domenica 9 luglio 2017

Quando Dio ride, Jack London

Sebbene la sua fama sia dovuta, ancora oggi, alle celebri «storie di cani» di Zanna bianca e Il richiamo della foresta, la critica ha spesso osservato che il Jack London artisticamente più convincente è quello della narrativa breve. Sono molti, infatti, a vedere in Accendere un fuoco il suo capolavoro, perché sintetizza, in pochissime pagine, quella visione «naturalista» dell’esistenza (condivisa con i contemporanei Dreiser, Norris e Crane) sullo sfondo del suo scenario più classico, quello dello spietato Grande Nord. Questo ambiente è invece assente nei racconti di Quando Dio ride (prefazione di Alberto Del Bono, pp. 272, € 19,00 ) che Lindau ripropone nella traduzione classica di Gian Dàuli, per nulla invecchiata nonostante risalga a quasi un secolo fa.
Le short stories di cui si compone il volume sono solo in minima parte riprese dal testo originale americano pubblicato nel 1911 con lo stesso titolo, altre provengono da Racconti dei mari del Sud, altre ancora da Nato di notte. Nel loro insieme offrono non solo un ottimo spaccato dei temi, degli ambienti e dei tipi di personaggi più cari a London, ma soprattutto un saggio delle sue abilità di narratore. In piccoli gioielli come «La razza di McCoy», «Una bistecca», «Il Messicano», lo scrittore crea figure intense e memorabili con una economicità di linguaggio che anticipa il miglior Hemingway, trovando il giusto equilibrio tra visione deterministica e quel di più di carica simbolica che dà agli eventi un respiro universale.
In «La razza di McCoy», per esempio, nonostante London indugi sulla violenza degli elementi e soprattutto del fuoco «infernale» scatenatosi a bordo di un bastimento carico di grano, assegna un ruolo particolare a un uomo mite e profondamente buono come McCoy, convincente figura cristologica che non solo porta alla «salvezza» nave e equipaggio, ma redime la sua stirpe, essendo un mezzo sangue discendente da uno degli ammutinati del Bounty.
La raccolta mette in evidenza tanto la poliedricità tematica e stilistica di London, che indovina sempre il giusto punto di vista narrativo, quanto la sua ben nota contraddittorietà sul piano politico e culturale. Se in alcuni racconti riecheggia quella visione razziale (e per alcuni razzista) che sta dietro la sua spesso citata affermazione circa il suo essere «prima di tutto un uomo bianco e poi un socialista» (penso a racconti peraltro avvincenti come «La pazzia di John Harned» e «Le terribili isole Salomone»), tanto in «La razza di McCoy» quanto nel «Pagano» e soprattutto nel «Messicano», gli eroi non sono bianchi, e si dimostrano più generosi, più forti, più pronti al sacrificio della razza dominante.
«Il Messicano» non è solo un racconto su un ragazzo che si fa boxeur per sostenere la Rivoluzione, ma è uno studio sulla fallacia di certe percezioni consolidate. Qui non è la nietzschiana bestia bionda a trionfare, bensì un ragazzo dalla pelle scura il quale non vede i diecimila «gringo» che gli tifano contro, ma li percepisce trasfigurati nei fucili per la rivoluzione che potrà comprare con la ricca borsa dell’incontro. Come in altre storie, non è solo il tema a essere motivo d’interesse, ma soprattutto il modo in cui quel tema si fa racconto, a dimostrazione di quanto London, pur partendo dalle sue esperienze dirette, fosse del tutto consapevole che per trasformarle in letteratura occorreva anche quell’astuzia tecnica che tanto ammirava nei suoi boxeur, nei suoi marinai coraggiosi, nei suoi «selvaggi» pescatori di perle.
[Giorgio Mariani 09/07/2017]

