giovedì 28 settembre 2017

primo incontro 10 ottobre

Carissim*.
inauguriamo la nuova stagione martedì 10 ottobre, dalle 21 in poi, con Fondamenta degli Incurabili, di Iosif Brodskij.
Ci troviamo a casa mia: aspetto le vostre conferme.
A presto
Silvia
  •  http://www.biblioteca-spinea.it/blog/2017/09/02/fondamenta-degli-incurabili-di-brodskij-per-la-maratona-il-veneto-legge-allenamento-2/
  • http://www.turismoletterario.com/blog/leggere-prima-di-partire-per-venezia-fondamenta-degli-incurabili-di-iosif-brodskij/ 
  • http://signoradeifiltri.overblog.com/2017/08/fondamenta-degli-incurabili-di-josif-brodskij.html
  • http://infabulalibri.blogspot.it/2014/06/fondamenta-degli-incurabili-iosif.html
  • http://ettorefobo.blogspot.it/2012/01/fondamenta-degli-incurabili-iosif.html

mercoledì 27 settembre 2017

Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane», Massimo Carlotto

Marco Buratti, Rossini e Max sono a caccia. La preda è Giorgio Pellegrini, il personaggio, come d’altronde gli altri tre, creato da Massimo Carlotto che nelle intenzioni dello scrittore incarna il «male assoluto». Giorgio Pellegrini è, infatti, un sadico che umilia e talvolta uccide le donne, ma è anche l’uomo che, tornato da un esilio forzato per i suoi trascorsi di militante extraparlamentare, ha gettato alle ortiche il passato, diventando un criminale dei tempi presenti.
FA AFFARI CON LE MAFIE internazionali, è in combutta con politici e professionisti corrotti e protagonisti di appalti truccati, riciclaggio di denaro sporco, traffico di rifiuti tossici. Buratti, Rossini e Max hanno promesso di farlo fuori per quello che ha fatto nella sua nuova vita. I tre costituiscono una «banda» che si muove al di fuori della legalità costituita, mossa tuttavia da un concetto di giustizia con non coincide con la legge, perché corrisponde a una visione dell’umano vivere dove non c’è posto per la sopraffazione e lo sfruttamento. Per questo pensano che giustizia vada fatta, togliendo di mezzo Giorgio Pellegrini. Si spostano quindi in Austria, dove il «ricercato» si è rifugiato dopo essere scampato per un pelo alla morte per mano dei tre protagonisti di questo nuovo romanzo di Massimo Carlotto.
IL TITOLO CALZA A PENNELLO per i personaggi di Carlotto: Blues per cuori fuorilegge e vecchie puttane (edizioni e/o, pp. 288, euro 16). Il blues è infatti la colonna sonora dei noir dello scrittore, i cuori fuorilegge sono di coloro che stanno sempre dalla parte del torto, frase che torna spesso in questo romanzo. Marco Buratti è un investigatore privato senza licenza, finito in galera per una storia dove sono forti i sospetti che sia stato incastrato; Rossini è un fuorilegge della vecchia guardia; ne ha fatte di cotte e di crude, ma all’interno di un codice di onore che rispetta e che gli impone di non fare affari con narcotrafficanti, sfruttatori della prostituzione, mafie varie e politici collusi con la criminalità organizzata. Max è invece un militante del movimento che ha provato assieme ad altre decine di migliaia di attivisti ad assaltare il cielo.
È caduto facendosi male, cioè finendo in galera grazie a un pentito che mai aveva conosciuto in vita sua. Condivide con i suoi amici una certa visione della giustizia, ma tra i tre personaggi è l’unico che continua a pensare che la politica significhi condividere con altri il bisogno e il desiderio di cambiare la realtà.
Giunti a Vienna, i tre amici riescono quasi ad acciuffare Giorgio Pellegrini, ma non sanno che nel frattempo è diventato un «consulente» del ministero degli interni, che lo usa come possibile infiltrato in una organizzazione criminale che nelle stanze del potere hanno deciso di smantellare perché troppo ingombrante. Conoscono una spregiudicata funzionaria del ministero, li vuol usare per proteggere il «cattivo», minacciandoli di incastrarli e sbatterli in galera assieme a un onesto e integerrimo poliziotto di provincia che, in passato, ha «collaborato» con i tre per mettere fine a una storia di violenza e di malaffare.
DUNQUE UN ROMANZO sul filo del rasoio, scandito da una Vienna apparentemente fuori dai flussi della criminalità organizzata internazionale. Ma sotto la patina di rispettabilità c’è di tutto: narcotrafficanti, traffico di donne, avvocati che garantiscono identità posticce ma pulite a qualche mafioso in fuga. Marco, Rossini e Max sanno che in gioco c’è anche la loro vita. E sfruttano sia le conoscenze che hanno sia i nuovi «strumenti» delle mafie, come gli smanettoni che conoscono bene come muoversi nella rete e nel deep web: raccolgono e diffondono notizie preziose per aiutare un «amico» o screditare un nemico.
L’ITALIA È SULLO SFONDO. Un paese alla deriva, ostaggio di un sistema politico difficile da distinguere dalla criminalità organizzata e da una società impoverita, triste, ripiegata su se stessa, quasi in attesa di una «apocalisse» rigenerativa. Non se la cavano bene neppure gli altri paesi. L’Austria è marcia, anche se la sua putrefazione è coperta da un patina di rispettabilità. Il resto dell’Europa? Meglio lasciare perdere. Dopo la breve stagione che vagheggiava un continente federalista è tornata a essere uno spazio segnato da egoismi nazionali e da una feroce logica di potenza di questo o quel paese.
Come sempre accade nei romanzi di Massimo Carlotto, il noir non è un genere neutro. Allo scrittore serve per tessere trame avvincenti di storie più o meno criminali, ma anche per raccontare lo stato delle cose. E come accade in alcuni suoi romanzi, il disincanto e il cinismo si fanno largo tra le pagine, quasi a diventare i sentimenti dominanti di questo inizio millennio. Illuminante è il personaggio della funzionaria di polizia: arrogante, presuntuosa, che si muove come se lo Stato fosse una cosa sua, come se l’operato della polizia fosse al di sopra di tutto perché garante della ragion di stato.
Tutti sono da trattare come sudditi, cioè oggetti da sacrificare, manipolare, ricattare. Dovrà ricredersi delle sue granitiche convinzioni. Ma solo per un breve periodo. Un romanzo con finale aperto, come è consuetudine per una storia che vuole registrare lo stato delle cose, avvertendo che queste ultime si muovono, cambiano. E che la caccia al male continua, indipendentemente se indossa altri volti da quelli noti.
[Benedetto Vecchi 27/09/2017]

martedì 26 settembre 2017

Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. Stefano Cristante

Se c’è una parola che andrebbe usata con parsimonia invece di essere spesa come monetine da 20 cent, quella è «genio». Si potrebbe dire che lo studio lucido e insieme commosso che Stefano Cristante, docente di Sociologia della comunicazione, ha dedicato ad Andrea Pazienza serve a spiegare l’uso non indebito di quella parola da alto rischio nel titolo del suo libro: Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco. La sovversione della letteratura grafica di un genio del Novecento (Mimesis, pp. 205, euro 16).
IN APPENA DIECI ANNI di attività frenetica e alluvionale, Andrea Pazienza, Paz, scomparso nel 1988 a 32 anni, ha rivoluzionato l’arte del fumetto e attraverso quel medium l’intero immaginario, non solo visivo, della sua generazione. Il suo eclettismo è ancora proverbiale. La capacità di passare da uno stile all’altro a volte nella stessa vignetta, di sommare suggestioni ed evocazioni di ogni tipo, di assumere e rimodellare radicalmente le lezioni dei grandi autori, la frattura operata portando nel fumetto italiano la realtà basterebbero a farne un gigante.
Ma Paz era più di questo e il termine «eclettismo» non gli rende giustizia: come Cristante dimostra in un esame minuzioso, mettendo all’opera all’unisono gli strumenti dotti dello studioso e quelli appassionati del lettore di fumetti, quella confusione ribollente rispondeva a una poetica precisa. Passando a velocità supersonica da un taglio grafico a un altro come su vertiginose montagne russe, accostando satira e riflessione, leggerezza e tragedia, comicità e malinconia, narcisismo e autironia, Pazienza aveva fatto del caos di un’epoca il suo stile e l’oggetto della sua arte, Vale per lui quel che scriveva Dylan nelle note di copertina in veste di poesia di Bringing All Back Home, nel 1965: «Io accetto il caos/Non sono sicuro che il caos accetti me».
Ad Andrea Pazienza sono stati dedicati decine di omaggi, un film, centinaia di articoli. Però uno studio strutturato sulla sua arte ancora non c’era: Cristante ha iniziato a colmare la lacuna. Come già nel precedente libro su Corto Maltese ha scelto di rinunciare all’espediente facile delle illustrazioni, per non dover sottostare al dilemma tra il tentativo impossibile di tracciare una mappa dell’impero vasta come l’impero stesso e una selezione avara che sarebbe stata a quel punto puro e inutile orpello grafico. Più ancora che nel libro su Pratt e Maltese, l’obbligo di adoperare le parole per misurarsi con un’espressione radicalmente altra come il disegno è una sfida: un corpo a corpo dall’esito incerto dal quale l’autore esce vincente proprio perché sa mettere a frutto quella costrizione severa. Con attenzione quasi maniacale descrive, analizza, interpreta sin nei particolari ogni vignetta. Traccia connessioni che risaltano solo in una visione complessiva di un’opera torrentizia come quella di Paz nel suo decennio di creatività concentrata. Indica le suggestioni letterarie e sociali che ispiravano di volta in volta la mano veloce di Andrea Pazienza.

