sabato 30 dicembre 2017

Yeruldelgger, Ian Manook

Dei tratti somatici di Yeruldelgger non conosciamo quasi nulla, tranne la forza e la grandezza delle sue mani, ma sappiamo che è cresciuto a contatto con i nomadi della steppa prima di diventare commissario della polizia di Ulan Bator. E che nella sua vita il dolore e la violenza hanno lasciato tracce così profonde e inconsolabili da non farlo recedere di un solo passo, nemmeno di fronte al pericolo, mentre indaga su politici e imprenditori corrotti, mafiosi e neonazisti che imperversano nella Mongolia di oggi, sospesa tra tradizioni millenarie e minacce criminali tutte attuali.
Primo fortunato romanzo di una saga poliziesca giunta in Francia, dove ha già venduto oltre 200 mila, al suo terzo capitolo, Yeruldelgger. Morte nella steppa (Fazi, pp. 524, euro 16,50) è firmato da Ian Manook, pseudonimo di Patrick Manoukian, classe 1949, un viaggiatore, scrittore e giornalista di origine armena già attivo nel settore pubblicitario e dell’editoria per ragazzi.
Vincitore del premio Quai du Polar 2014 e considerato come uno dei nomi più interessanti del noir transalpino degli ultimi anni, Manook sarà ospite questa sera alle 21 del festival Letterature in corso alla Basilica di Massenzio a Roma.
«Yeruldelgger» è il primo noir mongolo di cui si abbia memoria. Perché scegliere proprio questo paese e un commissario cresciuto nella steppa per un romanzo scritto e pubblicato in Europa?
Ho cominciato a viaggiare per il mondo quando ero poco più che un adolescente, a metà degli anni Sessanta. Prima è venuta New York, quindi il classico coast to coast tra Stati Uniti e Canada, quindi l’Islanda, la Groellandia, il Brasile, l’Alaska e la Mongolia. Ho vissuto nel Bronx e, per più di un anno, nella foresta del Mato Grosso. E ancora oggi che ho più di sessant’anni ho conservato un spirito vagabondo e fricchettone. Ho scritto diverse cose prima di Yeruldelgger, libri di viaggio, racconti per bambini, anche un romanzo un po’ troppo serioso che infatti è rimasto in un cassetto. Perciò, quando mi sono convinto a scrivere finalmente un romanzo in cui potessi mettere un po’ delle mie passioni e delle mie esperienze, cercando di divertirmi nel farlo e di divertire e, se possibile, conquistare i lettori, ho subito pensato alla Mongolia che tra tutti i paesi che ho visitato e quello che mi ha stregato di più, mi ha fatto innamorare per i suoi paesaggi, la sua cultura e i suoi straordinari abitanti. Inoltre ho capito subito che tra le realtà che avevo conosciuto era quella più adatta per ospitare una storia fatta di omicidi e misteri: l’eredità vivente dello sciamanesimo che è ancora ben presente tra i mongoli mi avrebbe infatti consentito di sovvertire un po’ i codici abituali del giallo relativamente alla morte, alla violenza, al destino. C’erano tutti gli ingredienti per un lavoro appassionante.
Quanto alla genesi di questo libro, lei ha spiegato più volte di non essere mai stato particolarmente attratto dal genere poliziesco, quanto piuttosto dall’idea di mescolare il giallo e il suo inconfondibile ritmo narrativo con il romanzo d’avventura e di viaggio, con le storie picaresche, a volte al limite anche del western, e l’apparente paradosso di una terra per molti versi ancora misteriosa e sconosciuta, per quanto al centro di intrighi e mire economiche internazionali. Possiamo riassumere il risultato parlando di una sorta di noir dell’età della globalizzazione?
Andiamo con ordine. In effetti la mia frequentazione di questo tipo di romanzi si è fermata ai classici, e piuttosto al genere delle spy-story di Ludlum, Forsyth e Le Carré. Ho invece continuato ad amare le serie tv e i film polizieschi che mi sono serviti da ispirazione per la forma narrativa del libro, basato su un ritmo serrato e su capitoli brevi. In realtà, forte di queste suggestioni cinematografiche, avevo già immaginato di scrivere qualcosa su uno sbirro newyorkese, burbero e taciturno: una prima traccia di quello che è poi diventato il commissario Yeruldelgger. Però è vero che ho scritto il libro pensando ad un romanzo d’avventura e attingendo unicamente ai miei taccuini di viaggio in Mongolia: solo in qualche occasione ho dovuto aggiornare le informazioni sul paese e gli abitanti che avevo raccolto di prima mano. E allo stesso modo ho sempre avuto ben chiaro il piano per così dire «geopolitico» che doveva fare da sfondo all’indagine, che si trattasse di imprenditori stranieri senza scrupoli, di lavoratori cinesi, di neonazisti locali, degli speculatori immobiliari di Ulan Bator come dei nomadi della steppa. Perciò si, c’è anche qualcosa di molto globale nel mio primo thriller mongolo!
