mercoledì 25 ottobre 2017

prossimo incontro



Carissim*,
in attesa di definire l'ordine di lettura dei libri proposti, nel secondo incontro della stagione ci inoltreremo in una selva oscura (più che appropriata, vista l'età media nel gruppo...).
Su proposta di Ida, confronteremo i nostri amori letterari collegati alla parola BOSCO.
A breve vi farò sapere data e luogo della riunione. Nel frattempo, riflettete e raccogliete materiale.
A presto
Silvia

mercoledì 11 ottobre 2017

Fiera di Francoforte

Non è solo la Francia ospite d’onore alla Fiera internazionale del libro di Francoforte, ma più in generale il mondo della francofonia, dall’Africa ai Caraibi, passando per il Maghreb. L’edizione di quest’anno dedica ampio spazio a scrittori di lingua francese il cui percorso personale e artistico si confronta con il fenomeno sempre più attuale e globale della migrazione. È il caso del congolese Alain Mabanckou, nato nel 1966 a Pointe-Noire, studente a Parigi negli anni Ottanta e oggi professore alla Ucla (dove insegna Letterature francofone), acclamato autore di una decina di romanzi e di altrettanti saggi.
NELLE SUE OPERE, popolate da nomadi e migranti, Mabanckou fa sfoggio di una straordinaria creatività linguistica e letteraria, giocando su pastiche e citazioni letterarie, o ancora facendo uso di un’oralità esuberante e grottesca, come nel celebre Verre cassé (Pezzi di Vetro, 66thand2nd, 2015), volutamente sgrammaticato e privo di punteggiatura. L’originalità dei suoi romanzi e l’uso singolare della lingua francese, fanno di Mabanckou uno degli autori più apprezzati del panorama contemporaneo: è stato, fra l’altro, il primo autore africano a ricoprire una cattedra al Collège de France, nell’anno accademico 2015-2016.

ALL’INSEGNA delle migrazioni anche il percorso di un altro invitato alla Buchmesse, il gibutiano Abdourahman  A. Waberi, partito dal corno d’Africa per arrivare, dopo un lungo soggiorno in Francia, a Washington, dove insegna Letterature francofone e scrittura creativa alla George Washington University. Per definirsi, e definire gli scrittori della sua generazione, Waberi ha inventato il concetto di «figli della postcolonia», a indicare quegli autori che non hanno vissuto direttamente il periodo coloniale e le cui preoccupazioni sono molto diverse da quelle dei predecessori letterari.

Tra le firme del panorama francofono internazionale, parteciperà alla Fiera di Francoforte anche Dany Laferrière, autore haitiano emigrato in Québec, la cui recente elezione all’Académie française testimonia l’interesse crescente per il mondo francofono extra-europeo da parte delle istituzioni culturali francesi. Laferrière è noto per i suoi romanzi dal sapore urbano, in cui s’incrociano i destini di personaggi migranti dalle avventure picaresche, a tratti drammatiche, a tratti divertenti. Tra gli scrittori americani francofoni figura anche l’antillano Patrick Chamoiseau, autore di numerosi romanzi che raccontano i Caraibi come specchio del métissage globale, in una sofisticata tessitura linguistica ricca di giochi, immagini e invenzioni basati sul creolo della Martinica.
NON MANCANO gli autori di origine maghrebina, da sempre molto presenti nel panorama letterario francese: ci saranno volti noti – come quello di Tahar Ben Jelloun, prolifico autore marocchino emigrato a Parigi – e meno conosciuti, come la giovane Leïla Slimani, la cui seconda prova narrativa Chanson douce (Ninna nanna, Rizzoli), narra il lato oscuro della maternità attraverso il racconto di un infanticidio. Interessante sarà anche seguire Kaouther Adimi, che s’inserisce nella linea consolidata degli autori francofoni di origine algerina raccontando la vita all’interno di un vecchio palazzo nel cuore di Algeri in un romanzo fuori dagli schemi, L’envers des autres (2011), tradotto quest’anno in italiano (Le ballerine di papicha, Il Sirente).
FRA GLI ESORDI eccellenti, quello della scrittrice di origine iraniana Négar Djavadi, autrice di un romanzo pluripremiato, Désorientale (Disorientale, e/o), dove in un raffinato intreccio mescola il passato dell’Iran al presente della Francia, affrontando in questa saga famigliare il complesso tema dell’identità e dell’integrazione delle «seconde generazioni», spesso vittime del ritorno di quei fondamentalismi che negli ultimi tempi si sono riaffacciati con prepotenza sulla scena politica e sociale francese.