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DIVIDE i versanti della visionarietà di Paz lavorando prima di tutto sui personaggi che segnano, in sequenza cronologica ma spesso anche intrecciandosi e sovrapponendosi, le fasi della sua opera: il Pentothal del ’77, cioè l’esplosione del caos, l’impasto incendiario di visionarietà onirica e realismo spietato ricavato dall’osservazione del mondo di Bologna, del Movimento, del Dams negli anni di Radio Alice, del punk italiano di stanza nella città emiliana. Il Pertini che permetteva all’autore di dare sfogo alla sua vena di leggerezza e di una satira, quasi solo in questo caso, non corrosiva. Il gelido e cattivissimo Zanardi, riflesso della temperie feroce che aveva preso il sopravvento nel mondo giovanile ma anche strumento che permette al disegnatore/autore di giocare con l’autobiografismo, quasi onnipresente nelle sue opere, secondo un registro più complesso e sofisticato che in Pentothal, nonché di dar sfogo alla passione per quella che Cristante definisce «esattezza» e che si rintraccia in didascalie che somigliano, per la precisione quasi pedante dei dettagli, a voci enciclopediche. Cristante intitola il capitolo sul capolavoro Pompeo «Una ballata del mare desolato». Definizione perfetta. Siamo abituati a guardare alle droghe con lo sguardo d’aquila di Carlo Giovanardi, come se tra il mangiatore d’oppio di De Quicey, il Junkie di Bill Burroughs, i reduci del Movimento passati dalle molotov alle «spade» a cavallo e i ragazzini che si bombano di chetamina non ci fosse poi gran differenza, tutti rientrando nella categoria targata Giovanardi della «droga». Capita così che sia quasi calato il silenzio sul decennio tragico dell’epidemia di eroina in Italia, quello costellato da morti di overdose tra i quali il grande Stefano Tamburini, compagno d’avventure visionarie di Pazienza, e lo stesso Paz. Quello sbocco desolato della grande illusione umana, politica e creativa del ciclo precedente lo hanno saputo capire e raccontare senza sbavature e senza moralismo due soli autori: il Claudio Caligari di Amore tossico, dal basso delle periferie, e il Pazienza di Pompeo, al capo opposto della scala sociale, tra i «ragazzi di Movimento» diventati affermati artisti d’avanguardia.
CRISTANTE NON SORVOLA sulla biografia del disegnatore: da ragazzo prodigio di Pescara, con una mostra personale a soli 17 anni, al Dams, dalle frequentazioni dell’ambiente controculturale e punk a quelle degli artisti d’avanguardia e dei grandi del fumetto come Manara e Pratt. Pescara, Bologna, Milano, Roma, il rifugio di Montepulciano, la serie di riviste entrate nella storia, Cannibale, il Male, Frigidaire, Corto Maltese. Ne emerge il quadro di un gruppo di giovani artisti sovversivi e sperimentali, che si ponevano consapevolmente in continuità con le avanguardie della prima metà del secolo scorso e in particolare dai dadaisti, filtrate, rilette e rimodellate grazie alla dimestichezza con tutte le forme della cultura di massa e popolare, a partire ovviamente dai comics ma senza tralasciare la musica, il cinema, la grafica, la pittura. Un gruppo in cui, per un breve quanto folgorante momento, la somma è stata in grado di potenziare ciascun componente e di cui Pazienza e Tamburini erano probabilmente i più audaci nell’azzardo creativo.
Ma Cristante usa la biografia peregrina di Pazienza anche per definire la sua poetica e la cifra della sua parabola, per la quale conia una definizione, quella del «Fuggiasco», che fa il paio con quella dello «Straniero» già applicata a Corto Maltese e Pratt. Quello tra i due massimi autori del fumetto italiano moderno è un parallelismo estremo ma fondato. Entrambi raccontano un mondo in cui non c’è più casa possibile, non solo «No Direction Home» ma «Nowhere is Home», poi lo declinano per vie opposte. Corto lo Straniero rende lo spaesamento una risorsa, la capacità di essere ovunque a casa proprio in virtù del non averne una propria. Gli avatar di Paz mettono in scena la reazione nucleare creativa e vitale che l’assenza di una casa fa deflagrare ma anche il senso di tragedia e di morte incombente che accompagna lo spaesamento come dimensione esistenziale.
PAZIENZA ERA UN GENIO ed è proprio del genio trascendere i limiti della propria epoca ma allo stesso tempo fissarla cogliendone l’essenza. Nessuno ha raccontato gli anni della sovversione sociale e linguistica, della sconfitta e infine dello smarrimento come lui. Si spiega così la bella prefazione in cui Cristante, a sua volta un protagonista di quell’irripetibile momento, ricapitola la sua personale esperienza: lettore avido di fumetti, creatore di Arcicomics poi responsabile dello storico Arcikids, collaboratore prezioso del manifesto che proprio in quegli anni infrangeva a colpi di maglio gli angusti muri dell’ideologismo «estremista». È una parte del libro fondamentale perché parlare di Andrea Pazienza è davvero parlare di tutta una fase creativa e di «una generazione». Di un’onda sulla cui cresta nessuno è stato capace di surfare come Paz.
[Andrea Colombo 26/09/2017]

domenica 24 settembre 2017

Il settimo giorno Yu Hua

Nucleo tematico condiviso con gran parte degli scrittori apparteneti all’avanguardia che dominava il panorama letterario cinese nella seconda metà degli anni ottanta del Novecento, la morte è sempre stata oggetto della narrativa di Yu Hua, che la assume soprattutto come un preciso schema strutturale, un cronotopo nel quale esplica al meglio le sue doti di narratore e manipolatore di sentimenti. Alla base della intimità e della curiosa attrazione per i morti di Yu Hua stanno origini anche autobiografiche, spesso rievocate dallo scrittore: il padre era un medico e la loro abitazione era contigua all’obitorio dell’ospedale presso il quale Yu Hua abitava sin da bambino. Già nel 1986 aveva pubblicato «Racconto di morte», auto-cronaca di scioccante freddezza degli incidenti mortali causati da un camionista che sarebbe finito lui stesso linciato. Il provocatorio titolo del suo più celebre romanzo – Vivere, del1991– porta in sé un ossimoro perché altro non è se non il pietoso e ironico resoconto di una inarrestabile concatenazione di decessi che falcidiano la famiglia del protagonista, enfatizzando la sua fortuna/solitudine di sopravvissuto a esecuzioni politiche, guerre, carestie.
Una meditazione distaccata
«C’era una nebbia fittissima, quando sono uscito per avventurami nella città vuota e ovattata e andare alla camera ardente. È così che chiamano il crematorio ora. L’avviso diceva che dovevo presentarmi alle nove. La mia cremazione era fissata per le nove e mezza». Questo l’incipit vagamente kafkiano dell’ultimo romanzo di Yu Hua, Il settimo giorno, uscito ora da Feltrinelli nella traduzione di Silvia Pozzi (pp. 188, euro16,00): la morte si fa voce narrante e allo stesso tempo prospettiva del mondo dei vivi, dove il protagonista Yang Fei, rifiutando di essere cremato, vaga per sette giorni alla ricerca del padre. Una volta morto, non avendo ancora dimenticato la realtà della vita, trarrà un dolce-amaro bilancio del proprio passato e della società cinese con le sue grottesche contraddizioni.
Rispetto al tono adottato per quella sarcastica rivisitazione della storia recente (dalla Rivoluzione culturale al boom economico) che è la sarabanda di Brothers (pubblicata in Italia in due volumi), qui lo scrittore si fa più pacato e riflessivo, pur non risparmiando qualche graffiante descrizione della malattia morale e sociale che corrode la realtà cinese. Sempre abile nel miscelare un’ironia talora sguaiata a umanissime manifestazioni sentimentali, Yu Hua sembra aver trovato in questo romanzo un buon equilibrio tra i due ingredienti, conducendo a un esito più rappacificato le violente pulsioni caricaturali delle sue precedenti esperienze narrative. Dunque, è una nuova sintesi quella alla quale è approdato: tra le sperimentazioni iniziali della sua scrittura e il suo costante tentativo di leggere tra le righe sconnesse della storia e della società cinesi. Ne viene fuori una meditazione lievemente distaccata dal greve contesto dell’hic et nunc cui Yu Hua e altri scrittori importanti, come Mo Yan e Yan Lianke, ci hanno abituato nelle loro interpretazioni iperrealistiche e allucinatorie della Cina moderna.
Il primo scioccante stupore nel rendersi conto di appartenere ormai a una realtà di zombie si trasforma per Yang Fei in una sorta di avventura «on the road» nella «terra di chi non ha sepoltura». Nel paesaggio brumoso e desolato di questo limbo contemporaneo, interstizio tra viventi ignari e smemorati defunti, l’uomo incontra, come nell’aldilà dantesco, una teoria di anime/corpi inquieti ancora attaccati alla vita ma via via corrosi dalla morte, che gli raccontano le circostanze spesso incresciose del proprio trapasso: l’ex-moglie che si è tolta la vita perché coinvolta in uno scandalo finanziario; la coppia rimasta sepolta in una demolizione notturna di vecchi edifici; i bambini morti nell’incendio di un centro commerciale insabbiato dalle autorità; il suicidio di una sciampista delusa dalla vita e dal fidanzato per il suo mancato Chinese dream di consumismo e successo; il poveruomo giustiziato iniquamente dopo una falsa confessione di uxoricidio estortagli sotto tortura. Fino alla più pietosa delle morti, quella del padre – figura tenera ed esemplare – che il protagonista, trasformatosi in un commovente Enea cinese, va a cercare durante la sua discesa nel pre-aldilà. E tuttavia il paesaggio si rivela molto diverso da quelli danteschi segnati dal senso del peccato e dalla religiosa accettazione del giudizio divino. L’aldilà di Yu Hua ricorda piuttosto le fantasie della cultura cinese tradizionale, di un mondo che imita la realtà terrena replicandone in un’atmosfera di inusitata allegria e solidarietà i gesti quotidiani del piacere e delle relazioni umane: i personaggi che Yang Fei incontra nei suoi primi sette giorni da morto, tragici mimi della propria passata esistenza, raggiungono tuttavia in questa ritrovata uguaglianza del non-essere uno stato di pacificazione. L’unica pena che li affligge è la prorogata speranza di trovare riposo in una tomba.
Era già accaduto in Vivere, e soprattutto nell’Eco della pioggia (esordio dello scrittore) che la narrazione sottintendesse due coordinate: una orizzontale, filosofica, fatta di temi come il tempo, la memoria, la paternità e una verticale, storica. Nei due primi romanzi di Yu Hua l’esperienza della Repubblica Popolare Cinese viene ripercorsa attraverso varie generazioni, che vivono il passaggio dall’infanzia alla adolescenza alla sofferta maturità, accompagnate dal brutale passaggio della Storia. Nel Settimo giorno invece i tempi si addensano e le memorie di una vita vengono compresse e dissezionate da Yang Fei nel breve lasso di sette giorni (misura biblica, una specie di creazione al contrario), nello spazio sempre più rarefatto e a-geografico del suo viaggio metafisico.
Il cadavere della Cina
Le scelte stilistiche di Yu Hua in questo romanzo rimandano solo in apparenza alla sua prima narrativa e al suo trascolorare dalla sperimentazione al neorealismo dei primi anni novanta, perché i temi toccati si incarnano qui concretamente nei personaggi e nelle storie superando la ricerca estetica dell’avanguardia. La rappresentazione astratta della morte compariva in racconti tra cui «Le cose del mondo sono come fumo» – dove i personaggi, tutti vittime di morti astruse, vengono indicati con sole lettere alfabetiche. Qui, invece, qui la morte acquista una sua fisicità, decomponibile e sottomessa alle intemperie del trapasso, mentre si allude a un altro cadavere, quello sociale, flagellato da decenni di sfrenato sviluppo.
La cifra dell’iniziatico cammino verso la morte di Yang Fei è infatti sociale, e attraversa lo iato tra popolazione urbana e rurale, le piaghe dell’inquinamento e della corruzione, gli abusi del potere, l’indifferenza e la miseria in cui vivono a milioni nella «tribù dei topi», come vengono chiamati i tanti precari delle metropoli cinesi che trovano rifugio in sordide abitazioni sotterranee. Per ammissione dello stesso scrittore, il romanzo porta a compimento il suo annoso desiderio di scrivere – attraverso fatti di vera cronaca solo lievemente rielaborati – «trent’anni di storie assurde accadute in Cina». «E quando le stesse notizie si ripresentano per trent’anni», aggiunge citando un critico letterario cinese di cui non fa il nome, «occorre sia la letteratura a parlarne».