Nel romanzo non manca l’eco della tradizione mongola che ci è stata tramandata dalla storia, il tutto è però affrontato con grande lucidità, al punto che il commissario risponde così a un assassino che cerca di ammantare i propri crimini come il desiderio di un ritorno alla gloria del passato: «Credi di essere il nuovo Gengis Khan? Ma lo sai che se lui vivesse ai nostri giorni non sarebbe altro che un Kim Jong-un. Un dittatore squilibrato pronto a uccidere i propri figli solo per rafforzare le sue fantasticherie assassine». Voleva evitare il ricorso a facili mitologie identitarie?
Assolutamente. Siamo tutti il risultato di una qualche storia e tradizione culturale o famigliare, ma non necessariamente il prodotto di un luogo determinato. Io sono nato in Francia, ma in una famiglia armena e dietro di me c’è quella nozione di diaspora che gli armeni condividono con altri popoli che per la maggior parte della loro storia non hanno avuto un posto preciso dove vivere. E chi è cresciuto nella diaspora ha maturato un’altra idea di cosa rappresenti una civiltà, rispetto a chi lega il proprio essere ad un luogo preciso, ad uno specifico pezzo di terra. Che sia in Patagonia come in Siberia, se incontro un altro armeno so che sono le nostre tradizioni comuni, nel senso di abitudini e comportamenti quotidiani, a legarci: una sorta di filo collettivo che è sopravvissuto ai quattro angoli del mondo e nonostante tutto. Ed è con questo stesso sguardo che mi sono avvicinato ad un popolo e ad una storia che al contrario sono sempre rimasti legati, e talvolta anche prigionieri, della loro steppa.
La storia degli armeni è indissolubilmente legata al tentativo di genocidio perpetrato contro di loro dai turchi a partire dal 1915 e che questi ultimi continuano a negare contro ogni evidenza storica. Il testo inedito che lei leggerà questa sera a Roma verte sulla «costruzione della memoria»: si può davvero combattere per questa via il pericolo del negazionismo come quello dell’oblio?
Devo essere sincero, dopo che il mio editore italiano, Fazi, mi ha mandato una mail con il tema scelto per la serata, ho riscritto il mio intervento almeno tre volte. Non ero certo di aver capito bene, di aver inquadrato fino in fondo l’argomento. Alla fine ho optato per un testo più emotivo che ragionato, un testo a più voci, dove dopo un po’ non deve essere più chiaro se a parlare è una nonna, un figlio o una nipote. Sono partito dalla differenza che a mio avviso esiste tra i ricordi e la memoria: i primi sono come delle immagini fisse che si possono condividere, mentre la seconda riguarda il modo in cui tutto ciò si trasmette. Per essere più preciso: i ricordi sono come palloncini colorati che possiamo guardare mentre si levano nel cielo, la memoria è lo spago con cui decidiamo di tirarli a noi o di passarli a chi ci sta accanto. Solo attraverso quello spago i ricordi anche più lontani possono essere trasmessi a chi non ha l’età per averli vissuti e tornare ad essere materia vivente anche a distanza di tanto tempo. Quindi non credo che in realtà la memoria possa davvero essere «costruita» a tavolino, deve fluire liberamente, passare da una generazione all’altra, da un individuo all’altro. Ma quando questo avviene, quando quei palloncini passano di mano non una ma migliaia e migliaia di volte, allora credo proprio che l’oblio e chi vuole cancellare anche solo il ricordo di ciò che è accaduto non possano che essere sconfitti.
[Guido Caldiron 30/06/2017]