Ad arricchire il romanzo di Djavadi contribuisce la riflessione sull’identità di genere e sulla procreazione assistita. Un programma di grande eterogeneità e ricchezza, dunque, quello che la Buchmesse riserva alla Francia contemporanea multietnica e alla comunità francofona internazionale in continua evoluzione.
[Ilaria Vitali 11/10/20.17]

Delitto di una notte buia,

«Lei stava morendo; era morta; e lui rimase lì, in ginocchio, immobile. Gli portarono la figlia maggiore, Ellinor, disperati, perché non sapevano cos’altro fare per ridestarlo. Non pensarono alle conseguenze che la cosa avrebbe avuto sulla piccola, che era stata chiusa nella stanza dei bambini nel corso di quell’intensa giornata di confusione e di paura. La bambina non aveva idea di cosa fosse la morte, e suo padre, inginocchiato e con gli occhi asciutti, non era per lei motivo di sorpresa o di interesse più della madre, che giaceva immota e bianca, e che non volgeva il viso per sorridere al suo tesoro».
SIAMO QUASI AGLI INIZI di uno tra i romanzi meno noti di Elizabeth Gaskell, eppure estremamente ricco di spunti di riflessione e di fascino: Delitto di una notte buia (edizioni Croce, a cura di Francesco Marroni, traduzione di Mara Barbuni, pp. 280, euro 19,90). È un libro atipico, non per quanto riguarda la scrittrice – anzi si rivela altamente rappresentativo della sua poetica connotata da un preciso e asciutto realismo che non scende mai a compromessi con il sensazionalismo – ma per quanto riguarda il presunto genere di appartenenza.
Il titolo farebbe pensare ad ammiccamenti al romanzo post-gotico, e in effetti, come ben spiega il curatore in una esaustiva e accurata introduzione, l’aggettivo buia fu aggiunto da Dickens prima della stampa, per via di bieche considerazioni di cassetta. Di fatto, Gaskell è una scrittrice più interessata ai percorsi e sentieri oscuri dell’animo che alle labirintiche trame del romanzo di suspense. In questo, ricorda più il Dostoevskij di Delitto e castigo che un Wilkie Collins de La pietra lunare o La donna in bianco.
La sua è una narrazione eminentemente psicologica, e ciò rispondeva alle intenzioni dell’autrice ancor prima che ai suoi interessi di osservatrice attenta alla realtà che la circondava. Il che vale per i suoi cosiddetti romanzi sociali, ma anche e soprattutto per questo racconto che ha al centro un delitto.
Un delitto compiuto per esasperazione, per sfinimento, lo sfinimento del protagonista, un avvocato di provincia, che perde gradualmente interesse per la sua professione e, dandosi all’alcol, vive una degradazione morale che in qualche senso ricorda echi wildiani dalle scene più dark del Dorian Gray.
IL PROTAGONISTA è affiancato dalla figlia e da un giovane collega, entrambi figure del silenzio: il silenzio della crisi in cui si rifugia Ellinor, scosso all’occorrenza da una visita in Italia, e quello di Dunster, l’assistente dell’avvocato che gradualmente diviene sempre più influente nelle dinamiche dello studio. Il suo di silenzio ricorda anche la renitenza ad esprimersi di un Bartleby, ed è forse lontanamente apparentato a quello in cui si rifugia Iago, bensì, come spiega Marroni, «sarebbe del tutto fuorviante immaginare Mr. Dunster come la classica figura del cattivo che trama contro gli altri, che porta scompiglio e, alla fine, produce solo devastazione, dolore e morte. Dunster non rientra in tale tipologia. Non è un villain né è un repellente e untuoso Uriah Heep. Rispetto ai molti discorsi che circolano a Hamley, l’impiegato è una figura che pratica il silenzio come strategia, senza mostrare eccesso di ossequiosità o ipocrisia».
A differenza di Dunster, Ellinor ha attraversato il dolore della perdita e dell’abbandono, acuito dal percorso di autodistruzione intrapreso dal genitore. Quello di Elizabeth Gaskell è realismo psicologico che punta sulle omissioni e sui sensi di colpa, e mette in secondo piano altri aspetti che hanno reso importante il genere della narrativa incentrata su crimini e misfatti. Il suo crime novel è interessato agli sbandamenti e alle peregrinazioni della mente, rivelandosi modernissimo nel tentativo di rappresentare la realtà anche attraverso una disamina della sua parte invisibile e indicibile.
Un tipo di narrazione del non detto che però non rinuncia all’ambizione di coinvolgere il lettore, ovviamente. Tuttavia, vuole incontrare il suo interesse non indulgendo in tecniche se vogliamo ascrivibili al facile sensazionalismo.
CIÒ È EVIDENTE nella primissima parte del romanzo. Il lettore riconosce immediatamente di essere di fronte a una narrazione che si rifiuta di pescare nel torbido del mistero. È il caso persino della descrizione stessa del fattaccio, ma soprattutto del modo in cui, molti anni più tardi, ne verrà incriminato un innocente, prima della soluzione finale affidata a un messaggio inatteso e chiarificatore.
VA DETTO CHE RISPETTO al romanzo gotico, qui la suspense non è generata dal riconoscimento lento e graduale di quel che accade sulla scena, ma dalle complicazioni sul piano psicologico. Si tratta di uno stratagemma realista, ovviamente, ma anche rischioso, e Elizabeth Gaskell dimostra grande coraggio nel non soggiacere alle regole del genere, e a quelle che oggi chiameremmo le sirene del mercato.
Come tanti romanzi inglesi del periodo non manca poi un finale rassicurante, sebbene la comparsa finale di due bimbi descritti come folletti – e si ricordi che in inglese i fairies possono anche essere spiritelli malvagi – lascia probabilmente il campo aperto a speculazioni meno consolatorie.
[Enricop Terrinoni 11/10/2017]