Una giornata di Ivan Denisovic, Aleksandr Solzenicyn

Nell’agosto del 1933 una brigata di scrittori sovietici fu inviata nei luoghi dove era stato appena realizzato il Belomorkanal, il nuovo canale che collegava il Mar Bianco al lago Onega e da lì al Baltico. Erano richiesti di raccogliere materiale documentario sul lavoro dei forzati, la «nuova forgiatura» (perekovka), ovvero la riabilitazione attraverso il contributo all’edificazione della patria socialista. L’opera, che doveva combinare «un rigido approccio documentario alla chiarezza e alla concretezza espositiva», era pensata per la collana di libri della serie «La storia delle fabbriche e degli stabilimenti». Vi parteciparono, tra gli altri, Michail Zošcenko, Viktor Šklovkij, Vsevolod Ivanov e Bruno Jasenski, sotto la supervisione di Maksim Gor’kij, mettendo insieme un esemplare di quella letteratura di produzione, che prevedeva testi in prosa o in versi legati ai viaggi di scrittori e poeti nei luoghi dell’industrializzazione, per descrivere e celebrare l’eroismo della classe operaia sovietica.
Di certo, però, il libro sul Belomorkanal aveva un carattere peculiare, perché in quanto concentrato sul lavoro coatto dei prigionieri del Gulag, riconosceva un ruolo di primo piano al sistema concentrazionario gestito dell’Ogpu, la direzione politica dello Stato. Proprio per questo motivo, con la caduta in disgrazia di Genrich Grigor’evic Jagoda si arrivò alla fucilazione o alla detenzione di molti degli autori e degli organizzatori di quell’edizione, nonché alla confisca e alla distruzione delle varie tirature del volume.
Un trentennio più tardi, quando già il XX congresso del Pcus aveva condannato il culto della personalità e si era inaugurata l’epoca del disgelo, la rivista «Novyj Mir», diretta da Aleksandr Tvardovskij, pubblicò il racconto lungo di Aleksandr Solženicyn Una giornata di Ivan Denisovic, originariamente intitolato, semplicemente, Šc-854, vale a dire il numero di matricola del protagonista Ivan Šuchov, che non aveva nulla da invidiare alla letteratura della produzione per intento documentario, chiarezza e concretezza espositiva. Dedicata anch’essa al lavoro dei forzati, questa opera non era tuttavia mirata a sottolinearne il processo di forgiatura sociale e di redenzione. L’autore, infatti, non faceva parte di un collettivo di scrittori inviati dalle associazioni letterarie a descrivere le conquiste del lavoro socialista: era egli stesso un forzato e il suo racconto, che aveva un esplicito orientamento memorialistico, costituiva un evidente atto di accusa nei confronti del mondo concentrazionario sovietico, espresso nei toni pacati di quella ordinaria quotidianità, che lo rendeva ancora più sconvolgente. In una intervista del 1976 a Nikita Struve, lo stesso Solženicyn dichiarò: «Basta descrivere una sola giornata di una persona qualunque da mattina a sera e sarà tutto chiaro».
L’anno precedente lo scrittore era stato insegnante nella regione di Vladimir, nel villaggio di Mezinovskij, poi, nel 1957 si era trasferito a Rjazan per essere assunto come insegnante di fisica e astronomia, e fu lì che scrisse il racconto. Dopo aver partecipato, nel corso della Grande Guerra Patriottica, a importanti combattimenti tra i quali la battaglia di Orël ed essere giunto fino alla Prussia orientale con il grado di capitano, nel febbraio del 1945 Solženicyn era stato arrestato per aver espresso opinioni negative su Stalin in una lettera a un amico d’infanzia.
ll suo calvario – otto anni di lager e tre di confino – era cominciato qui, e lo aveva portato tra l’altro alla šaraška (laboratorio scientifico segreto all’interno del sistema concentrazionario sovietico) di Marfino e al lager di Ekibastuz in Kazachstan, dove Solženicyn lavorò come minatore, muratore e operaio in fonderia. A quell’esperienza sono legati, nel ricordo, i tanti personaggi che il protagonista di Una giornata di Ivan Denisovic incontra nella sua giornata di prigionia: il capitano di marina, il fervente battista Alëška, l’intelligent Cezar’, il dochodjaga Fetjukov, detto lo sciacallo, il brutale sottotenente Volkovoj, e così via, nella puntuale ricostruzione di luoghi e circostanze con l’orecchio sempre attento al lessico, alle inflessioni, ai linguaggi del mondo concentrazionario e della sua variegata composizione sociale. Proprio nella ricchezza stilistica del parlato, nel recupero dello skaz, ovvero della tensione legata al tentativo di rendere il discorso orale, si evidenziano gli aspetti innovativi del testo di Solženicyn rispetto ai dettami del realismo socialista, ricollegandolo piuttosto ai migliori esempi della nascente linea degli scrittori contadini, i derevenšciki.