La verità è altrove. Complotti e stregoneria, Jean-Pierre Dozon

Redatto con un linguaggio accessibile, che non scade mai nel banale, giacché l’autore riesce a coniugare perfettamente la propria competenza di antropologo e il desiderio di condividere con i lettori l’esperienza intellettuale maturata negli anni, il saggio di Jean-Pierre Dozon dal titolo La vérité est ailleurs. Complots et sorcellerie (La verità è altrove. Complotti e stregoneria, edizioni della Fondation de la Maison des Sciences de l’Homme) analizza questioni di notevole spessore, che affondano le radici in mondi remoti, ma che mantengono un’incredibile pregnanza ovunque.
IN MODO ORIGINALE, il volume affronta, infatti, il tema della grande permeabilità e attualità di una logica «non scientifica» che pretende di spiegare le cause ultime di ogni evento – individuale e collettivo – riferendosi a cause oscure, quali la stregoneria (in Africa) o il complotto ordito da lobbies manipolatrici (nel mondo occidentale). Attraverso questa logica, spiega Dozon, si diffonde un pensiero globale che non contrappone più realtà e finzione, mondo visibile e mondo invisibile, ma li connette in termini di «doppio»: le cause «apparenti» di un fatto mascherano la «vera» origine dello stesso, da ricercarsi nell’influenza esercitata da potenze che, ai più, risultano inaccessibili. Qualche esempio permette di comprenderlo meglio: durante la recente crisi di Ebola nell’Africa occidentale (2014), parte della popolazione locale ha bollato gli operatori socio-sanitari quali possibili propagatori del virus, sorta di monatti inviati da forze nemiche per punirla o per ridurne l’energia vitale; medici e infermieri sono stati così accusati di spargere il contagio con gli stessi strumenti terapeutici con cui, pretestuosamente, dichiaravano di combattere l’epidemia.
Ma non è solo il continente africano a esprimere tale concezione cospiratrice: dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, l’allora presidente degli Stati Uniti, George Bush, ha parlato della necessità di costituire una crociata contro le forze del Male. Adottando un simile linguaggio, Bush rifletteva, quasi pedissequamente, il pensiero veicolato delle correnti cristiane neo-pentecostali, diffuse in America e non solo, che rimandano all’intervento nefasto e continuo, nel mondo, di entità diaboliche, da sgominare con il soccorso della fede, di cui sono portatori i «born again», i rinati alla comunità dei credenti.
Sussisterebbero dunque due ambiti che si sovrappongono, senza mai confondersi: quello degli iniziati (i quali conoscono la verità e sarebbero gli artefici di ciò che avviene, ma restano ben celati alla maggioranza) e quello della gente comune, resa cieca dall’ignorare quanto si svolge dietro le quinte. Per la sua ingenuità, quest’ultima è facilmente manipolabile, sia col ricorso a discorsi di ordine magico-religioso, passibili di scivolare, in specifici contesti sociali e culturali, in accuse di stregoneria, sia attraverso un «immaginario paranoide», magari virtuale, veicolato dai mass media (la televisione in primis) e dal cinema.
LO RAPPRESENTEREBBE, agli occhi di Dozon, appassionato spettatore di fictions (come ci ha confidato nel corso di una lunga intervista), il caso della fortunata serie X-Files, il cui sottotitolo – volutamente – l’antropologo ha ripreso nel suo scritto, per richiamare, in modo immediato, la visione di un mondo a due facce, dove misteriosi invasori, vicini e lontani, agiscono per turbare l’ordine stabilito.
