità di guardarsi da fuori, li ritroviamo nel Fitzgerald di «Crepuscolo di uno scrittore», uscito nel 1936 su «Esquire». A differenza di quanto avviene nel «Crollo», Fitzgerald ha il distacco necessario per descrivere una giornata della sua vita alla terza persona. Non più affascinato dalla inestinguibile varietà della vita, nel guardarsi allo specchio vede in sé solo la scoria di un sogno. Il racconto è tra i più toccanti nel suo spietato ritratto di un uomo malato, che si stanca per niente nonostante abbia da poco compiuto i quarant’anni. Fitzgerald fatica ormai a scrivere anche solo poche righe, qualcosa che gli era accaduto già all’inizio della carriera. Anche ora immagina frammenti di racconti che non scriverà, gli vengono mille idee, fantastica: l’autore finisce là dove ha cominciato, come Basil, protagonista di un ciclo di storie sull’adolescenza, il ragazzino con molte fantasie a cui mai dava corpo.
«Crepuscolo di uno scrittore» è una delle tessere più vivide di quell’autobiografia per racconti che è Cento false partenze (traduzione di Giorgio Monicelli, Belleville editore, pp. 268, euro  16,00), apparsa negli Stati Uniti nel 1957 a cura di Arthur Mizener, il primo biografo di Fitzgerald, e uscita per Mondadori nel 1966 con il titolo Crepuscolo di uno scrittore. Il pregio dell’edizione sta nell’aver rimesso in circolazione, nella traduzione originale di Monicelli e nella sequenza cronologica voluta da Mizener, un libro assente dal 1992 e nell’aver ripristinato la composizione originaria della raccolta, la cui genesi è accuratamente ricostruita da Roberta Cesana nell’introduzione.
Fra il brio e la naturalezza di tre delle storie dedicate a Basil – «Una serata alla Fiera», «Farsi strada» e, soprattutto, «Basil e Cleopatra» sono tra i racconti più freschi non solo di questo volume ma dell’intera produzione di Fitzgerald – e le atmosfere crepuscolari dei testi autobiografici scritti negli ultimi anni, che malinconicamente chiudono il cerchio, il volume colleziona racconti, testi fra il saggio e l’autobiografia, e pure una recensione del libro di esordio di Hemingway, i cui racconti Fitzgerald subito colloca accanto a quelli di Gertrude Stein e Sherwood Anderson. Sono storie perlopiù di sconfitte, quelle di Cento false partenze, di rimpianti, di umiliazione e amarezza, qualcosa che Fitzgerald conosceva bene: «Che sia qualcosa accaduto vent’anni fa o semplicemente ieri, devo partire da un’emozione che sia vicina alla mia esperienza e che io possa capire».
Uno dei testi più interessanti è senz’altro Un viaggio all’estero. Nel narrare la storia dei Kelly, coppia di espatriati che entra in crisi nel corso dei viaggi in Africa e in Europa, Fitzgerald rende evidenti i segni della minaccia nell’apparizione, a più riprese, di una coppia di coniugi che i Kelly sentono affini ma con cui non stabiliscono legami.
Alla fine, durante un soggiorno in Svizzera motivato dalla salute ormai precaria di entrambi i Kelly, la ricomparsa della coppia misteriosa porta con sé un lampo di luce, perché la protagonista riconosce nei due se stessa e il marito. Sconfinamento nel sovrannaturale, variazione sul tema del doppio o, più verosimilmente, una proiezione? Come in Giro di vite, lo struggente racconto di Henry James, la storia non lo dirà e lascerà tutto avvolto in quella vaghezza che rende unica la prosa di Fitzgerald.
[Franca Cavagnoli 18/02/2018]