Lo scudo dell’illusione, a cura di Massimo Soumaré

E’ opinione diffusa che il boom della letteratura fantastica risalga all’inizio dell’Ottocento in concomitanza con l’affermazione delle estetiche romantiche in luogo del razionalismo settecentesco, e con la conseguente rivalutazione della qualità soggettiva e visionaria del testo letterario e di un folklore popolato di miti e di fiabe.
La tradizione europea tuttavia conta diversi precursori, e il Giappone non è da meno, soprattutto se pensiamo al fantastico non come a un genere letterario ma come a un modo, a una categoria fluida e meno codificata, che – come scrisse Remo Ceserani – «si caratterizza per un ventaglio abbastanza ampio di procedimenti utilizzati e per un buon numero di temi trattati, nessuno forse esclusivo e peculiare, molti diffusi anche in altri modi e generi letterari».
Il periodo pre-bellico
A buon diritto rientrano dunque nei primi esempi di fantastico giapponese l’episodio delle discesa agli Inferi di Izanagi alla ricerca della sposa perduta nel Kojiki (712 d.C.) e i capitoli del Genji monogatari (1008 d. C.) che vedono protagonista Rokujo, l’incarnazione del potere distruttivo detenuto dalla gelosia femminile, un potere tale da trasformarla in spirito vivente, ossessionato dal desiderio di vendetta nei confronti delle rivali. L’elenco potrebbe continuare a lungo, dalla ricca tradizione del filone popolare di epoca Edo, dove si raccontano viaggi immaginari che disegnano una incredibile e dettagliata cartografia fantastica, fin quasi alle soglie del tramonto della cultura Tokugawa, con i fantasmi dei racconti per le notti di pioggia e di luna di Ueda Akinari.
L’ingresso del paese nella modernità, segnato alla metà del XIX secolo dal traumatico impatto con l’Occidente colonialista, determina – come nel ’700 europeo – la vittoria del razionalismo illuminista sul potere dell’immaginazione, percepita come oscura e pericolosa. Eppure, solo pochi decenni dopo, la forza della fantasia riemerge nella nascente letteratura giapponese moderna, tramite le sue voci più innovative, nelle forme più sperimentali. È questa la fase, nella quale si va plasmando il fantastico novecentesco, di cui offre un saggio Lo scudo dell’illusione Racconti fantastici della letteratura giapponese moderna, il volume di racconti a cura di Massimo Soumaré (Atmosphere edizioni) attraverso la proposta di alcuni autori fra i più significativi del periodo pre-bellico, che si sono cimentati con il modo fantastico nelle forme e nei generi più svariati, giocando con la libera combinazione di motivi tratti dalla tradizione autoctona e dalla cultura d’oltreoceano, conosciuta per esperienza diretta o grazie all’imponente lavoro di traduzione svolto dai primi intellettuali di epoca Meiji.
Il fantastico rappresenta una sorta di rivincita dell’irrazionale e del perturbante sulla esaltazione della ragione e di una sopravvalutata oggettività scientifica. Dà voce alle inquietudini e alle ansie della generazione che alla fine dell’Ottocento si era trovata a correre nel giro di pochi anni il cammino percorso dall’Occidente nell’arco di due secoli. Così la interpreta Natsume Soseki, icona del Giappone moderno e non a caso autore di «La Torre di Londra», il primo dei racconti proposti nello Scudo dell’illusione. Ambientato a Londra, nel periodo che lo scrittore vi trascorse ai primi del Novecento, lascia trasparire una insolita influenza del romanticismo europeo ma, soprattutto, al di là delle ingenuità tipiche di un esordio sperimenta alcune delle varianti tipiche del fantastico moderno: lo smarrimento dell’identità, le distorsioni spazio-temporali, l’uso anche in chiave grottesca e satirico-parodistica del mito e della leggenda. E soprattutto l’esplorazione del potenziale narrativo dell’atto mancato, del non detto: non sono tanto i fantasmi dei personaggi storici che nella Torre di Londra hanno perso la vita a determinare il fantastico, quanto l’impatto sensoriale, emotivo e anche intellettuale sul narratore/autore.
Italo Calvino scrisse, in Una pietra sopra, che «nel Novecento è un uso intellettuale (e non più emozionale) del fantastico che s’impone: come gioco, ironia, ammicco, e anche come mediazione sugli incubi o i desideri nascosti dell’uomo contemporaneo». È questa è la cifra del fantastico moderno, che ritroviamo nel lirismo malinconico delle short short story di Yamamura Bocho, come nelle atmosfere rarefatte delle storie delicate di Miyazawa Kenji, che pure non esitano a confrontarsi con temi forti, religiosi e/o sociali. Unno Joza, considerato il padre della fantascienza nipponica, ci introduce invece a un altro aspetto, quello della visionarietà: i fantasmi e le presenze sovrannaturali vengono sostituiti da robot nati da un progresso scientifico affascinante ma fin da subito incontrollabile e spaventoso, che già prefigura un futuro distopico.
Uno spazio straniero
A chiudere il cerchio, Dazai Osamu che in «Corri Melos» ripropone come spazio privilegiato dell’immaginazione un ambiente spazio-temporale «straniero», rappresentato nel racconto dalla Siracusa ellenica. Qui il fantastico si conferma come il modo letterario che più di ogni altro consente uno spazio di espressione alle alternative alla quotidianità che la letteratura porta con sé, permettendo di «leggere il reale su molteplici livelli» – ha detto Calvino, in Mondo scritto e mondo non scritto – e in molteplici linguaggi simultaneamente, riuscendo a includere i coni di luce e le zone d’ombra dell’incontro tra il Giappone e l’Europa.
[Paola Scrolavezza 24 /09/2017]

Sognando la luna, Michael Chabon

Il 2017 ha segnato il ritorno in grande stile di alcuni tra i maestri del romanzo americano contemporaneo che, prendendo le mosse dalla postmoderna reinvenzione e mescolanza di forme narrative, hanno saputo proporre nuove strategie di racconto, lontane dall’ambizione totalizzante di autori come Pynchon o DeLillo e pronte a strizzare l’occhio alle esigenze e alle aspettative dei lettori. È il caso di Paul Auster, che dopo una serie di opere nelle quali sulla ricerca formale – spesso felice – dei suoi primi libri sembrava ormai prevalere una preoccupante tendenza all’autocitazione, ha prodotto con 4321, di prossima pubblicazione anche in Italia per Einaudi, il suo romanzo più ambizioso e, secondo buona parte della critica, forse il più riuscito.
Comiche stravaganze
Ed è tanto più il caso di Michael Chabon, che con il suo nuovo libro, Sognando la luna (in uscita da Rizzoli nell’ottima traduzione di Matteo Colombo, pp. 528, euro  22,00) si lancia, a distanza di più di quindici anni da quello che rimane il suo capolavoro, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, in un altro, grande affresco storico, che abbraccia eventi cruciali della storia americana (dagli anni trenta a oggi) da una prospettiva idiosincratica e interessantissima nella quale confluiscono romanzo, memoir e tall tale.
A enunciare con chiarezza lo statuto radicalmente «misto» della sua nuova impresa narrativa è lo stesso Chabon, e direttamente all’interno del libro. «Ecco come l’hanno raccontata a me»: questo l’incipit di Sognando la luna, nel quale l’io narrante – che al tempo stesso è e non è Michael Chabon – spiega fin da subito quale sia l’obiettivo che perseguirà: non raccontare la propria storia, ma farsi collettore delle storie altrui per come gli sono state raccontate.
Si comincia allora con l’arresto del nonno del narratore, il quale, licenziato dalla Feathercombs, Inc., «una ditta di New York che fabbricava e vendeva una specie di elaborata molletta per capelli ricavata da anelli di corde per pianoforte», per far posto a Alger Hiss – la presunta spia comunista che, uscita di prigione dopo una condanna per falsa testimonianza, aveva pubblicato un’autobiografia «di una noia bestiale» e di scarso successo – ha aggredito il presidente della Feathercombs in una scena di una comicità irresistibile.
E la stessa comicità, spesso venata di stravaganza scandisce, quasi tutte le vicende che lo vedono protagonista: le sue gesta giovanili, da autentica pecora nera della famiglia (ma anche il fratello Ray, dopo un periodo d’oro da rabbino, si trasformerà in un piccolo criminale, giocatore d’azzardo e imprenditore senza scrupoli), capace di gettare un gatto dalla finestra di casa per pura «curiosità»; l’addestramento militare (di stanza a Washington, mina un ponte a scopo dimostrativo, per provare quanto fragili siano le difese americane in caso di attacco tedesco); il corteggiamento e il matrimonio con una donna che nasconde nel proprio passato un retaggio di dolore e persecuzione antisemita e che precipiterà progressivamente nella follia. E ancora, la lunga passione per i razzi e l’odio per Werner Von Braun, responsabile di aver progettato i missili V2 lanciati su Londra, traghettato in America dopo la guerra e artefice del Saturn V, il propulsore che avrebbe reso possibile la prima spedizione sulla luna.
Le memorie del nonno emergono dal letto cui è inchiodato – malato terminale di cancro – «senza un ordine discernibile», e traboccano di ironia, ma anche di disincanto. «Sono deluso da me stesso. Dalla mia vita. Ogni volta che ho provato a fare qualcosa, sono sempre e solo arrivato a metà», dice al nipote. E quando Mike Chabon gli risponde, «Io di te non mi vergogno» e aggiunge, «E comunque è una gran bella storia. Devi ammetterlo», al nonno non resta che dichiarare: «E allora prenditela. Te la regalo. Quando non ci sarò più scrivi tutto. Spiega. Trova un significato. Usa tante belle metafore come piace a te. Metti tutto in un bell’ordine cronologico, senza mescolarlo a casaccio come faccio io».
Un invito che l’io narrante accoglie solo in parte. Sull’ordine cronologico prevale un gioco di incastri temporali costruiti sul filo della memoria e dell’associazione. Le spiegazioni sono poche e spesso contraddittorie. Le metafore, pur presenti, non abbondano e non dettano legge. E però, quella di Sognando la luna è veramente «una gran bella storia», in perenne e creativa oscillazione tra verosimile e assurdo, misura e eccesso, commedia e tragedia.
È la storia di un uomo e di una donna, del loro amore strambo quanto intenso, dei loro conflitti che sembrano racchiudere quasi per intero il Novecento, le sue glorie e i suoi orrori. La distinzione tra romanzo e memoir, finzione e resoconto storico, viene sistematicamente disattesa e obliterata, e in tal senso non ha tutti i torti chi ha collocato il libro di Chabon nel quadro di quella tendenza all’ibridazione tra fiction e nonfiction che, da Carrère a Knausgard, attraversa tanta parte della prosa contemporanea.
Sognando la luna è però anche un nuovo e prezioso passo in un percorso d’autore che della varietà, della reinvenzione costante, del lavoro metodico sulle forme narrative ha fatto, in fondo, il proprio marchio di fabbrica. Dall’epica del fumetto di Kavalier e Clay ai calchi ottocenteschi e dickensiani di Telegraph Avenue, alla distopia «gialla» del Sindacato dei poliziotti yiddish, per non parlare delle ripetute incursioni nella letteratura pulp, Chabon ha privilegiato una prospettiva plurale e un effetto moltiplicativo, al centro del quale esiste sempre e prima di tutto il piacere di raccontare una storia, e di raccontarla bene.
Quando, in un’intervista seguita al boom di Kavalier e Clay, si era sentito paragonare a Pynchon (del quale, in Sognando la luna, viene espressamente citato L’arcobaleno della gravità) e soprattutto a DeLillo, si era espresso con una modestia e una consapevolezza ammirevoli: «DeLillo sta facendo qualcosa di totalmente differente, molto più analitico e critico, nel senso che si propone come un vero e proprio interprete della Storia americana, mentre a me interessa molto di più raccontare semplicemente una storia».
Un impasto di tradizioni
Raccontare storie è quanto Chabon ha continuato a fare, in una carriera ormai quasi trentennale: senza la consapevolezza programmatica del suo coetaneo Jonathan Franzen, e senza il sottile intellettualismo e l’ostentata brillantezza del più giovane Jonathan Safran Foer. È possibile che la sua scarsa propensione a teorizzare, il suo eclettismo di narratore, la capacità quasi miracolosa di fondere in un nuovo impasto creativo tradizioni a lungo separate, dal pulp al postmoderno, dalla fantascienza alla grande narrativa ebraica, abbiano contribuito, nell’immediato, a renderne più incerto lo status nel quadro della narrativa contemporanea, americana e non. Per le stesse ragioni è però ragionevole ipotizzare che, al netto delle mode e delle fascinazioni di breve durata, saranno proprio le storie di Chabon, Kavalier e Clay e Sognando la luna su tutte, a salire al rango di classici contemporanei.
[Luca Briasco 24/09/2017]