Nato nel 1948, Jean-Pierre Dozon è oggi direttore di ricerca emerito all’Institut pour le Développement e direttore di studi all’École des Hautes Études en Sciences Sociale di Parigi. Per anni, ha lavorato in Africa occidentale, occupandosi di argomenti diversi, che spaziavano dallo sviluppo, all’etnicità e alla salute, ma ha poi concentrato i suoi interessi sui fenomeni religiosi legati al periodo postcoloniale. È quanto ha realizzato, in particolare, con una serie di missioni sul campo nella Costa d’Avorio, dove ha rivolto la sua attenzione ai profeti neotradizionalisti, fra cui va annoverata la figura del noto taumaturgo Gbahié Koudou Jeannot.
PERSONAGGIO emblematico, fautore di un cristianesimo sincretico e fortemente critico nei riguardi della Chiesa, accusata di non saper combattere il male, Gbahié, negli anni 1980, è stato il promotore, nelle regioni meridionali della Costa d’Avorio, di una lotta «draconiana contro il feticismo e la stregoneria» imperanti, che la crescita economica (il cosiddetto «miracolo» nazionale) non avevano spodestato ma, al contrario rafforzato. Lottando contro le forze del male con le sue armi mistiche, però, Gbahié, al pari di altri profeti, non ha fatto altro che esasperare la credenza in una dimensione invisibile onnipresente, sostituendo a pratiche tradizionali ormai desuete o da considerarsi deleterie, strumenti mistici consoni alla nuova epoca, più performanti, perché dotati di poteri e di un’efficacia inediti, propri al messaggio espresso nel Vangelo, mezzo di lotta per eccellenza, nella battaglia contro ogni intromissione satanica.
COME ILLUSTRA Dozon rispetto al caso ivoriano, analogo, sotto tale aspetto, a quanto sta capitando in altri paesi del continente, per molti africani, il successo personale – negli affari come in politica – non viene mai ottenuto solo grazie al proprio impegno, ma è sempre frutto del sostegno di forze invisibili, suscettibili di operare, con «interventi mistici», a favore di coloro che ne sanno invocare l’aiuto, ma capaci – in parallelo – di danneggiare tutti gli altri. Nella logica della stregoneria, proprio come in quella del complottismo, le accuse di azioni malevole e le voci di crimini rituali si susseguono senza possibilità di verifica o, meglio, la ricerca di prove incontrovertibili – la dimostrazione dell’efficacia dei «maraboutages», come vengono comunemente designate le pratiche magiche che implicano, da parte di chi le svolge, l’appello agli spiriti– passa per una logica che esclude a priori l’incredulità, il dubbio sull’esistenza del lato invisibile della realtà.
È L’ESTREMA «PLASTICITÀ» della stregoneria, sottolinea Dozon, la sua adattabilità al mutare dei tempi e al saper cogliere, sempre, i fattori di crisi, per poi leggerli e spiegarne l’origine, che attira una clientela forse tacciabile di superstizione, ma soprattutto timorosa e ansiosa di risolvere i problemi posti da un quotidiano difficile, che la sovrasta e dal quale dipende.
«Attraverso le loro produzioni complottiste – conclude l’antropologo francese nel suo testo – , a dispetto di nette differenze che traducono, rispettivamente, forza e debolezza, egemonia e subordinazione, gli Stati Uniti e l’Africa occupano posizioni antitetiche, ma concorrono, insieme, a provocare il medesimo effetto globale di grande confusione della frontiera tra realtà e finzione».
LA STREGONERIA AFRICANA, insomma, e il suo contraltare occidentale, la teoria complottista, finiscono entrambe per inserirsi a pieno nell’attualità del capitalismo globale, con la loro pretesa di essere in grado di spiegare qualsiasi fenomeno, rinviando regolarmente la verità degli eventi a un altrove nascosto sotto la superficie, dal profilo inquietante e diabolico. Si tratta di uno schema semplificato (e semplicistico) che contrappone in maniera rigida il bene e il male, generando perennemente il dubbio, il sospetto, la gelosia nei riguardi dell’altro, percepito – nella sua diversità o estraneità – come una potenziale minaccia dalla quale ci si deve difendere.
[Elisa Pelizzari 29/12/2017]