venerdì 16 febbraio 2018

Berlinale 2018

Davanti al Berlinale Palast lo schermo rimanda l’immagine di Dieter Kosslick che spiega le linee della Berlinale 2018, la sua penultima dopo vent’anni, un tempo lungo nel quale Kosslick ha progressivamente modificato l’assetto del festival con l’inclusione al suo interno delle diverse sezioni – Panorama, Forum, anche se ognuna continua a avere direzioni artistiche e staff autonomi – e soprattutto con una crescita costante che lo hanno reso un grande evento spettacolare e di mercato per la metropoli e per i professionisti di tutto il mondo. Il passaggio non sarà semplice, gli interessi in gioco sono molti, e forse anche per questo in una lettera pubblica qualche mese fa i registi tedeschi di diverse generazioni hanno chiesto «il massimo della trasparenza».
Che festival sarà dunque questo numero 68, lo stesso numero dell’anno rivoluzionario di cui si celebra il cinquantenario, nella Germania che si avvia seppure tra molte incertezze alla riconferma del governo Merkel versione Gro-Ko? Impegno, confronto col presente, urgenza dell’attualità sotto al segno del movimento #Me Too – anche se proprio su questo c’è già una polemica per l’invito a Kim Ki Duk, accusato di maltrattamenti dalla sua attrice – e attraverso i film la ricerca di storie, narrazioni personali, esperienze e vissuti privatissimi che cinematograficamente ne restituiscano il sentimento.
È un desiderio privatissimo, ritrovare il suo amato Spots, che spinge il dodicenne Atari a fuggire e a volare su un minuscolo jet alla volta di quella che è diventata «l’isola dei cani», una terra postapocalittica intossicata da cumuli di rifiuti di ogni tipo. È lì che il sindaco Kobayashi Megasaki Citi (gattaro incallito), suo padre adottivo, ha deciso di deportare tutti i cani della città, quelli coccolati di famiglia e quelli di strada perseguendo uno sterminio organizzato che ha radici antiche, e che da sempre oppone i Kobayashi alla specie canina.
Isle of Dogs, il titolo di apertura della Berlinale, ha la grana trasognata che caratterizza i film di Wes Anderson (regista prediletto dal festival tedesco) anche quando parlano di dolori e traumi e ingiustizie crudeli. La sua isola canina è il posto degli esclusi, dei perseguitati, di chi diventa «clandestino» e perde tutto, a cominciare dalla propria identità sociale, e per sopravvivere in modo aberrante è costretto a lottare contro lo sconforto, a ritrovare in ogni singolo gesto un po’ di umanità. E i suoi rivoluzionari, chi ha ancora l’energia di scuotere il mondo sono i bambini, gli stessi che in Moonrise Kingdom fuggivano dalle regole degli adulti per scoprire una magia imprevedibile dell’esistenza che può durare solo se non viene anestetizzata nei codici che vogliono organizzarla. Alla repressione razzista del politico che cavalca con pericolosissima deriva autoritaria le paure dei suoi cittadini – i cani sarebbero portatori di una pericolosa influenza che li rende aggressivi – si oppongono uno scienziato non pazzo ma consapevole che con la precisione della ricerca scientifica smaschera la montatura, la sua assistente (con la voce di Yoko Ono) e soprattutto i giovanissimi studenti guidati da una ragazzina pure lei clandestina con la testa bionda di ricci che ricorda quella di Angela Davis..
Diviso in capitoli con flash-back che riportano a momenti del passato dei personaggi, Isle of Dogs seguendo la linea della ricerca di Spots di Atari aiutato da cinque cani nell’impresa tocca temi sensibili del nostro tempo: quel paesaggio quasi archetipico di rottami industriali ricorda nelle atmosfere i capannoni in cui vivono i marginali di Downsizing, il deserto di Blade Runner 2049 più che del primo Ridley Scott, i sotterranei di The Shape of Water o i terribili campi di concentramento per suini transgenici di Okja) in cui l’esclusione fonde esseri viventi e luoghi in un unico magma. I cani sono quelli che parlano inglese (con le voci di molte star tra cui Greta Gerwig, Bill Murray, Ed Norton, Frances McDormand, Harvey Keitel … e che peccato sarà il doppiaggio quando uscirà in sala in Italia), gli altri, gli «umani» vengono tradotti (non tutti) dal giapponese. Non è questione di un semplice «contenutismo», perché non è difficile immaginare in quei cani i migranti e i clandestini di oggi, o chi è respinto ai margini, folle sempre più numerose da una divisione del mondo sempre più gerarchica di ricchezze e miserie o nel sindaco le strumentalizzazioni dei politici: il punto è il cinema che condivide un sentimento del contemporaneo a cui prova a dare un’immagine guardando alla sovversione di generi – fantascienza, horror, fantasy … – che si accordano forse perché «preveggenti» all’epoca attuale.
In questo mondo salvato dai ragazzini Anderson (che ha scritto il soggetto insieme a Roman Coppola, Jason Schwartzman, Kunichi Nomura) riversa le sue passioni, l’umorismo delicato, l’ironia, la musica (di Alexandre Desplat) i colori e le trame di un universo fantastico che la scelta della stop motion rende narrativamente più libero. All’inizio, lo ha raccontato lui, l’idea era quella di fare un omaggio a Akira Kurosawa, e anche a Miyazaki, e al Giappone di cui percorre le arti, il sumo e il teatro kabuki, i ragazzini di scuola con le loro divise le stesse dei protagonisti dei pink film anni Settanta – a cui dedica un focus il Forum – porno rosa come lente della società e suo rovesciamento. Atari e i suoi amici, umani e cani, ci dicono che è possibile. Magari con un po’ di rieducazione all’umanità.
[Cristina Piccino 16/02/2018]