martedì 10 ottobre 2017

primo incontro

E' tutto pronto. 
Si riprende.
Appuntamento da Silvia per commentare questo  taccuino dove Brodskij annota pensieri ed episodi delle sue frequenti incursioni veneziane, la città che più di ogni altra si approssima ad un “Paradiso visivo”, “la città dell’occhio”, dove le altre facoltà vengono in seconda linea :
In questa città l’occhio acquista un’autonomia simile a quella di una lacrima. L’unica differenza è che non si stacca dal corpo, ma lo subordina totalmente. Dopo un poco – il terzo o il quarto giorno dopo l’arrivo – il corpo comincia a considerarsi semplicemente il veicolo dell’occhio, quasi un sottomarino rispetto al suo periscopio che ora si dilata e ora si contrae. Certo, ci sarebbero molti bersagli, ma tutti i colpi ricadono sul sottomarino stesso: è il cuore che affonda, o la mente, se si vuole, mentre l’occhio torna sempre a galla.

venerdì 6 ottobre 2017

Ishiguro, Nobel letteratura

Stringere in una metafora di ampio respiro narrativo le questioni emotivamente più dolenti – non fatti privati, ma emergenze sociali di portata per nulla contingente – sembra essere la costante dei romanzi di Kazuo Ishiguro, ieri premiato con un meritatissimo Nobel, che guarda alla sua «scoperta dell’abisso sottostante il nostro illusorio senso di connessione con il mondo», e – al tempo stesso – porta all’evidenza la smagliante scrittura dell’autore inglese, l’eleganza della sua prosa, il virtuosismo delle sue digressioni, a volte capaci di ospitare enfatiche amplificazioni di piccoli gesti quotidiani – umili rituali come quelli di un maggiordomo in Quel che resta del giorno o di un facchino in Gli inconsolabili.