mercoledì 27 dicembre 2017

Il brodo indiano. Edonismo ed esotismo nel Settecento, Piero Camporesi

Piero Camporesi è stato uno dei grandi intellettuali del Novecento italiano. A vent’anni dalla sua morte, fa piacere leggere la ristampa di una delle sue opere più curiose: Il brodo indiano. Edonismo ed esotismo nel Settecento, edito dal Saggiatore (pp. 222, euro 21), che già da qualche anno va riproponendo alcuni suoi scritti.
Il libro si arricchisce di una prefazione di Franco Cardini, che all’opera di Camporesi aveva già dedicato un bel saggio nella miscellanea La bottega del professore, uscita nel 2015 per Libreriauniversitaria.
CAMPORESI è stato a lungo un marginale nella scena culturale e universitaria italiana, nonostante dal 1981 egli fosse professore ordinario di lingua e letteratura italiana all’università di Bologna; tuttavia, mentre oggi si fa un gran parlare di storia culturale e di interdisciplinarietà, è vero che nei decenni passati era difficile trovare una collocazione per qualcuno che, nato filologo e storico della letteratura, riusciva poi a muoversi perfettamente tra antropologia e storia, e in modo particolare la storia del corpo, del cibo, dei sapori, dell’olfatto.
SENZA TUTTAVIA mettere mai da parte lo sfondo sociale necessario per comprendere ogni fenomeno culturale. Il «brodo indiano» del titolo è la cioccolata: insieme al caffè, trionfo dell’esotismo che invadeva l’Europa a cavallo fra Seicento e Settecento. Ma il libro, ben più ampio nei temi proposti, parla del cambiamento nel gusto collettivo che si rileva in quel periodo.
«Il progressivo allontanamento del Settecento dal secolo precedente può essere avvertito osservando il passaggio dal gusto complicato, denso di aromi forti della cioccolata barocca a quello più semplice e lineare della cioccolata illuministica, preparata mescolando semplicemente zucchero e cacao con una leggera passata di vaniglia e cannella». Insomma, la cioccolata come simbolo di un’Europa che si apre al fascino dell’esotico (siamo infatti agli albori dell’Orientalismo), ma anche un’Europa nella quale la Francia va acquistando centralità sotto il profilo intellettuale, nonché del gusto.
È la moda francese a prevalere, lasciandosi alle spalle la tradizione rinascimentale, ormai avvertita come pesante, poco raffinata, inadatta. Il che relegava a un ruolo di secondo piano, al provincialismo, anche la «mensa larga» italiana, dove l’abbondanza continuava ad aver la meglio sulle raffinatezze transalpine, e dove si continuava a servire, nelle locande, «una minestra lenta o zuppa, uno stufato, un fritto, un arrosto».
SEMBRA DI SENTIRE echi di polemiche attuali fra nouvelle cuisine e trattoria, che sono forse l’onda lunga di antiche rivalità, culinarie e non. Segno che la storia del gusto è, come la intendeva Pietro Camporesi, molto più che un accessorio per comprendere passato e presente.
[Marina Montesano 27/12/2017]

domenica 10 dicembre 2017

Grazia Deledda

Grazia Deledda è stata una delle più importanti e influenti scrittrici italiane del Diciannovesimo e del Ventesimo secolo, e nel dicembre 1927 vinse il premio Nobel per la letteratura, la prima donna italiana a farlo. Deledda fu esponente, anche se a modo suo, del verismo e del decadentismo, e scrisse sempre molte storie di contadini e paesani della sua terra, la Sardegna.
Le sue prime pubblicazioni arrivarono quando non aveva ancora 20 anni e il suo primo libro di qualche successo fu Anime oneste, del 1895.
Conobbe il mantovano Palmiro Madesani, che sposò trasferendosi con lui a Roma. A Roma Deledda continuò a scrivere e pubblicare romanzi. Elias Portolu, uscito nel 1903,
 In pochi anni pubblicò moltissimi libri e opere teatrali, tra cui: Dopo il divorzio, Cenere, L’edera e Canne al vento.





lunedì 4 dicembre 2017

serata dedicata alla parola "bosco"