La pubblicazione dell’opera fu decisa direttamente da Nikita Chrušcev, evidentemente ancora memore del caso Živago. Giunto in redazione grazie alla critica letteraria Anna Berzer, il testo era stato trasmesso a Chrušcev da un entusiasta Tvardovskij, che lo aveva corredato con una serie di pareri di scrittori particolarmente influenti nel mondo letterario degli anni del disgelo. Anna Achmatova lesse il racconto prima della sua pubblicazione e dichiarò: «Questo testo lo deve leggere e imparare a memoria ognuno di tutti i duecento milioni di cittadini dell’Unione Sovietica». Di certo pensava al proprio Requiemi, diffuso allora solo oralmente in una strettissima cerchia di persone.
Anche Varlam Šalamov, l’altra grande voce letteraria del mondo concentrazionario sovietico, il cantore della Kolyma, rimase profondamente colpito dall’opera di Aleksandr Solženicyn, e dopo averla letta, nel novembre del 1962 notò come il lager venisse presentato attraverso gli occhi del protagonista Šuchov: «un contadino che aveva vissuto sulle sue spalle la grande prova, l’aveva sopportata e ora la raccontava».
Sebbene La Giornata di Ivan Denisovic appartenga al genere memorialistico, è tuttavia lontano da qualsiasi confessione, né indulge in processi introspettivi: presenta, invece, la realtà quotidiana in tutta la sua terribile e banale normalità, offrendo uno spaccato di tipi e comportamenti appartenuti a un mondo strappato alla vita e agli affetti. Ciò che più colpisce è la naturalezza con la quale tutto si compie e viene recepito dai vari personaggi, che si tratti di angherie o incessanti attese, di pesanti fatiche quotidiane o di privazioni. La normalità della sopraffazione e della violenza nel lager, al di fuori del quale, gelida e sterminata, si estendeva la «grande zona», l’intero paese dei Soviet.
Finalmente nella redazione definitiva, Una giornata di Ivan Denisovic torna ora in libreria magistralmente curato da Ornella Discacciati per Einaudi (pp. 296, € 20,00) e arricchito da un acuto scritto introduttivo e da una nota alla storia del testo, offrendo al lettore italiano anche due altri importanti racconti che Solženicyn compose prima di dedicarsi, negli anni che precedettero l’esilio, alla stesura di Arcipelago Gulag, per il quale cadde nuovamente in disgrazia e che pur essendo stato proposto nel 1964 per il premio Lenin fu dichiarato illegale nell’Unione Sovietica e ripubblicato solo negli ultimi anni della perestrojka. I due racconti che accompagnano la nuova edizione del testo più famoso di Solženicyn sono «La casa di Matrëna» e «Accadde alla stazione di Kocetovka», e anch’essi attingono all’esperienza di vita e alle memorie dello scrittore di cui evidenziano la profonda cifra stilistica e narrativa.
Tassello d’obbligo nella tradizione della grande letteratura russa, e legato al lavoro dello scrittore come insegnante a Mezinovskoe, nella regione di Vladimir, il primo racconto costituisce un magnifico esempio di descrizione della vita e della mentalità del contadino russo il cui mondo l’industrializzazione forzata ha distrutto per sempre. Allo stesso tempo, oltre lo schermo della vita quotidiana e dello storicismo, si svelano i tratti assoluti, universali dei personaggi, delle loro passioni e delle loro sofferenze.
Il secondo testo, invece, si ricollega al genere assai diffuso nella letteratura sovietica del racconto di propaganda dedicato allo smascheramento di spie, sabotatori e nemici del popolo. Ma in Solženicyn il racconto ha ben altro spirito, e il tenente Zotov, pur ritrovandosi costretto a denunciare il misterioso viaggiatore che compare nella trama, è personaggio onesto e di grande spessore morale, vittima lui stesso di un ingranaggio che non risparmia niente e nessuno.
Come sottolinea Ornella Discacciati, l’insieme dei tre testi offre una testimonianza inconfutabile di quella grande stagione che attraversò la letteratura russa del dopoguerra, dai romanzi di Grossman ai racconti di Šalamov fino, appunto, alla Giornata di Aleksandr Solženicyn, una fioritura nel gelo dell’inverno.
[Stefano Garzonio 09/07/2017]