Confini di pelle, Maurizio Valtieri

È vero che i libri di racconti non si scelgono di sovente, a meno che non si tratti di una autrice o di un autore che si siano distinti per la loro abilità e allora può capitare addirittura di preferire un’antologia a un romanzo, o di rimpiangere quegli esordi in cui l’impegno per scrivere un brano perfetto copriva esattamente la misura di qualche pagina, con risultati eccellenti. Nella prefazione al volumetto di Maurizio Valtieri, Confini di pelle (Edizioni Croce, pp. 121, euro 15) Antonio Veneziani sottolinea la tendenza a considerare il racconto secondario rispetto alla forma lunga, concludendo invece su quanto proprio la raccolta di Maurizio Valtieri smentisca i pregiudizi e sia un’opera degna di essere letta per le ragioni più giuste: la qualità della lingua, la capacità narrativa. È utile, però, non mettere da parte la forma, utilizzarla come fattore d’analisi principale: una specificità che si costruisce anche a partire dal fatto che le storie e i personaggi di questo libro durano poche pagine e poi cambiano, radicalmente.
GLI OTTO RACCONTI di cui si compone Confini di pelle fanno risaltare, come in un bassorilievo, alcuni tratti della condizione umana: quelli che stanno dalla parte del nero, la metà mai esatta dello yin. Proprio per la eco potente della forma breve che crea un testo in cui come in una stanza piccola tutto ha più risonanza, si prova profonda inquietudine nel racconto Christmas Box, leggendo il dialogo fra la voce e lo schizofrenico, fra la parte rimossa che qui è donna e quella conscia, rappresentata da un personaggio maschile, un uomo sposato. La disabilità mentale torna, seppur di diversa natura, ne Il gradino in cui l’autore sa colpire a fondo, raccontando senza sbiancamenti appunto, l’insensatezza della violenza che conduce al carcere e che lì dentro si alimenta e di nuovo si amplifica, per le mura strette. Quasi come per ricordare a chi legge l’esistenza permanente del buio, del minuscolo come dell’imprevisto, Valtieri tratteggia l’incontro di un padre di famiglia «regolare» e della donna che lavora per strada e a cui tocca occuparsi delle sue pericolose devianze.
Il desiderio, filo conduttore che sembra animare la raccolta, mostra come la vita umana si svolga sempre nel perseguire di questa alternanza fra la sfortuna e la meraviglia, la disperazione e il successo, il vano e il serioso. Grazie a questa intersezione, spesso dicotomica eppure costantemente implicata, Valtieri racconta bene delle cose di cui di norma si sa solo parlare: gli attimi (e i corpi che annegano) di una famiglia, di un padre a cui si addormentano le braccia, che è partito profugo dalla Siria, dove fu un ragazzo agiato, che andava in piscina. Particolarmente riuscito il parallelismo fra una giovane musicista vittima di violenza e una nota musicale perfetta: unico racconto del libro in cui la penna dell’autore si stacca dalla materia e davvero volteggia per accompagnare questo suono perfetto e umanizzato alla ricerca di un senso della bellezza e della giustizia che pare non esistere più. A volte anche la ricerca della verità non basta per tessere il reale, è necessario saperlo immaginare.
[Laura Marzi 16/02/2018]