A DIMOSTRAZIONE di quanto meditate siano le urgenze narrative di Ishiguro basterebbero i dieci anni trascorsi tra il suo ultimo romanzo, Il gigante sepolto, e quello precedente, Non lasciarmi (come tutti pubblicati da Einaudi, nelle splendide traduzioni di Susanna Basso), entrambi proiettati in una apparente fuga temporale – nel passato il primo e nel futuro il secondo – sebbene riguardino, di fatto, il nostro presente, ancorché sotto mentite spoglie.
Ambientato negli anni Novanta, Non lasciarmi ruota intorno alle vicende di tre giovani – Kathy (voce narrante), Tommy e Ruth – che, allevati in un collegio immerso nella campagna inglese, sono in realtà cloni, la cui funzione di donatori di organi li assegna a una fine precoce e, almeno entro certi limiti, rassegnata. Lo stesso autore chiarì che l’idea di mettere in scena dei cloni gli avrebbe consentito di affrontare in un modo inusuale alcune storiche questioni che affollano molti tra i testi letterari a lui più cari: cosa è un essere umano, se esista l’anima, quale sia lo scopo della nostra vita, domande che suonano familiari nei grandi romanzi russi ma per le quali Ishiguro lamentava la mancanza di un lessico intonato alla sua generazione. E fu così che diede forma a quella realtà parallela incarnata dai cloni.
AL POLO OPPOSTO del tempo, una fiaba sospesa nelle nebbie medievali dell’Inghilterra ancora divisa tra Bretoni e Sassoni: Il gigante sepolto, uscito nel 2015, affronta una domanda cruciale come lo sono le domande senza tempo, ossia se la lucidità dei ricordi sia sempre auspicabile o se non sia a volte più proficuo varcare la soglia dell’oblio, dove insieme ai fatti si allontana anche il risentimento che spesso li accompagna.
L’epoca del romanzo, quasi un fantasy, è di poco posteriore alla morte del leggendario re Artù: la pace regna ora tra i popoli immemori delle ragioni che li avevano portati a odiarsi, così come emancipati del loro passato sono tutti gli uomini e le donne della contrada, avvolti dal fiato della femmina di un drago, che ha ricoperto di impenetrabili velature i loro ricordi. Protagonisti, due poverissimi vecchi uniti da un amore incrollabile, che decidono un giorno di intraprendere – in quella terra popolata di orchi, folletti e creature sinistre – un viaggio per ricongiugersi al figlio, che forse li aspetta in un altro villaggio.
Molte diverse figure si materializzano sul fondale dove si muovono i due vecchi, finché nel corso del viaggio il drago verrà raggiunto, stanato e ucciso, mettendo fine all’incantesimo che avvolgeva la memoria di Sassoni e Britanni, ora dunque di nuovo nemici.
Ishiguro raccontò nel nostro incontro più recente a Mantova – era il settembre del 2015 – di avere scritto il romanzo «pensando a quanto è successo in Bosnia e in Ruanda negli anni Novanta: proprio ricordando queste popolazioni che vivevano in una pace evidentemente fittizia, e che quasi all’improvviso si sono ritrovate al centro di tremendi conflitti, ho messo in scena la convivenza precaria di Bretoni e Sassoni. Il mio – chiarì – è un tentativo di defamiliarizzare cose familiari, per far vedere in modo efficace fatti ai quali siamo tanto abituati da non accorgecene più».
NON ERA LA PRIMA volta, del resto, che Ishiguro metteva i suoi personaggi nelle condizioni di perdere la memoria: accade a Ryder, il protagonista degli Inconsolabili, un romanzo datato 1995, e anche al narratore di «A village after the dark», il racconto che pubblicò nel 2001 sul New Yorker, a dimostrazione di quanto questo assillo sia presente da sempre nella coscienza dell’autore inglese, che fin dai suoi esordi si è concentrato sulle strategie adottate da tutti noi per venire a patti con la nostra memoria, facendone una chiave per aprire mondi interni e insospettabili.
«Sia in Un artista del mondo effimero che in Quel che resta del giorno – ha detto – analizzavo il modo in cui anche la persona più idealista, anche chi è dotato delle migliori intenzioni può a volte contribuire, senza rendersene conto, a azioni nefaste; e da qui sono passato a tentare di capire quanto sia difficile distinguere una buona causa da una che non lo è».
SONO QUESTIONI che rimandano, in fondo, alla evoluzione di un altro tema ricorrente soprattutto nei primi tre romanzi di Ishiguro – Un pallido orizzonte di colline del 1982, Un artista del mondo effimero, del 1986 e Quel che resta del giorno, del 1989 – quando la preoccupazione principale sembrava essere quella di come mettere in scena personaggi alle prese con i loro errori: ciò che all’autore interessava era non tanto il tipo di sbagli commessi, ma il processo di riconoscimento dell’errore, l’approdo alla consapevolezza: «è molto stimolante – disse al tempo della pubblicazione degli Inconsolabili – indagare l’inganno che spesso si vuole perpetrare nei confronti della realtà che ci circonda. Simpatizzo con coloro che sentono l’esigenza di mentire a se stessi per riuscire a sopportare l’insopportabile: se si dovesse ammettere che la propria esistenza è stata sprecata, verrebbe a mancare il coraggio di andare avanti. Ma ciò che più mi interessa è il conflitto intrinseco a due aspetti del carattere: quello che porta a volere riconoscere i propri errori e l’altro che fa desiderare di continuare a nasconderli».