Moll Flanders, Daniel Defoe

Daniel Defoe fu giornalista geniale, uomo d’affari fallimentare, perseguitato dai debiti, biografo di banditi famosi, dissidente, fuori dalla chiesa anglicana anzi da ogni chiesa, che si accendeva anche prendendo parte a diatribe sociali e politiche. Swift lo ricordava come quel tizio messo alla gogna per debiti – la giustizia inglese era a quei tempi pronta e spietata. Malgrado le sue alterne fortune, Defoe produceva instant books sul commercio, la religione, l’educazione, la povertà, la peste, interventi a sostegno prima dei whig, poi dei tory.
Uno straordinario esempio di giornalismo è The Journal of the Plague Year (del 1722), raccolta di osservazioni, ricordi pubblici o privati della grande peste del 1665 che aveva fatto di Londra un inferno in terra, insomma il moderno documentario di quel tragico evento, che facilmente avrebbe potuto scadere nel sentimentalismo o nella pietas puritana. Ma Defoe fondò saldamente su tanti fact e misurata fiction la narrazione realistica, diretta, orale in origine, priva di metafore e lumi trascendentali.
«Oggi più o meno tutti hanno imparato a scrivere badando alle circostanze – notò Mario Praz nella sua famosa Storia della letteratura inglese – ma quanti lo facevano prima di Defoe? Egli trovò un modo di dare l’ impressione della realtà , della cosa vissuta, insistendo sui minuti particolari, e proprio su certi minuti dettagli che non erano essenziali all’intelligenza del racconto, ma che contribuivano potentemente a creare ‘un’atmosfera’». Praz si riferiva a quelle minutaglie inutili, quell’ effet de réel che anni dopo Roland Barthes avrebbe considerato essenziali a fondare il senso di verità della scrittura naturalistica. «Questo è il realismo di Defoe: una sorta di pacata allucinazione, la cui credibilità è infinitamente ampliata dalla casualità del discorso – commentò Giorgio Manganelli – Tendenzialmente, quindi, è un documento, una serie di “prove”, di “testimonianze”, che mirano alla credibilità … Le pagine, gli episodi si giustappongono in un disordine vitale, e quel tanto di unità che vi si ritrova nasce da certe qualità del personaggio, della “voce recitante”, qualità più spesso tipiche, mitiche che individuali.»
All’età di sessant’anni Defoe divenne, con Robinson Crusoe, il primo, non solo cronologicamente, dei grandi romanzieri del Settecento inglese: Fielding, Richardson, Sterne. I suoi successori non riuscirono a estrarre dalla sua cava tutto l’oro che lui, artista inconscio, vi aveva sepolto – secondo Virginia Woolf. Quel Robinson che aveva fatto naufragio in una situazione sconosciuta (l’isola), ancora tutta da capire, ma ricca di futuro, resta il campione dell’ homo oeconomicus; e tuttora ci chiama a confronto.