lunedì 18 settembre 2017

Una vita non mia, Olivia Sudjic

«Fermatevi un momento a pensare alla vostra vita senza Wikipedia. Dolce fonte di eterno confronto. Angelo dispensatore di informazioni. Pensate alla vostra vita senza l’opzione di ricerca su Internet». Che la reazione a questo invito sia il panico oppure il sollievo, il tema appare di grande attualità, tanto più se affrontato attraverso un linguaggio irriducibile all’eterno presente del mondo digitale qual è quello del romanzo di formazione. Esce in questi giorni per Minimum Fax Una vita non mia (traduzione di Chiara Baffa, pp. 472, € 18,50), opera di esordio della scrittrice britannica Olivia Sudjic, acclamata dalla stampa anglofona come il primo grande romanzo su Instagram.
Tra flânerie e mondo pubblico
In realtà, è una definizione inadeguata. Consapevole del ritardo con il quale la letteratura si è aperta all’universo di Internet, la giovane scrittrice – fresca di studi e, come la sua eroina, «dotata di Zeitgeist» – orchestra una storia della quale il mondo digitale non rappresenta soltanto il tema principale ma fornisce la vera e propria impalcatura discorsiva. Il risultato è un avvincente pot pourri di materiale romanzesco vecchio e nuovo, filtrato da una coscienza centrale dal sapore inconfondibilmente jamesiano, che arriva a plasmarsi sui modelli identitari messi in campo dai social network.
Alice Hare, neolaureata confusa e depressa, sbarca a New York da Londra per assistere la nonna malata di cancro, con il recondito desiderio di venire a capo di una storia familiare complessa. Alice è la figlia adottiva di una madre anaffettiva e di un padre misteriosamente scomparso dopo un trasferimento in Giappone. A convincerla ad attraversare l’oceano sono state le lunghe lettere nelle quali, per scuoterla dal torpore, la nonna paterna documentava i dettagli della sua infanzia, alimentando in lei l’illusione di poter ottenere «un unico racconto coerente che spiegasse chi ero e cosa avrei dovuto fare».
L’arrivo a New York è inebriante e riattiva il desiderio di contatto con il mondo, sopito dalla claustrofobica convivenza con la madre. Alice si abbandona alle strade di Manhattan con il gusto della flâneuse ottocentesca che si mescola alla folla assaporando la bellezza avvolgente della metropoli. «Sviluppai una dipendenza dalle passeggiate in città. La mia solitudine non mi sembrava più un fardello ma un dono. Mentre camminavo, i miei pensieri potevano abbandonare il mio corpo. Mi piaceva scivolare, come un robot sul fondale oceanico, da un punto all’altro del reticolo cittadino». Senonché, nel piacere della flânerie solitaria si annida quello ancor più sottile dell’esibizione pubblica, giacché i vagabondaggi consentono a Alice di animare «la tela nera» del suo account Instagram rimasto fino a quel momento privo di immagini: «volevo che il mondo sapesse che ero lì, non la persona che ero stata ma un’altra che avevo fabbricato con scampoli di New York. La mia visione si concentrò su una città fatta di piccoli quadrati. Cominciai a mandarli giù come le vitamine».
Nella spola compulsiva tra la realtà materiale e quella virtuale rinvigorita dallo scenario newyorkese, la novella Alice in Wonderland s’imbatte nel profilo di Mizuko, una scrittrice americana di origini giapponesi che presenta curiose corrispondenze con il suo. Dall’incontro tra due vite sospese tra Oriente e Occidente, e tra generazioni «nate ai due estremi di una spaccatura», si sviluppa una perturbante vicenda di amicizia, amore e ossessione dagli esiti tanto prevedibili quanto sconcertanti.
Il titolo inglese del romanzo è Sympathy, parola chiave dell’Illuminismo scozzese che Olivia Sudjic resuscita nel significato originario di meccanismo di trasmissione applicato «all’Era della connettività». In cosa consistono i social network se non in un portentoso laboratorio di vere o presunte simpatie universali attraverso le quali partecipare alle vite altrui, ridisegnando all’infinito il profilo della propria? L’intera storia ruota intorno all’ambiguità semantica della «simpatia»: concetto che, già all’epoca di Adam Smith, indicava una gamma di stati emozionali compresa tra il contagio empatico che si attiva automaticamente tra persone sofferenti, e quel dispositivo dell’immaginazione assai più sofisticato, nonché eticamente pregnante, che ci consente di partecipare alla vita degli altri identificandoci nelle loro circostanze e attivando comportamenti solidali. Non per niente, tra i motivi del fascino che Mizuko arriva a esercitare su Alice c’è un racconto, divenuto virale, scritto dopo lo tsunami del 2011 e intitolato Kizuna, termine giapponese che indica «i legami umani o le cose che ci legano».
Una terrifica oppressione
Dopodiché, come aveva ben compreso George Eliot – un’altra scrittrice cult che vedeva nella sympathy il dispositivo privilegiato della forma romanzo – «ci sono cose simpatiche che non sono affatto belle» (così scrive nel suo primo romanzo, Adam Bede), e Una vita non mia ci ricorda che Internet può diventare una di queste. Mentre la cinica Mizuko usa la rete per accalappiare followers e incrementare il proprio potere contrattuale presso la Columbia University, la fragile Alice precipita nel baratro della proiezione paranoide alimentata dalle molteplici identità digitali dell’amica, finendo per perdere il senso del limite tra se stessa e l’altra, tra realtà e finzione, tra onestà e disonestà. In ciò risiede l’aspetto più tradizionalmente didascalico del romanzo, sul quale aleggia un senso di oppressione degno del più smaliziato racconto del terrore. L’aspetto innovativo, invece, è una tecnica narrativa spiazzante, che accumula disordinatamente dati reali, mezze verità e connessioni fallaci, puntando così a riprodurre «l’impressionante volume di informazioni» che scaturisce dall’interazione bulimica con la rete.
Tuttavia, Una vita non mia va oltre il monito contro le trappole del Web, che suonerebbe oramai tanto banale quanto tardivo. A Olivia Sudjic interessa capire se Internet ucciderà il romanzo perché, come sostiene Mizuko, l’accessibilità delle informazioni «tende ad affossare la trama». A giudicare dal successo mondiale che sta ottenendo, si direbbe proprio di no.
[17/09/2017 Elena Spandri]

Patria, Fernando Aramburu

Pioveva, quella notte, quando uccisero il Txato. La moglie, Bittori, udì i suoi passi mentre scendeva le scale di casa e poi, all’improvviso, quattro colpi di pistola. Corse di sotto e lo trovò in una pozza di sangue. Allora si mise a urlare, ma non c’era nessuno: la strada, deserta, le finestre chiuse: «così mi sono messa a parlargli e pensa com’ero sconvolta che gli ho detto: ti amo: Non ce lo siamo mai detti. Neanche quando eravamo fidanzati. Non ci veniva. Ce lo dimostravamo e punto».
È questo fatto, l’assassinio del Txato, il fulcro, l’evento spartiacque del nuovo romanzo di Fernando Aramburu, Patria, libro di straordinario interesse e insieme riflessione dolente sul dramma del terrorismo basco, che ha avuto un travolgente successo editoriale in Spagna e ora esce in Italia nella efficace traduzione di Bruno Arpaia (Guanda, pp. 632, euro 19,00). Da tempo Aramburu vive in Germania ed è forse questa distanza fisica, più che il tempo intercorso, ad aver permesso allo scrittore basco di realizzare un romanzo di grande portata sulla vicenda più amara della sua terra.
Txato, Bittori…non ci sono cognomi ma solo nomi di persone in questa storia, che vede come protagoniste due famiglie tanto legate da parere una sola. Bittori aveva infatti un’amica del cuore, Miren, con cui da sempre condivideva tutto. Le due, nei loro discorsi inarrestabili di adolescenti avevano fantasticato anche di un progetto comune: farsi suore, insieme. Poi, nella loro vita erano entrati gli uomini, Txato per Bittori e Joxian per Miren, due tipi diversi (attivo e intelligente il primo, uomo senza qualità il secondo) ma accomunati da una grande passione per la bicicletta e abituati a passare le serate a giocare a carte oppure, veri amigos cenantes, al circolo enogastronomico. Poi erano arrivati i figli, due per Bittori, Nerea e Xabier, tre per Miren, Arantxa, Gorka e Joxe Mari.