giovedì 15 febbraio 2018

Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte» di Ritanna Armeni

Il termine «coraggio» viene speso con parsimonia nel libro di Ritanna Armeni Una donna può tutto. 1941: volano le Streghe della notte (Ponte alle Grazie, pp. 230, euro 16, scritto con la preziosa collaborazione dell’interprete Eleonora Mancini). Non c’è bisogno di nominarlo.
Ogni riga di questa storia incredibile ed emozionante, raccontata a Mosca da una donna di 96 anni che da ragazza aveva volato e combattuto con uno dei primi tre reggimenti esclusivamente femminili nella storia, parla di un coraggio indomito.
Il coraggio di Irina Rakobolskaja e di tutte le sue compagne, ragazze giovanissime che subito dopo l’invasione tedesca riuscirono ad arruolarsi e costituire reggimenti di sole donne prima derisi, poi temuti, infine rispettati ed esaltati.
VOLAVANO SUI POLIKARPOV, aerei di legno con la carlinga scoperta, senza strumentazione tecnica né radio: sembravano grossi giocattoli, non superavano i 1000 metri d’altitudine, però erano maneggevoli e agilissimi.
Divennero l’incubo degli invasori, martellati notte dopo notte. Furono loro, i soldati di una Wehrmacht che pareva invincibile, a coniare il nome, Nachthexen, Streghe della notte.
Alle giovanissime aviatrici fu necessario un coraggio persino maggiore per fronteggiare le reazioni dei maschi: le resistenze, lo scherno, le umiliazioni, i sabotaggi.
Dove mai si erano visti reggimenti di sole femmine, e orgogliosamente separatiste oltre tutto?
Le chiamavano «le principessine». Ridevano dei capelli tagliati corti, delle divise cucite per soldati grossi il doppio. Le streghe combatterono consapevolmente una guerra su due fronti.
Colpirono i nemici più duramente di ogni altro, con un maggior numero di missioni notturne, sfidando pericoli maggiori e compiendo acrobazie più temerarie, per superare i maschi. Dimostrarono di essere valorose quanto e più degli uomini per cacciare gli invasori nazisti.
Le aviatrici del reggimento 588, di cui Irina era vicecomandante, volevano provare di poter combattere anche meglio degli uomini, e ci riuscirono. Senza imitarli però.
Dal racconto lucido della vicecomandante e dalla lettura appassionata che ne restituisce l’autrice di questo libro, la differenza nell’approccio alla guerra delle ragazze emerge spontaneamente, senza bisogno di essere sottolineata.
Risalta grazie a decine di particolari, esplode nella durissima condanna con cui Irina bolla le violenze e gli stupri compiuti dall’Armata Rossa in Germania nel 1945.
Le Nachthexen in Russia sono eroine nazionali. Però la loro storia è stata piano piano quasi dimentica.
Ritanna Armeni e Eleonora Mancini si sono imbattute in quella leggenda reale intervistando l’ultimo sopravvissuto del gruppo di cinque soldati che per primi misero piede nell’inferno di Auschwitz.
LA RICERCA NON APPRODÒ a nulla ma dopo un po’ le streghe si manifestarono di nuovo, sotto forma di un vecchio francobollo sui banchi di un mercato dell’usato. Raffigurava Marina Raskova, leggendaria aviatrice uscita indenne da nove giorni di impossibile lotta per la sopravvivenza dopo essersi lanciata col paracadute nella Taiga. La prima a pronunciare la frase diventata il motto del Reggimento 588: «Una donna può tutto».
Gli aviatori, all’epoca, erano divi, nell’Urss come negli Usa. Marina Raskova diventò popolarissima, tanto da riuscire a strappare al riluttante Stalin, dopo l’invasione, il permesso di formare e comandare tre reggimenti femminili. Morta in missione a 31 anni, nel ’43, le fu tributato il primo funerale di Stato della guerra.
La pista aperta da quel francobollo, alla fine, ha portato Ritanna Armeni a incontrare Irina, l’ultima del reggimento ancora in vita.
Era stata celebrata e stimata docente di Fisica, aveva tenuto per decenni viva la memoria di quell’epopea slittata sempre più nell’ombra. Tra la vecchia guerriera e le due italiane, tra la femminista degli anni ’70 e la strega che aveva praticato il separatismo prima che qualcuno lo pensasse, scatta un’alchimia formidabile e si prolunga per numerosi colloqui nella casa dell’anziana docente, a due passi dall’Università. Il risultato è un libro non solo bello ma magico.
IRINA TRASCINA l’autrice e l’interprete nella tempesta di una vicenda esaltante e tragica.
Inizia con un gruppo di studentesse poco più che ventenni. Partono per la guerra ridendo come collegiali ma nascondono dietro l’ingenuità una determinazione ferrea.
Prosegue con la rotta dell’Armata Rossa travolta dalla Wehrmacht fino a che arrivano i lutti, le prime vittime dei combattimenti aerei, a stracciare il velo quasi giocoso che aveva accompagnato le reclute persino nel duro addestramento.
Poi la rabbia contro gli uomini che si rifiutano di riconoscere il loro valore, le azioni sempre più spericolate, le compagne uccise, gli aerei di legno che s’infiammano nel cielo bruciando le streghe al loro interno.
Fino alla vittoria e al ritorno alla «normalità» della vita di donne, mogli e madri.
Irina è morta un mese dopo la serie di colloqui con l’autrice. Nonostante i grandi riconoscimenti ufficiali, i giornali russi non hanno speso una riga.
Dopo la guerra avrebbe voluto restare nell’esercito: le fu vietato.
Una donna può tutto racconta la storia gloriosa di un gruppo di donne che fecero a pezzi la divisione convenzionale dei ruoli nell’Unione sovietica, ma anche quella mesta di come quella norma soffocante fu poi silenziosamente ricostruita.
Ricorda che nessuna rottura è mai definitiva, perché il potere, ogni potere, è un muro di gomma che assorbe i colpi e sa riparare al momento giusto ogni lacerazione. Però ricorda anche che quella tela opprimente può sempre essere lacerata di nuovo.
[Andrea Colombo 15/02/2018]