Moll Flanders, pubblicata nel 1722, doveva essere la controparte femminile di Robinson, ma l’intrusione del curatore nel diario della famosa ladra, un anonimo puritano che taglia ogni licenziosità o frivolezza, dimentica di dar ragione dei numerosi figli, e della conclamata debolezza femminile – qui esercitata come arte manipolatoria – conferisce alla protagonista una prontezza di pensiero e di azione che è quasi virile. In ogni confronto coi suoi cinque mariti, è lei a dominare e decidere. Nell’ottima traduzione appena uscita da Feltrinelli di Antonio Bibbò (pp. 410, € 9,00) la voce di Moll risuona forte e chiara, le sue penitenze sono nubi passeggere, i suoi stratagemmi sempre vincenti. Ogni scena di sesso – che il premuroso curatore ci risparmia – è stata silenziosamente decisa a priori da lei, che la giustifica con la solita, ottima scusa: la minaccia della povertà presente o imminente. Per ogni furto che compie sempre con destrezza, c’è il diavolo che, invisibile, l’ha manovrata contro la sua esplicita volontà. E la sua volontà morale è così forte e esigente che si ritorce contro la vittima e l’accusa di aver colpevolmente provocato e assistito il furto con la propria oltraggiosa noncuranza o peggio.
Oltre alla assenza delle metafore e delle similitudini, il linguaggio di Defoe è svelto e convenzionale come richiedevano la prosa scientifica e il nuovo pubblico di lettori (artigiani, commercianti, donne, fanatici di vario tipo ) che Defoe non dimentica mai – avidi di cronaca nera ma anche di sentenziosa virtù. Un puro godimento sono i dialoghi di Moll con i suoi gentiluomini, ricchi borghesi che lei riesce ad alleggerire di grosse parrucche, spade, orologi, bastoni oltre al portafoglio; a volte un intero baule o un cavallo. La domanda dell’uomo è diretta e si aspetta che anche la risposta lo sia anch’essa. Ma Moll dà inizio a una argomentazione ondulatoria che nega e promette al tempo stesso, attirando il richiedente verso l’obiettivo che lei ha in mente.
La resa di lui è convalidata da un contratto. Moll esige un contratto non solo per lo scambio in danaro, ma anche per assicurarsi di favori, promesse, comportamenti. Una schematica didascalia arreda la scena, e all’improvviso balena un sorriso sul volto di lei, e più raramente di lui. I sorrisi sono comunque in numero assai minore dei contratti. Più numerose sono le occasioni per fare i conti in tasca a Moll: quelle somme possedute o sperate o rubate o perse scandiscono crudamente le fortune e le sfortune della protagonista e l’ansia del lettore. Ci sono scene magistrali, poche ma indimenticabili.
Se fosse vissuto oggi, Defoe avrebbe girato il grande film su Londra: malavita organizzata vs ricca borghesia, con scorci rabbiosi in bianco e nero, attori di strada, e come colonna sonora un Haydn corretto al jazz. Sei anni dopo, nel 1728, ci pensò John Gay che trasportò sulle scene londinesi l’intero mondo di Moll Flanders in uno spassoso, irriverente musical, recitato da una compagnia di straccioni, su accompagnamento di canzoni popolari e ouverture d’opera: The Beggar’s Opera appunto. Ladre, prostitute, mezzane, borseggiatori, ricettatori, carcerieri, banditi, applauditissimi nel maggior teatro di Londra, il Lincon’s Inn Fields, furono riprodotti in stampe, ventagli, tazzine, stoffe. Fu uno dei primi eventi di cultura popolare a fare incassi straordinari.
[Viola Papetti 09/07/2017]