A ridosso di San Sebastián

Sono queste nove figure e le loro vite intrecciate a sostenere una storia convincente e coinvolgente, ambientata in un piccolo centro, anch’esso senza nome, a ridosso di San Sebastián, la capitale della provincia di Guipúzcoa: un paese-comunità, stretto attorno alla chiesa, dove l’ambiente è al tempo stesso solidale e costipante come lo sono i piccoli centri di provincia. La vita, scandita dai rintocchi del campanile, procede costante e tranquilla finché pian piano l’irruzione del militantismo armato comincia a turbarla profondamente. È a casa di Miren che si avverte inizialmente il mutamento, perché lì Joxe Mari, il piccolo dei figli, si radicalizza progressivamente, partecipando alla kale borroka, la lotta di strada fatta di lanci di molotov, incendi, sabotaggi. E poi ancora, vittima della logica di gruppo e dell’ideale romantico di Euskal Herria, la patria indipendente, lascia il lavoro e l’amata pallamano per entrare in clandestinità e divenire capo di un talde, un commando dell’ETA.
Ma che le cose sono cambiate lo si percepisce soprattutto a casa del Txato, un uomo cocciuto e intraprendente, che aveva messo su una piccola azienda di trasporti. Ricevute le prime richieste dall’ETA di pagare una «tassa rivoluzionaria» destinata a sostenere la causa indipendentista, aveva all’inizio ceduto. Poi però, cresciute le pretese degli estortori, aveva deciso di smettere. Era iniziata allora contro di lui una sistematica azione distruttrice, intessuta di lettere minatorie, di diffamazione e di progressivo isolamento; un giorno su un muro appare una scritta emblematica Txato spia. Gli amici allora prendono a evitarlo e lui smette di cercarli. Una volta, per caso, incontra Joxian per strada che, a mo’ di saluto, fa un’alzata di sopracciglia, come a dire mi fermerei a parlare con te ma…
L’omicidio del Txato, è dunque una morte annunciata, il previsto epilogo di un avvelenamento collettivo, fatto di parole e di gesti minuti. La violenza diffusa, l’imbarbarimento collettivo, la pratica della delazione, l’intolleranza verso l’altro da sé sono raccontati senza enfasi, sia dal lato delle vittime sia da quello dei militanti dell’Eta; qui, però, il racconto è forse meno efficace: senza nascondere nulla, né la ferocia terroristica né le torture poliziesche, stenta a fornire una comprensione intima delle ragioni profonde e lungamente condivise della lotta indipendentista.
Il lettore partecipa di questa storia tremenda e dolorosa non in diretta, come un racconto in sequenza, ma in modo obliquo. Il romanzo si compone infatti di 125 micro-capitoli, lunghi da quattro a sei o sette pagine, e non collocati in ordine cronologico ma variamente disposti in una sorta di vai e vieni tra un oggi, post 2011 (data della rinuncia alla lotta armata da parte dell’ETA) e i tanti ieri di una lunga storia.
È un procedere frammentario, funzionale a dare spazio alla memoria, alla ricostruzione intima, alla rivisitazione retrospettiva che si mescola con incontri, amori, fatti quotidiani, separazioni. La morte di Txato spacca le due famiglie e divide le due madri-matriarche, che non si parlano più: da un lato Bittori, che cerca di elaborare il suo lutto terribile e dall’altro Miren, madre di un figlio terrorista finito presto in carcere e anche lei divenuta abertzale, indipendentista (per amore materno, pensa Bittori). Entrambe reagiscono in modo straordinariamente simile, e cioè parlando da sole. Miren dialoga in chiesa con la statua di Sant’Ignazio di Loyola e se la prende con lui perché non realizza prontamente le sue imploranti richieste. Bittori parla con la gatta Ikatza, rivolgendosi alla foto del Txato, che chiama amorevolmente txatito, e poi, regolarmente, parla a voce alta sulla sua tomba, al cimitero.
In questi dialoghi prende corpo pian piano l’iniziativa di Bittori, che non si arrende, che vuole sapere la verità sulla morte del Txato, su chi l’abbia ucciso. Bellissime e emozionanti le pagine che descrivono il suo rientro furtivo nel paese abbandonato dopo la morte del marito, pagine che rendono mirabilmente i colori, gli odori, le luci, le sensazioni di un passato testardamente mischiato al presente.

Dubbi e certezze infrante

Proprio come il ritorno di un pendolo, hanno inizio da un certo punto in avanti una serie di riavvicinamenti, all’inizio timidi, frustranti, e soprattutto produttori di immediati litigi: Joxe Mari col fratello Garka, da cui lo divide tutto e che accusa, essendo omosessuale, di infangare la famiglia; Miren con la figlia Arantxa, critica della scelta materna di isolare la famiglia del Txato; Bittori con Joxe Mari, cui scrive in carcere per sapere se era stato lui ad uccidere Txato (non era stato lui, ma in precedenza una volta c’era andato vicino). Proprio come la marea del nazionalismo si era infiltrata nella vita delle persone, travolgendola, così lentamente, la risacca della memoria e l’ostinata ricerca della verità, battente come la pioggia atlantica, fratturano le certezze sedimentate, insinuando dubbi, anche nell’irriducibile Joxe Mari, che finisce per scrivere una lettera di perdono a Bittori. E sebbene questo processo di commemorazione e di riavvicinamento non porti all’equivalenza tra vittime e carnefici, indica tuttavia la strada di una possibile riconciliazione, sancita dal finale abbraccio fugace di Miren e Bittori all’uscita dalla messa: «si dissero qualcosa? Niente, non si dissero niente».
[17/09/2017  Francesco Benigno]

giovedì 14 settembre 2017

L’arte non cammina sul viale del tramonto, Festival della Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo


Fa bene il FestivalFilosofia di Modena-Carpi-Sassuolo di quest’anno (15-17 settembre) a sottolineare fin dal titolo – Sulle arti – il fatto che una frastornante pluralizzazione si è oggi costituita come il principale tratto distintivo dell’esperienza estetica (soprattutto quella che riguarda le immagini), e che non avrebbe davvero più senso parlare dell’arte al singolare, come si è fatto bene o male per alcuni secoli.
Questa frantumazione dell’Arte con la maiuscola, dell’arte come esperienza unitaria al di là delle differenze locali o contingenti, si può spiegare in diversi modi. Non tutti necessariamente in sintonia. Vediamone un paio, a cominciare da quello più prestigioso, che è di carattere storico e fu impostato in modo ineguagliabile da Hegel all’inizio del XIX secolo. La sua tesi è nota: c’ è stata una fase nella storia dell’umanità – quella incarnata dall’antica Grecia – nella quale l’esperienza dell’arte fu vissuta, soggettivamente e oggettivamente, come la forma più alta di autoconsapevolezza raggiungibile da un popolo. Un popolo per il quale l’elemento della forma sensibile era almeno altrettanto importante di quello del contenuto spirituale.
QUESTO EQUILIBRIO tuttavia fu rotto in via definitiva dal Cristianesimo. Cosicché, secondo una formulazione spesso malintesa, dopo questo evento storico epocale, nel quale l’incarnazione sensibile viene drammaticamente presentata come un passaggio necessario verso la superiore verità della trascendenza, l’arte sarebbe destinata a restare per noi moderni «qualcosa di passato». Un modo inadeguato e, in ultima analisi, regressivo per esprimere ed elaborare i valori fondamentali di una comunità.
Non è vero dunque, come si sente dire talvolta, che per Hegel l’arte sarebbe «morta». È vero, invece, che il posto che fu suo è stato occupato in modo sempre più incisivo – e irreversibile, secondo lui – da pratiche simboliche caratterizzare da un più alto quoziente di spiritualità: la religione e la filosofia. Questa idea che l’accadere storico sia dotato di una teleologia è una di quelle su cui oggi non riusciremmo più a sintonizzarci con Hegel. Ma dovremmo concluderne che anche la «storia» dell’arte nel senso da lui indicato sarebbe tramontata? Tutt’altro. L’estetica di Hegel è ricchissima di suggerimenti illuminanti su che cosa sarebbe successo all’arte dopo l’irruzione della spiritualità cristiana. E uno di questi è per l’appunto che dall’Arte si sarebbe passati alle arti, e a diverse modalità e gerarchie del loro reciproco rapporto. Insomma: se si prende sul serio Hegel non solo l’arte non è «morta» ma non è decaduto nemmeno il suo specifico indice di storicità. Sempre che la «storia» dell’arte non sia intesa come una sequenza cronologica di eventi ma come una successione dotata di un’intima intelligibilità.
PER QUANTO POLVERIZZATA, dunque, l’esperienza delle arti continuerebbe a rispettare un criterio generale di interpretabilità? Ecco una domanda con la quale l’estetica filosofica moderna si è a lungo cimentata, almeno fino al suo episodio terminale: la grande estetica di Adorno, uscita postuma nel 1970. La quale dà una risposta affermativa, sì, ma al prezzo di una feroce selettività: gli autori che si salvano sono tre o quattro in tutto e il futuro sembra nero.
Se ci spostiamo in avanti di una ventina d’anni – ma sono gli anni in cui nascono e poi si impongono le nuove tecnologie elettroniche – troviamo che uno studioso come Arthur Danto può arrivare a destituire la domanda sulla storicità proprio grazie a una lettura, certo smaliziata ma anche sostanzialmente fedele, della tesi hegeliana. Con questo ragionamento: la parabola che conduce dalle avanguardie storiche (pensiamo in particolare a Duchamp) fino agli anni 60 (e qui va fatto il nome di Warhol), indica un movimento di ripiegamento dell’arte su se stessa che si compie in una sanzione, davvero conclusiva, di autoriferimento. L’arte è ormai qualcosa che parla essenzialmente di se stessa e che si fa, di volta in volta, teoria di se stessa: in questa istanza autoreferenziale essa consuma la sua estrema intelligibilità storica. Ma nel far questo, è evidente, si vota anche all’irriducibile frammentazione evocata all’inizio, e di cui ora vediamo meglio il carattere, alla lettera, post-storico. Che tuttavia non è l’unico. E infatti: come si potrebbe uscire da questa situazione di avvilente e scomposto autorispecchiamento? Il FestivalFilosofia suggerisce di battere un’altra strada e di esplorare un altro territorio. E forse si tratta davvero della via maestra per uscire dall’impasse.
L’IDEA È QUELLA di guardare all’esperienza attuale delle arti come a una nuova fase, ancora enigmatica ma forse davvero epocale, del rapporto, antichissimo, delle arti con la tecnica. E qui sarà bene porre di nuovo l’accento sul gioco del plurale e del singolare, che non è affatto pacifico e va chiarito.
PARLARE IN PRIMA BATTUTA della Tecnica (e non, al plurale, di tecniche o tecnologie), significa infatti attribuire a questo fenomeno una decisiva portata antropologica, arrivando ad ammettere con franchezza che la «natura umana» è tecnicizzata fin dall’origine. Ciò significa che, tra i comportamenti specifici in grado di garantire a homo sapiens un sicuro vantaggio evolutivo, la capacità di immaginare e produrre artefatti (da intendere in un senso molto ampio) si è imposta come quella più originaria e più efficace. E che da questa più originaria e determinante creatività tecnica sono discese tutte le altre forme di creatività di cui l’essere umano ha saputo dar prova, compresa quella che riguarda l’arte.
Se noi poniamo la questione dell’arte e quella della tecnica sotto il segno comune della creatività ci assicuriamo uno sguardo estremamente produttivo sulla scoraggiante polverizzazione con cui l’esperienza contemporanea delle arti ci frastorna. Uno sguardo che è produttivo anche e soprattutto perché riorganizza la nostra capacità di discriminare. Senza che questo discriminare – questo krinein, dicevano i greci: questa «critica» – debba per forza assumere i toni selettivi e funerei dell’estetica di Adorno. Naturalmente si tratta di intendersi su che cosa intendiamo con «creatività». Ma qui è proprio la tecnica ad aiutarci, facendoci vedere che l’invenzione davvero innovativa non è quella che disabilita le regole vecchie. È quella che ne introduce di nuove. E tuttavia questo non basta. Non basta perché queste nuove regole debbono anche costituirsi come l’inizio di processi destinati a durare nel tempo, evolvendo e differenziandosi. Un po’ come succede nei processi di individuazione soggettiva, sostanzialmente interminabili, di cui ciascuno di noi è responsabile.
QUANDO PER LE ARTI contemporanee si parla (quasi sempre a sproposito) di «interattività» bisognerebbe porre l’accento su questo ambito del «dare inizio» a qualcosa che non solo è nuovo ma è anche capace di individuarsi nel tempo.
Un solo esempio: quando il gruppo milanese di Studio Azzurro ha ideato il format installativo denominato «Musei di narrazione» (in particolare quello romano collocato nel vecchio ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà) ha pensato a una struttura aperta a interventi esterni, potenzialmente abilitati a farle subire nel tempo delle modificazioni che potrebbero perfino arrivare a cambiarne la morfologia.
Opere che evolvono come oggetti tecnici partecipati: provate a pensarci e vi renderete conto di quanti esempi vi si affolleranno in mente. È un’importante strada da praticare, ed è lecito aspettarsi che il FestivalFilosofia ci aiuti a capirla meglio.
SCHEDA
Dedicato al tema delle «arti», il FestivalFilosofia, in programma a Modena, Carpi e Sassuolo dal 15 al 17 settembre in 40 luoghi diversi delle tre città, mette a fuoco le pratiche d’artista e le forme della creazione in tutti gli ambiti produttivi, esplorando la radice comune che lega arte e tecnica. Gli appuntamenti saranno quasi 200 e tutti gratuiti. Quest’anno tra i protagonisti ci saranno, tra gli altri, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari, Roberto Esposito, Michela Marzano, Salvatore Natoli, Massimo Recalcati, Emanuele Severino, Carlo Sini, Silvia Vegetti Finzi e Remo Bodei. Nutrita la componente di filosofi stranieri: tra loro i francofoni Agnès Giard, Nathalie Heinich, Gilles Lipovetsky, Marie José Mondzain, Jean-Luc Nancy, Georges Vigarello e Marc Augé, James Clifford, Daniel Miller, Deyan Sudijc, Rahel Jaeggi e Francisco Jarauta.