Ambientato in una piccola città dell’Europa centrale, una città senza nome, Gli inconsolabili ruota intorno alla riabilitazione di un vecchio direttore d’orchestra, da tempo dedito a dissipare nell’alcol il suo talento. L’uomo verà guidato a una difficile redenzione dalle cure ossessive e un po’ sinistre di un maître d’albergo, responsabile dell’organizzazione di un grande concerto ai cui preparativi partecipa, in commossa fibrillazione, l’intera cittadina; perché su quel proscenio si giocherà, insieme al climax affidato al successo del direttore d’orchestra, la riconquista collettiva della felicità perduta.
SE I PRIMI ROMANZI di Ishiguro rivelano ancora – nella tradizione incarnata dagli scrittori vittoriani – la priorità dell’investimento sulla trama e sugli eventuali colpi di scena, una maggiore sicurezza ha reso via via più lento l’incedere della sua scrittura, aperta a magnifiche digressioni. Anche l’ironia, spesso portata agli estremi della comicità, fa parte dei registri di Ishiguro: «Credo che derivi soprattutto dalla distanza che metto tra me e le mie voci narranti, le quali solo fino a un certo punto sanno cosa stanno dicendo. In un certo senso, tra il lettore e l’autore c’è una intesa tale per cui sono entrambi a conoscenza di qualcosa di più di quanto sa il narratore. Quel che tento di fare è conferire a determinate scene una tonalità da commedia».
E tuttavia, quel distacco emozionale che è imperativo nella traslazione romanzesca dei fatti della vita di ogni scrittore, lascia intravedere una malinconia che Ishiguro non rinnega, e anzi interpreta stringendola in una frase seminata tra le pagine di Quando eravamo orfani, il suo quinto romanzo, uscito nell’anno 2000: «Quando cresciamo, la nostra infanzia si trasforma in una terra straniera». Nessun riferimento all’approdo inglese dal Giappone dove era nato, piuttosto la nostalgia «di una infanzia protetta, di una cospirazione finalizzata a far credere ai bambini che il mondo sia un luogo molto bello. Chi ha avuto l’opportunità di vivere in questa specie di bolla di felicità, ed è stato poi costretto più o meno bruscamente a uscirne, conserva il rimpianto per quella bugia gentile».
ISHIGURO PARLAVA del suo romanzo, ma più in generale delle proprie convinzioni: era seduto su un divano appoggiato alle pareti spoglie dell’Hempel Hotel di Londra, il cui ingresso esibiva una aiuola con quarantanove orchidee bianche (sette volte sette, il numero eletto della filosofia Feng Shui), dove ci incontrammo nel settembre del 2000. Quando eravamo orfani era appena uscito e riproponeva la ricapitolazione di una vita, insieme al rimpianto di non potere recuperare quel che il tempo ha portato via con sé. Voce narrante, un grande detective inglese di nome Christopher Banks, che rievoca la sua infanzia a Shanghai, quando con i genitori e l’amico giapponese Akira consumava l’idillio dei suoi anni migliori. Intanto, fuori dai lussuosi confini della Concessione Internazionale, nei quartieri cinesi, ogni giorno migliaia di nuovi adepti venivano guadagnati alla causa dell’oppio: tossicodipendenza, miseria e degrado crescevano insieme agli enormi profitti derivati dalle importazioni dall’India, di cui erano responsabili svariate compagnie internazionali, non ultima quella alle cui dipendenze lavorava il padre di Christopher.
Poi, una precipitazione della trama fa sì che il romanzo si trasformi nel più convenzionale fra quelli concepiti da Ishiguro, dove le svolte dell’intreccio hanno un ruolo cruciale. «In un certo senso – spiegò – ho pensato che una cornice tradizionale mi avrebbe dato modo di prendermi licenze maggiori, di introdurre delle stranezze».
Nelle critiche che sono state rivolte ai libri dello scrittore ieri premiato con il Nobel, si è citata spesso quella che è invece, patentemente, una qualità: il fatto che la sua sia una prosa molto controllata, dove emozioni fin troppo sorvegliate filtrano in uno stile impeccabilmente privo di increspature, di «sporcature» lessicali. Ishiguro riconduce queste peculiarità della sua scrittura al fatto che entrambe le culture nelle quali è cresciuto, quella giapponese e quella inglese, tendono a privilegiare il contenimento delle emozioni.
FORSE ANCHE QUESTA amministrazione vigile delle sue urgenze psichiche ha contribuito a permettergli, nell’età del narcisimo, dieci anni di assenza dalle scene della letteratura, prima che si ripresentasse, nel 2015, con un romanzo completamente diverso da tutti i suoi precedenti: straniante, per certi versi remoto come una fiaba, e tuttavia ancora una volta abilmente allusivo dei nostri dubbi privati e dei drammi di intere popolazioni in guerra.
[Francesca Borrelli 06/10/2016]