Il bosco è un topos letterario affascinante e vastissimo. La nostra serata è servita a stuzzicare la nostra curiosità, non certo a esaurire, neanche in parte, l’argomento, pur viaggiando tra classici e moderni, cultura alta e cultura popolare. Abbiamo cominciato con i boschi/ foreste di  Shakespeare, analizzando proprio l’ambiguità semantica delle due parole, usate in modo così diverso in inglese rispetto all’italiano. Sin dal primo medioevo forest ha indicato il concetto di zona naturale selvaggia, al di fuori della civiltà, ma anche quello di terreno di proprietà del sovrano e sua riserva di caccia, che includeva vaste aree boschive, ma anche farms e villaggi, sottoposto a speciali –e severe- leggi di forestry. Quindi, un termine che racchiude di per se stesso una contraddizione tra libertà e autorità.
Per Will Shakespeare, nato e cresciuto ai margini della Foresta di Arden, dove entrambe le famiglie, paterna e materna (gli Arden!) avevano antiche e forti radici, questi luoghi sono la sede di elementi selvaggi e di ribellione, dell’inversione delle norme sociali, caratterizzati da elementi di intrigo, pericolo e magia.
 Nelle commedie, As you Like it e A Midsummer Night’s Dream in particolare, la foresta ospita il mondo alla rovescia, un mondo di libertà sessuale e libertà dalle convenzioni sociali in senso lato, di scambio di ruoli e di genere sessuale, dove le donne (travestite da uomini…) conducono il gioco ed educano gli uomini al sentimento.
In questo inizio di età moderna, sta emergendo il contrasto tra città e campagna che si svilupperà nei secoli successivi: il bosco, quindi, assume un carattere pastorale, simboleggia la nostalgia per un tempo passato più semplice, e migliore. Tuttavia, anche in queste commedie si può facilmente percepire un senso di pericolo non dichiarato, che anticipa il ruolo della foresta come il luogo della tragedia e della violenza (Titus Andronicus – forse la più cupa e violenta delle opere di Shakespeare- Macbeth, King Lear).
Shakespeare certamente conosceva le ballate popolari che raccontavano le gesta dell’eroe della foresta per eccellenza, Robin Hood, anche se non è chiaro di che foresta si tratta: Sherwood, la più famosa, quella che per prima viene associata a Robin, in realtà appare nei cicli di racconti in un secondo momento, mentre i testi più antichi collocano le avventure del nostro nella Foresta di Barnacle. Qualunque sia la verità/leggenda accettata, anche qui la foresta è luogo ambiguo per definizione e status, luogo di vita semplice e allegra per i Merry Men di Robin, ma anche piena di insidie e pericoli, fuorilegge e violenza.
Un testo moderno che racconta molto bene le foreste inglesi è The Forest, di Edward Rutherfurd, che racconta la storia della New Forest dall’undicesimo secolo ai giorni nostri. Un romanzo storico-fiume che fa vivere al lettore questo posto meraviglioso, che vanta la maggior concentrazione di alberi antichi nell’Europa Occidentale, con querce che arrivano a 800 anni e tassi ultra-millenari.
Ci siamo soffermati poi sul classico americano ottocentesco Walden , or the Life in the Woods (Walden ovvero la vita nei boschi) di Henry D. Thoreau, un testo che, malgrado –o forse proprio per quello- la retorica fuori moda della scrittura, esercita ancora un certo fascino sulle nuove generazioni. Rimanendo nell’ottocento, ma di qua dell’Atlantico, abbiamo seguito Alice in Wonderland, nel bosco del Paese delle  Meraviglie, popolato di gatti misteriosi, Cappellai Matti e Lepri Marzoline….
Cambiando completamente genere e secolo, ecco l’asciutto racconto della scrittrice olandese Hella Hassee, Genius Loci, che descrive la presa di coscienza individuale di una donna matura a contatto con la natura di un antico bosco nell’Europa del Nord.

Per quanto riguarda la letteratura italiana, abbiamo convenuto di concentrarci sull’ Orlando furioso, seguendo Angelica in fuga nella selva minacciosa che si trasforma poi in natura accogliente e protettiva. Ariosto rende il bosco simbolico rinascimentale al suo meglio.

Abbiamo poi visto il Dottor Zivago di Pasternak alle prese con la guerra, in cerca di pace nel bosco, e il giovane protagonista di Kafka sulla spiaggia di Murakami Haruki alla ricerca di se stesso nel folto della foresta spazio-temporale che catalizza i principali eventi e personaggi del romanzo. Siamo stati nell’inquietante villaggio circondato da boschi, ma da cui tutti gli animali sono scomparsi, nella cupa fiaba di Amos Oz, D’un tratto nel folto del bosco.
Abbiamo anche parlato di fiabe tradizionali, dei Grimm in particolare: in quasi ogni fiaba c’è un bosco! E di musica pop dei tempi passati, quando il bosco era collegato al pericolo di perdere l’onore…
Ci sarebbe voluta l’intera notte per continuare a parlare della selva oscura di Dante, delle foreste magiche del Ciclo Arturiano dove vagano Percival e Tristano, dei Sentieri dei nidi di ragno e del Barone rampante di Italo Calvino, degli allegri musici di Thomas Hardy in Under the Greenwood Tree (e qui chiudiamo il cerchio tornando a Shakespeare) eccetera, eccetera…

Troppo per una sola serata.