mercoledì 13 settembre 2017

Sant’Anna Arresi oltre l’avanguardia, trentaduesimo festival jazz

Che sia Lean Left a interpretare meglio lo spirito del 32esimo festival jazz di Sant’Anna Arresi? Non è certo. Anzi è certo che Summit Quartet è allo stesso livello di connessione interpretativa. Il mondo sta attraversando una terribile fase regressiva, i diritti umani sono negati, le rivoluzioni sociali degli anni ’60 del secolo scorso sono vanificate: così recita il documento introduttivo della rassegna. Colleghiamoci allora idealmente a un autore, Max Roach, che con una sua opera, We insist! Freedom now suite, provò in tempi lontani a tradurre in musica la ribellione alle oppressioni e il desiderio di libertà. Quindi festival dedicato a Roach.
Ma interpretare vuol dire andare oltre, proiettare il proprio essere contemporanei. Quello fanno i due ensemble nominati. Si misurano senza paura con le possibilità tuttora illimitate di quella che un tempo si chiamava avanguardia. Un tempo, mica tanto tempo fa. Prima che certi censori linguistici tentassero di mettere al bando l’uso della parola. Due quartetti. Lean Left – azzardiamo – sostiene la bellezza e proficuità della «potenza destituente», Summit Quartet si schiera con le stesse motivazioni di poetica dalla parte del «potere costituente».
Insomma, gli accenti del primo gruppo sanno di distruzione, sono più «punk», quelli del secondo gruppo fanno intravvedere nuove forme di vita (stabili/mobili), sono più «post-free». Ma in entrambi c’è una struttura informale delle opere, un alternarsi di furore e meditazione, una pregnanza del pensiero. Fanno capire che la contrapposizione di «potenza destituente» e «potere costituente» potrebbe essere superata invece che mostrarsi, in politica rivoluzionaria, nella forma di due sette impegnate a scomunicarsi a vicenda. Ken Vandermark (sax tenore e clarinetto) suona nell’uno e nell’altro ensemble. Ecco il personaggio che potrebbe unificare le due aree sovversive. Con lui in Lean Left ci sono Terrie Ex (chitarra), Andy Moor (chitarra), Paal Nilssen-Love (batteria). Le parti percussive della chitarra di Ex, ottenute con la bacchetta da batterista sulle corde, attirano l’attenzione in modo speciale. Sia nel pieno del delirio collettivo sia negli «intermezzi» di quiete riflessiva.
Musica in prevalenza fatta di strappi, di blocchi sonori bruscamente messi in circolo, di note ribadite convulsamente. Però è fatta anche di una fioritura di melodie «perse» al clarinetto, di battiti cupi sulla grancassa. Visivamente i Lean Left sono splendidi inquietanti. Non un sorriso, attentissimi, Terrie Ex, showman surreale punk che ondeggia da un capo all’altro del palco. Ma era dai tempi di Derek Bailey che non si sentivano assoli di chitarra avant-garde così interessanti. Vandermark nel Summit Quartet è scorrevole e lirico (nella rivolta) e Mats Gustafsson (sax baritono) cerca e trova laceranti spunti di lirismo ayleriano. I due fiati vanno spesso in contrappunto acceso/disteso, suonano duetti rabbiosi/amorosi.
[13/09/23017 Mario Gamba]

lunedì 11 settembre 2017

La bellezza è una ferita, Eka Kurniawan

Per la prima volta, un autore indonesiano è ospite al Festivaletteratura di Mantova. Il giovane Eka Kurniawan, il più famoso scrittore indonesiano del momento, presenta il suo primo romanzo scritto quindici anni fa, in italiano: La bellezza è una ferita (Marsilio, pp. 496, euro 20, traduzione di Norman Gobetti), storia improbabile di una donna sfortunata ma bellissima destinata a fare la prostituta che vive, muore e resuscita tra mille vicissitudini, in un’Indonesia poco convenzionale e, soprattutto, poco nota.
Dewi Ayu, la protagonista che abita nel villaggio immaginario di Halimunda a Giava, esprime il desiderio che la sua quarta figlia non venga perseguitata da una bellezza come la sua e quella delle altre tre figlie, ma che piuttosto sia brutta. Ironicamente, le darà il nome Cantik, che significa appunto bellezza (il titolo originale è Cantik itu luka). Il romanzo pubblicato nel 2002, pochi anni dopo la caduta di Suharto, è una saga dove i personaggi vivono paradossalmente una vita che va dal periodo coloniale alla fine del governo di Suharto circondati da elementi mitici, fantastici, scabrosi, reali e dove vari stili si intrecciano tra di loro, il grottesco e l’ironico, il serio e il faceto. La violenza sessuale, fisica, psicologica sembra essere dovunque, offrendoci un’immagine sconvolgente e surreale di un paese che, nonostante sia il più importante dell’Asean con i suoi 250 milioni di abitanti, è quasi sconosciuto in Italia dal punto di vista letterario.
Pochissime sono le opere indonesiane tradotte da noi e La bellezza è una ferita va a colmare un vuoto che né la nomina dell’Indonesia quale ospite d’onore alla fiera di Francoforte nel 2015, né la presenza di un insegnamento di Lingua e letteratura indonesiana da più di un cinquantennio all’Università di Napoli L’Orientale sono riusciti a riempire. L’editore Marsilio, noto per la sua politica culturale di pubblicare dalle lingue originali, presenta il romanzo in occasione di Festivaletteratura (oggi, ore 17,30, presso Palazzo d’Arco Kurniawan converserà con Patrizio Roversi) dalla versione inglese e con una copertina che propone un’immagine cliché di una bellezza femminile (che sembra in realtà giapponese), lontana dagli intenti dell’autore. «Non esistono stereotipi di donne asiatiche che diano un’immagine esotica dell’Indonesia – afferma Kurniawan – Ho sempre evitato questi cliché. Per le edizioni all’estero, non posso più di tanto intervenire e lascio che siano gli editori a ’interpretare’».
Nei suoi romanzi – anche in «La bellezza è una ferita» – stupri e altre nefandezze umane sono molto comuni. I suoi libri sono mai stati banditi o divenuti oggetto di protesta in un paese come l’Indonesia che è in maggioranza musulmana e che, negli ultimi anni, ha visto fenomeni di intolleranza morale e religiosa?
All’inizio, il mio romanzo è stato respinto, ma non per motivi etici. Non ero un autore noto e la casa editrice non era abituata a pubblicare storie dove elementi di varie tradizioni convergessero, più religioni fossero fonti di ispirazione, in cui il realismo spesso cedesse il posto al surrealismo e la vicenda venisse inserita in una prospettiva non convenzionale. Ma devo riconoscere che non sono mai stato oggetto di polemiche, almeno non in forma ufficiale. È positivo, ma non rispecchia la situazione generale della letteratura e dell’arte indonesiana. Oltretutto, i miei libri non sono e non saranno mai rappresentativi della produzione indonesiana tout court. Ci sono così tante tradizioni, generi, ideologie che io sono solo una goccia che si perde nelle tante onde di una letteratura nutrita da generazioni diverse e da regioni culturali dal carattere prismatico.
Forse non ha subito censure perché nei suoi romanzi lei mescola spesso realismo e fantasia. O perché spesso personaggi e fatti narrati non seguono una logica razionale?
Esistono libri banditi al giorno d’oggi? I libri di Pramoedya, un tempo vietati, ora sono regolarmente in vendita nelle grandi catene librarie in Indonesia. La settimana scorsa ho acquistato la traduzione del libro di Bakunin su Stato e Anarchia. Ma ciò non vuol certo dire che che la libertà di espressione in Indonesia sia totale. Ci sono ancora forti pressioni da parte del pubblico su film e rappresentazioni teatrali. Se da una parte i libri sembrano essere al sicuro,  è bene specificare che da un altro punto di vista la situazione è peggiorata. Probabilmente perché ci sono sempre meno lettori. I gruppi radicali fanno pressione su incontri di intellettuali che discutono di argomenti tabù, come il comunismo, oppure che riguardano la religione. Se vedessero un libro di Bakunin o di Friederich Engels non farebbero una piega. Ma sanno davvero chi sono? Sono convinto che molti di loro non ne abbiano idea.
Molta letteratura indonesiana è stata  tradotta in inglese, tedesco (soprattutto dopo la presenza del paese a Francoforte) francese, olandese. Eppure fa ancora fatica a emergere sulla scena internazionale…
La situazione non è così facile e nemmeno la risposta alla domanda. Cosa si conosce della letteratura della Thailandia, Malaysia, Bangladesh, Brunei, Vietnam? Ci sono tante tradizioni letterarie che non appaiono nelle mappe mondiali e l’Indonesia, seppure riguardi un paese ben più grande, è tra queste. Le ragioni sono da rintracciare nella produzione indonesiana stessa. Quanto è grande la nostra interazione con le letterature mondiali? Quante persone al mondo conoscono la nostra lingua e le tradizioni letterarie? Quanti traduttori sono capaci di intervenire sull’indonesiano? Io scrivo solo ed esclusivamente nella mia lingua, l’indonesiano: mi permette di esprimere al massimo i miei pensieri e la mia fantasia. La versione italiana di La bellezza è ferita nasce però da quella inglese. Sarebbe stato meglio tradurre dall’originale, ma quel che conta è che al pubblico arrivi un prodotto finale eccellente. Se l’editore ha ritenuto che questa fosse la strada per farlo, ciò va al di là delle mie decisioni.
Nonostante il ruolo determinante del governo indonesiano con un programma di supporto alla traduzione, solo tre romanzi indonesiani sono stati pubblicati dal 2015 a oggi, «L’uomo tigre» di Eka Kurniawan, «La danza della terra» di Oka Rusmini e «Ritorno a casa» di Leila Chudori. «La bellezza è una ferita» è il quarto. È d’accordo con queste «scelte»?
Sì, certo. È compito del governo sostenere la traduzione in lingue straniere, come è pure suo dovere cercare di promuovere e sostenere altri campi oltre a quelli tradizionali – economico, relazioni internazionali, arti e soprattutto letteratura. È qualcosa che invece viene dimenticato. Questo non vuol dire assolutamente che la letteratura dipenda dal governo.
Quali altre opere letterarie dovrebbero essere tradotte in modo che il pubblico italiano abbia un’immagine più realistica della letteratura del suo paese?
Oltre Pramoedya, ci sono Budi Dharma, Mochtar Lubis, Rendra, Chairil, Seno Gumira Ajidarma, Nh. Dini, ecc. Ma non basta, non c’è una ricetta, la letteratura indonesiana non può essere racchiusa in un «canone» soltanto. Penso, ad esempio, a scrittori di racconti di cappa e spada come Asmaraman, S. Kho Ping Hoo e S. H. Mintardja. Oppure autori di romanzi d’amore, come Mira W. o Marga T. È quasi impossibile dare un’immagine reale e globale della letteratura indonesiana in un paese straniero. D’altronde, un indonesiano medio conosce solo nomi come Italo Calvino o Umberto Eco che certo non esauriscono la letteratura italiana.
 Hanno paragonato i suoi romanzi a quelli di Pramoedya Ananta Toer. Cosa ne pensa?
Credo che in Indonesia non molti, anzi direi pochissimi ritengano vera questa affermazione. I lettori che conoscono Pramoedya e le mie opere sanno che siamo molto diversi. Non nascondo certamente che la sua influenza nella mia creatività e produzione letteraria sia stata enorme, anche se non saprei spiegare in che modo. Pramoedya resta comunque uno dei miei autori preferiti.
Una delle ossessioni di Pramoedya era riscrivere la storia dell’Indonesia da una sua prospettiva critica. Anche lei è spinto dallo stesso desiderio?
Non esattamente. La mia ossessione è raccontare come gli indonesiani – costantemente e cocciutamente – tentino di stabilire un rapporto tra l’individuo e la società. Come gli avvenimenti sociali di grande portata abbiano un impatto rilevante sulla vita delle persone e, al contrario, come singoli individui contribuiscano nel loro piccolo alle tensioni sociali. A volte, per fare ciò, guardo alla storia (avviene per esempio in La bellezza è una ferita) oppure alla semplicità della vita di una famiglia e del suo ambiente (in L’uomo tigre).
Qual è il suo punto di vista sull’emergenza di un Islam conservatore in Indonesia ben lontano da quello moderato e pluriculturale, tradizionalmente nella storia del paese?
Non è un fenomeno recente. Sin dalla proclamazione della nazione indonesiana nel 1945 l’Islam conservatore ha fatto il suo ingresso sulla scena politica, da quando si è aperto il dibattito su quali fossero i cinque principi del Pancasila (l’ideologia politica dell’Indonesia) sino alle rivolte per la formazione di uno stato islamico a Jawa occidentale, a Aceh e Sulawesi meridionale da parte della coalizione del Darul Islam e dell’esercito islamico nazionale, ovviamente sedate. L’Islam conservatore che vediamo oggi non è nato dal nulla, le sue tracce possono essere identificate in un passato non troppo lontano. Poi, in una nazione che ha deciso di seguire la strada della democrazia (soprattutto dopo la caduta di Suharto), nessuno ha potuto impedire che si formassero delle tendenze radicali.
Nei suoi romanzi, sono presenti forze soprannaturali e irrazionali, e si ha anche la sensazione che lei prenda in giro i suoi lettori: è così?
Sì, sono naturalmente influenzato dai racconti della tradizione popolare con cui sono cresciuto. E credo che prendere in giro gli altri, ma soprattutto se stessi, è sempre il modo migliore per sciogliere le situazioni di tensione. Nei romanzi come nella realtà.
[11/09/2017 Antonia Soriente]