giovedì 5 ottobre 2017

IUS SOLI

Lo scorso anno sono arrivati in Italia circa 26mila minori non accompagnati. Quest’anno “solo” circa 13.400. Ecco, dei migranti non arrivati, una parte significativa ora si trova in Libia, in quei centri di detenzione definiti orribili da tutte le organizzazioni per la tutela dei diritti umani. Ragazzi e bambini come quegli 800mila figli di stranieri nati e cresciuti nel nostro Paese a cui non viene riconosciuto il diritto a una cittadinanza piena. Nella storia c’è un precedente a tutto, ma quella che si configura appare una sorta di guerra ideologica contro i minori: e questo sì, rappresenta un fatto storico senza precedenti.
Eppure qualcosa si deve fare per non doverci amaramente rammaricare, tra qualche mese o qualche anno, della nostra impotenza o ignavia.
E se – come molti segnali sembrano confermare – questi sono giorni decisivi per la sorte dello ius soli è necessario provare ad impedire che si chiuda lo spiraglio, pur esile, che sembra essersi aperto. E’ per questo motivo che, a partire da oggi, 5 ottobre, iniziamo uno sciopero della fame a staffetta senatori e deputati, insieme a tutti quei cittadini che ritengono quella sullo ius soli una legge ragionevole e saggia.
L’iniziativa raccoglie il testimone del digiuno attuato lo scorso 3 ottobre (giornata nazionale in memoria delle vittime delle migrazioni) da oltre 900 insegnanti in tante scuole italiane a sostegno della legge. Infatti, dopo l’approvazione della nota di aggiornamento al Def, si apre una finestra.
La legge di stabilità arriverà alle Commissioni del Senato verso la fine di ottobre: ciò vuol dire che vi sono due settimane di tempo per ricercare i numeri necessari alla fiducia sul provvedimento relativo alla riforma della cittadinanza.
Ed è esattamente in queste settimane che si svolgerà la nostra iniziativa di digiuno a staffetta. Hanno aderito già decine di senatori e deputati, il ministro Graziano Delrio e i sottosegretari Benedetto Della Vedova e Angelo Rughetti, oltre ai dirigenti di Radicali italiani. Ma ciò che ci aspettiamo è l’adesione e la partecipazione attiva di tanti cittadini. Si tenga conto che quello stesso periodo di tempo coincide con la fase conclusiva della campagna «Ero straniero. L’umanità che fa bene» e della relativa raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare finalizzata al superamento della “Bossi-Fini”.
I due obiettivi potrebbero – e dovrebbero – sostenersi e incentivarsi a vicenda. E si ricordi che il pomeriggio del 13 ottobre, a partire dalle ore 15, davanti a Montecitorio è prevista una manifestazione, promossa dalla rete degli «Italiani senza cittadinanza», alla quale sarebbe importante che molti partecipassero.
Si tratta, ne siamo consapevoli, di una prova difficile ma che vale la pena affrontare. Una sfida che riguarda le parole e i pensieri e la rappresentazione di fenomeni che fanno parte della nostra vita e della nostra contemporaneità. D’altra parte «tutte le grandi rivoluzioni della vita umana avvengono nel pensiero», come scriveva Lev Tolstoj.
E nella dimensione del pensiero, lì dove si formano idee e sentimenti, l’intolleranza etnica può trovare lo spazio per covare e svilupparsi. Ma anche quello per essere contrastata e sconfitta.
Per aderire allo sciopero della fame per lo Ius soli bisogna comunicare la propria partecipazione al link 
[ Luigi Manconi, Antonella Soldo 05/10./2017]