domenica 10 settembre 2017

Il Leone d'Oro a The Shape of Water

Cominciamo dal cinema italiano, che quest’anno, lo abbiamo ripetuto molte volte, era presente in forza sul Lido con quattro titoli nel solo concorso principale. Hanno vinto i film «meno italiani», e non perché lavorano con un cast internazionale o perché sono girati in Europa: è una questione di set mentali, di libertà nei riferimenti, di un racconto che non è sottoposto alle forzature della realtà, capace di creare personaggi forti, figure femminili in questo caso, come in Nico 1988, il bel film di Susanna Nicchiarelli, premio della sezione Orizzonti, e in Hannah di Andrea Pallaoro con la Coppa Volpi alla sua interprete, una meravigliosa Charlotte Rampling, sul cui corpo è tracciata l’intera geometria narrativa del film. E, di fronte invece a un immaginario nazionale un po’ formattato, questa è un’indicazione su cui si farebbe bene riflettere.

Il Leone d’Oro l’ha vinto la fiaba liberatoria di Guillermo del Toro, un bel premio, annunciato (lo hanno molto applaudito ed è il classico titolo su cui anche un gruppo molto poco in sintonia (come dà l’impressione di essere questa giuria) si può accordare. E poi non si corre il rischio del film che «non vede nessuno» come il Leone dello scorso anno a Lav Diaz.
Eppure. Qualcuno ha storto il naso, un film facile. Ma mica tanto vista la tendenza diffusa all’autoritarismo castrante che si aggirava tra le immagini del Lido. The Shape of Water, variazione e omaggio a Il mostro della laguna nera di Jack Arnold, e a tutto il cinema dei «mostri» dell’epoca mescola storia, l’America del 1962 durante la crisi missilistica cubana, horror, i musical di Betty Grable Rhonda Fleming, Alice Faye nella love story tra due alieni, la creatura misteriosa maltrattata dai militari come oggi i clandestini in tutto il mondo, e la ragazza muta, donna delle pulizie nei laboratori militari. I «perdenti» di quella società, i diversi, comunisti, ragazze solitarie, gay, neri, creature di altri pianeti, sono però vincenti, hanno un ritmo irresistibile che gli altri non conoscono .
Per il resto il palmarés della giuria guidata dall’attrice Annette Bening appare un incastro di equilibri – com’era «equilibrata» la selezione – premiando un’idea di cinema rassicurante, anche nelle sue apparenze eccentriche, la surrealtà senza magia di Foxtrot (a cui è andato il Gran Premio della Giuria) del regista israeliano Samuel Maoz, già Leone d’oro nel 2009 per Lebanon, che ci dice quanto sia brutta la guerra mettendo vincitori e vinti sullo stesso piano. Gli scontri domestici di Jusqu’a la garde (addirittura un doppio premio miglior regia e leone del futuro come miglior opera prima), esordio di Xavier Legrand, celebrazione del film scritto, che guida lo spettatore nell’inferno domestico del dopo divorzio a rischio femminicidio senza che si affatichi troppo.
Il premio alla sceneggiatura lo ha vinto invece Martin McDonagh per Three billboards outside ebbing Missouri, scrittura questa perfetta ma resa per invenzioni continue che spiazzano, sorprendono a cominciare dal gioco degli attori la coppia Mac Dormand e Harrelson. E, per non dimenticare l’impegno, il mondo di oggi che era il riferimento principale di questa Mostra, specie se sotto forma di metafora, ecco la Coppa Volpi a Kamel El Basha attore protagonista di The Insult, scontro «religioso» ma anche di ostinazione maschile tra un palestinese e un cristiano nel Libano di oggi.
Il film più libero e inventivo e giovane e politico di questa Mostra numero 74 però la giuria guidata da Annette Bening lo ha ignorato: è Ex Libris di Fred Wiseman, non solo affresco americano e della realtà di oggi, ma soprattutto espressione di un’idea di cinema come movimento, invenzione, sfida percettiva. Basta meno per spaventare, per carità.
[10/09/2017 Cristina Piccino]

sabato 9 settembre 2017

Storie Ribelli, Luis Sepúlveda

«Così diceva la prima pagina del Manifesto e il giornale amico mi è caduto di mano mentre camminavo su una strada di Rapolano, vicinissimo a Siena». Con queste parole inizia il capitolo in cui Luis Sepúlveda ricorda la scomparsa del suo amico «Manolo», ovverosia Manuel Vázquez Montalbán. Ma in quelle 300 pagine di Storie Ribelli (Guanda), che lo scrittore cileno presenterà in anteprima domenica 17 a Pordenonelegge, ci sono anche tante altre storie, personaggi, fatti (perfino il rapimento di Giuliana Sgrena e l’uccisione di Nicola Calipari). Ci sono, insomma, i racconti di una lunga vicenda umana, politica e civile. Ne parliamo con l’autore.
Lei è uno scrittore molto amato in Italia. E viene spesso a trovarci. Non ha mai pensato di vivere qui?
Ho pensato più di una volta di vivere in Italia. Solo un pericolo mi ha trattenuto: dopo un anno peserei più di 200 chili. In nessuna parte del mondo si mangia bene quanto in Italia.
Da un paio di mesi, finalmente, lei è tornato ad essere un cittadino cileno. Dopo 31 anni il governo ha deciso di porre fine a un’ingiustizia. Il racconto di quella giornata al consolato apre il suo nuovo libro «Storie ribelli». Cosa si prova ad essere di nuovo un cittadino della propria terra? Tornerà a vivere in Cile? 
È bello quando finalmente si pone fine a un’ingiustizia, ma niente di più. Io non sono un patriota, sono un internazionalista. Ora come cittadino cileno posso votare e il mio parere sulle questioni sociali e politiche diventa un po’ più legittimo. Ecco, questo è tutto. Non c’è nessun cambiamento emotivo o culturale importante. Non penso di tornare a vivere in Cile, preferisco continuare a vivere il Cile attraverso la mia memoria e i miei ricordi.
È stata molto dura la condizione di apolide? 
È una condizione terribile perché la persona apolide è sospetta di tutto e niente. Durante i controlli alla frontiera, negli aeroporti, i poliziotti non sanno cosa fare, un apolide è un essere spogliato di tutti i diritti.
In «Storie ribelli» ripercorre 40 anni di vita personale e non solo attraverso scritti militanti in cui racconta, denuncia, accusa. È per questo che scrive? Per dare voce al silenzio?
Sono sempre stato molto orgoglioso della mia generazione militante, delle centinaia di migliaia di giovani che cercano di cambiare la società. Sono un sopravvissuto di una generazione sacrificata, molti di coloro che sono stati i miei compagni sono morti o stanno sparendo, io sono la loro voce. Finchévivrò le voci dei miei compagni rimarranno vive. Ecco perché scrivo.
Nel primo capitolo del suo libro ricorda Óscar Lagos Ríos, il più giovane della scorta di Allende, morto a soli 21 anni «nel giorno più nero della storia de Cile». Anche lei ha fatto parte del Gap e quell’11 settembre 1973 è al centro del suo racconto, che da lì parte e lì ritorna sempre. Quale sentimento prevalse, rabbia o paura?  
Il sentimento che prevale è un misto di dolore e orgoglio. Dolore per le vite perdute, sacrificate e orgoglio per essere stato insieme a quelle persone straordinarie. Ogni volta che vado a Santiago visito il cimitero e vado alla tomba dei compagni del Gap. Lì, mi fermo davanti alla lapide su cui è scritto il nome di Óscar Lagos e gli racconto di mio figlio maggiore, che Óscar ha preso tra le braccia quando era neonato; ora è un uomo sposato con una bella donna e ha due figli. E al momento di salutare Óscar vado via dicendo «è stato un onore condividere gli anni duri con te, compagno».
Ha mai pensato di non farcela, per esempio nel periodo in cui subì le torture?
Come tutti i militanti che hanno subito le torture o sono stati nei campi di concentramento, sapevo il perché mi trovavo in quella situazione. Non parlo spesso di quell’esperienza, ma ricordo sempre che i miei compagni torturati ne uscivano senza essere più in grado di stare in piedi, con le ossa rotte, con lividi in tutto il corpo e la prima cosa che dicevano era «non ho parlato, non ho detto niente». Il valore di questi uomini e donne è il mio fondamento morale, è la pietra miliare che mi sostiene.
Di Pinochet, scrive, «non resta assolutamente nulla degno di essere ricordato, forse il fetore». Di Allende ricorda «la sua integrità politica e umana». Questo libro contiene anche molti altri ritratti, di persone amiche ma anche di persone che non le piacciono, dagli «infami che permettono a Pinochet di evitare il giusto processo» a scrittori tanto amati come Chatwin o Coloane. C’è qualche personaggio di cui non ha avuto ancora modo di parlare ma al quale le piacerebbe dedicare qualche pagina, magari in un libro futuro?
Sto lavorando lentamente ad un libro che ha come titolo provvisorio Gratitudes, dove parlo di scrittori, pittori e altri artisti, insegnanti, a cui devo molto. Ho sempre pensato che non esista un orfano più triste dello scrittore senza insegnanti e io sono molto grato ai miei maestri.
In «Storie ribelli» parla anche della lotta ai padroni del mare. Le battaglie ambientaliste sono ancora fra i suoi principali interessi?
L’ambientalismo è una delle mie preoccupazioni politiche, so benissimo che i crimini contro l’ambiente hanno un’origine economica e tutto ciò che è economico è intrinsecamente politico.
Come immagina il futuro del Cile?
È molto difficile immaginare il futuro di un paese apatico, socialmente rovinato e politicamente inerte e incapace di immaginare un’alternativa al neoliberalismo prevalente. È vero che ci sono settori della società che interpretano in maniera reale e adeguata la realtà e la possibilità di cambiarla, ma purtroppo sono solo una minoranza. In altri Paesi con governi neoliberali lo Stato si è indebolito fin quasi all’estinzione. In Cile, lo Stato è diventato un’azienda a servizio degli interessi dellemultinazionali che sono proprietari del Paese. È vero che ci sono forze politiche che ipotizzano un cambiamento, ma senza sapere in che modo questo cambiamento possa avvenire in maniera coerente. È difficile immaginare il futuro del Cile.
E dell’attuale, difficilissima situazione del Venezuela, cosa ne pensa?
Sono sempre stato abbastanza critico nei confronti del chavismo e questo ha significato per me tante discussioni con i miei colleghi della sinistra Neanderthal. Per quanto petrolio possa avere un paese, non c’è crescita politica e culturale se si basa tutta l’economia sull’estrazione di una materia prima, senza diversificazione, senza accettare la sfida di nuove tecnologie o la necessità di promuovere energie rinnovabili. Dopo la morte di Chávez, è evidente che il successore, Maduro, non era il più adatto, il più forte dal punto di vista intellettuale per approfondire la cosiddetta rivoluzione bolivariana. Il Venezuela è un Paese che è passato dalla più grande corruzione a un tentativo rivoluzionario che non è stato capace di spiegare il perché della necessità di cambiare la natura di uno Stato corrotto in uno Stato dalla natura solidale. Non si può nemmeno ignorare che gli Stati Uniti hanno cercato di destabilizzare il Venezuela sin dal primo giorno del chavismo. Tuttavia, il Venezuela ha un problema che deve essere risolto dai venezuelani e senza interferenze straniere. Il grande problema non è una possibile deriva dittatoriale di Maduro o che abbiano sorpreso Lilian Tintori con una fortuna illegale nella sua auto. Il problema è il petrolio, l’oro nero che ha sotto il suolo delle sue foreste e pianure.
Tra i suoi libri più amati e più letti c’è «Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare
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. Tornerà a scrivere una favola?  Sì, la favola è un genere letterario che mi piace molto, e sto lavorando a una nuova storia.
[Francesca De Sanctis 09/09/2017]

domenica 3 settembre 2017

Tutto è possibile, Elizabeth Strout

Ripetere lo schema di un romanzo che ha incontrato un grande successo è sempre rischioso, ma la singolarità dell’ultimo lavoro di Elizabeth Strout, Tutto è possibile (in uscita martedì da Einaudi, traduzione di Susanna Basso, pp. 207, euro 19,00) – che presenta una serie di racconti legati tra loro dalla presenza, sullo sfondo, della protagonista di Mi chiamo Lucy Barton – sta proprio nel ricorso a una struttura collaudata non per creare un seguito al romanzo precedente, ma per rimetterne in discussione l’assunto, offrendo una visione stereoscopica dei fatti.
Lucy era diventata famosa, presso i lettori di Elizabeth Strout, raccontando a modo suo la propria storia, nella quale aveva inserito accenni alle vite di altre persone e alle dicerie sul loro conto: sono proprio questi personaggi, parenti o compaesani, a assumere qui il primo piano, acquisendo una dignità e uno spessore che Lucy aveva loro negato e, al tempo stesso, fornendo nei loro commenti un’altra versione dei fatti che riguardano Lucy, e con ciò una diversa interpretazione del suo personaggio.
Scambi di ruoli
Tuttavia, anche chi non aveva letto Mi chiamo Lucy Barton riuscirà ad apprezzare questo romanzo successivo, anzi: non avere un’idea precostituita di Lucy, e non aver mai sentito prima i nomi di Abel, Dottie, o delle principessine Nicely, permette di accostare questi personaggi senza pregiudizi. Erano al tempo stesso figure sullo sfondo dell’incontro tra Lucy e la madre – che non si vedevano da molto tempo per poi ritrovarsi incapaci di affrontare la memoria di un passato brutale o di mettere a nudo i loro sentimenti – e oggetti del loro vuoto chiacchiericcio. Ora, in Tutto è possibile, tornano a animare una sorta di film corale (si pensi a America oggi, che Altman trasse da alcuni racconti di Carver) e l’abilità di Elizabeth Strout sta nel tenere insieme le fila di questo gioco narrativo dando valore a ogni apparizione sulla scena, fosse anche per una sola battuta o uno sguardo silenzioso.
Come in Olive Kitteridge, il libro che valse all’autrice il Pulitzer nel 2009, due sono gli elementi unificanti: lo scenario in cui si svolgono le vicende e la presenza di un personaggio che fa da collante per le varie narrazioni; e se la protagonista eponima, nel lavoro del 2009, occupava il primo piano solo in un numero ridotto di storie, in Tutto è possibile, Lucy appare in un solo racconto, mentre negli altri è citata nei pensieri e nei discorsi di qualcun altro, o non compare affatto. Eppure, man mano che la lettura procede, e personaggi appena accennati nel romanzo precedente acquistano spazio e, soprattutto, umanità, Tutto è possibile si rivela non tanto un novel in stories, come Olive Kitteridge, quanto un piccolo, ma perfetto, romanzo corale. Di storia in storia, infatti, comparse e comprimari diventano protagonisti assoluti, poi si scambiano i ruoli e si scoprono tra loro impensate, ancorché apparentemente casuali o superficiali relazioni, finché la rete tessuta dall’intreccio delle loro vicende si fa talmente fitta da non rendere più necessario il ricorso a quell’elemento unificatore che era rappresentato dall’apparizione di Lucy Barton.
Così, se in Olive Kitteridge l’austera insegnante di matematica che ne era protagonista rappresentava una middle class anonima, e la sua cittadina, Crosby nel Maine, era la raffigurazione di quella stessa provincia in cui vivono e languono le tante Olive che popolano l’universo femminile (non solo americano) in Tutto è possibile il profilo di Lucy, la ragazzina indigente che è riuscita a fuggire dalla miseria e dai maltrattamenti per diventare scrittrice di successo, non combacia più – nei ricordi misti di rabbia, orgoglio e invidia dei suoi fratelli e dei compaesani – con quello della donna che, al termine di Mi chiamo Lucy Barton esorcizzava il passato nella scrittura, rivendicando orgogliosamente le proprie origini, attraverso la fiera riappropriazione del nome di famiglia.
Più ancora di Olive Kitteridge, Tutto è possibile rimanda a un classico americano, Winesburg, Ohio di Sherwood Anderson, un ciclo di racconti tenuti insieme dallo sfondo urbano, da diversi ricorrenti personaggi e dal tema della repressione sessuale nella provincia americana. Come Winesburg, Amgash e le località limitrofe dell’Illinois in cui si svolgono le storie di Elizabeth Strout sono cittadine dove gli abitanti si conoscono tutti e conoscono – o credono di conoscere – tutti i segreti altrui. E come Anderson, anche Strout dimostra che, invece, certe passioni restano chiuse tra le mura delle villette unifamiliari, sfuggendo anche all’occhio del più attento tra i vicini.
Tutti i personaggi di questo romanzo, nessuno escluso, sono vittime di traumi da cui non riescono a liberarsi, e tutti patiscono un qualche senso di vergogna; i loro sono traumi infantili terribili e inconfessabili, o traumi di guerra, o ricordi che, taciuti troppo a lungo sono divenuti, a loro volta, spaventosi. «Erano cresciuti nutrendosi di vergogna; la vergogna era stato il concime del loro terreno», si dice di una famiglia locale, in cui il padre mantiene in segreto per decenni una relazione omosessuale. Ma non provano minore vergogna la ragazza che ha scoperto la madre a letto con il proprio insegnante e la sorella di lei, sposata a un pervertito di cui da anni asseconda i vizi; la moglie che, dopo aver accudito in silenzio un marito fedifrago e irascibile, ha abbandonato settantenne il tetto coniugale, per fuggire in Italia con un coetaneo delle sue figlie; il reduce del Vietnam che ha prosciugato il conto di famiglia per aiutare una prostituta, e il cugino di Lucy che, divenuto un ricco imprenditore, prova comunque la sensazione continua di dover chiedere scusa, «pur non sapendo a chi».
L’empatia della autrice
Da questo senso di vergogna Lucy sembrava essersi sollevata alla fine del suo memoir, nel romanzo precedente, ma il tremendo attacco di panico che mette fine alla sua visita in famiglia svela ora una ben altra verità. Tocca a sua cugina Dottie, che gestisce un bed and breakfast e nota in alcuni dei suoi clienti un fastidioso atteggiamento di superiorità, offrire un’interpretazione di questo comune senso di vergogna attribuendolo alla classe sociale: «Era una questione di culture diverse … E la cultura comprendeva anche la classe sociale, cosa di cui nessuno voleva parlare nel paese perché non era educato, ma Dottie era anche del parere che la gente tendesse a non parlare di classi sociali perché non capiva che cosa fossero. Ad esempio, che cosa avrebbero pensato se avessero scoperto che lei e suo fratello da piccoli erano andati a raccogliere da mangiare nei cassonetti della spazzatura?»
Mostrando verso i suoi personaggi un’empatia priva di sentimentalismo, Elizabeth Strout conferma tuttavia la sua immersione nella consapevolezza di quanto contino le classi sociali, e come chi proviene dagli strati più umili si porti dietro le proprie origini quasi fossero «arti fantasma».
[Silvia Albertazzi 3/09/2017]