giovedì 6 luglio 2017

Diario Persiano. Viaggio sentimentale in Iran, Anna Vanzan

«È un paese complesso, con una società variegata; apparentemente austera ma amante della vita e di tutti i suoi piaceri e in molti segmenti assai colta»: questo è l’Iran raccontato da Anna Vanzan nel suo Diario Persiano. Viaggio sentimentale in Iran (Il Mulino, pp.186, euro 15). Oltre a essere un manuale storico-geografico – che non lesina sulle descrizioni di «struggenti paesaggi e deserti cinti da monti» -, il Diario è un resoconto sentimentale, come lo definisce l’autrice nel sottotitolo.
NON È SOLO IL TACCUINO intimo di una viaggiatrice esperta, è un tentativo – riuscito – di decostruire gli stereotipi che avvolgono questo Paese. Già dalle prime pagine, Vanzan affonda la penna nello spinoso tema dei pregiudizi che dagli anni ’70 influenzano la visione occidentale. «È in atto dal 1979 una campagna denigratoria nei confronti dell’Iran, che lo ha trasformato nel nemico pubblico numero uno; e molti ne sono ancora convinti. Dal canto loro, anche gli iraniani sono sospettosi nei confronti dell’Occidente: hanno un rapporto di amore-odio con alcuni stati, soprattutto Usa e Gran Bretagna. A buona ragione: si pensi alle ingerenze statunitensi e britanniche alla base del complotto che rovesciò il governo di Mossadeq, di cui tra qualche mese ricorre il 64/mo anniversario».
Diario Persiano ripercorre alcune tappe del viaggio, soffermandosi su dissertazioni artistiche e digressioni storiche fondamentali a comprendere la complessità del Paese. Una delle caratteristiche è la secolare convivenza tra le due confessione dell’Islam, cui Vanzan dedica un intero capitolo. L’Iran è, infatti, uno dei principali paesi musulmani a maggioranza sciita: «Le conflittualità esistenti riguardano soprattutto la dirigenza politica iraniana e i gruppi sciiti e sunniti stessi: a livello di vita comunitaria le cose vanno assai meglio di un tempo», spiega la studiosa.
Sul fronte politico, invece, esiste ancora una diatriba tra il partito degli scettici e quello degli ottimisti che, all’indomani dell’accordo sul nucleare, si aspettavano un sensibile balzo in avanti, specie in materia di ripresa economica: «Ci sono stati segnali positivi – continua Vanzan – l’Iran è uscito dal gruppo dei paesi paria del mondo, si ha più fiducia nel futuro. Anche se la ricaduta dei nuovi accordi economici non è ancora arrivata alla base sociale. L’inflazione si è abbassata ma si auspica un benessere maggiormente diffuso». Motivo per cui la rielezione di Rouhani ha un duplice significato: garanzia di rinnovata fiducia e chance per il neo-presidente di rivolgere la propria attenzione alle annunciate riforme politiche e sociali.
NONOSTANTE LA SUA FAMA, fino allo scorso 7 giugno, l’Iran era l’unico paese in ambito mediorientale a essere sfuggito al terrorismo. Poi, il duplice attentato a Teheran ha cambiato la percezione della popolazione.
Gli attacchi a due istituzioni, una «laica», il Parlamento – simbolo della democrazia -, e l’altra religiosa – il santuario di Khomeini, vate della Rivoluzione – ha creato una crepa nella fiducia delle persone. «L’evento ha scosso gli iraniani perché non se l’aspettavano. Durante la mia ultima visita, poche settimane prima dell’attentato, ho percepito una certa sicurezza, molti mi hanno detto ’Qui l’Isis non è arrivato’. Erano più preoccupati per le ’intemperanze’ di Trump e per l’ostilità saudita».
[Francesca Del Vecchio 6/07/2017]

martedì 4 luglio 2017

proposto da Silvia

 
 
Carissim* tutti,
aspetto le vostre proposte per la prossima stagione. Intanto, vi faccio la mia : KATE ATKINSON, DIETRO LE QUINTE AL MUSEO; ristampato di recente da Casa Editrice Nord, non dovrebbe essere difficile da trovare ed è una lettura molto interessante e piacevole.
A presto con le vostre idee
Buona lettura a tutti
Silvia

Addio Paolo Villaggio

Paolo Villaggio se n’è volato via, ora è libero, ha detto sua figlia. E se n’è andato come ha vissuto, senza crearsi troppi crucci, incurante di un diabete subdolo e dispettoso.
Paolo Villaggio non era alto ma aveva un panzone esagerato, forse perché da qualche parte doveva custodire la mole spropositata di talento e genialità che ha contraddistinto la sua vita prima ancora della sua carriera.
Paolo è stato il cantore  iperbolico dell’italica miseria, della necessità di sopravvivere in un mondo popolato di gran mascalzon cav grand uff lup mann pezz di merd. Lui non ha mai visto di buon occhio i potenti. A partire da quella cialtronesca amicizia con Fabrizio De André che ha fruttato anche un paio di canzoni: Il fannullone e Carlo Martello dove il re di ritorno dalla battaglia di Poitiers decide di concedersi una pausa erotica con una donna che poi scopre mercenaria del sesso. Quella tra Faber e Villaggio è un’amicizia genovese e duratura tra due ribelli, nati in famiglie benestanti ma irrispettosi delle gerarchie, pronti a salpare sulle navi da crociera. Due scapestrati anarchici, all’epoca ancora sconosciuti ma già nel mirino della censura per il testo di Carlo Martello.
Per un breve periodo Villaggio (che aveva frequentato bambino la scuola Diaz) lavora in una grande azienda e si occupa di eventi. Sa guardarsi intorno e, vero o falso che sia, lì incontra il ragionier Bianchi. Bianchi non lavora in un ufficio ma in un pertugio rimediato in un sottoscala, quando Villaggio tende la mano per presentarsi e dice «permette?» quello si alza in piedi e allora il nostro gli chiede il perché. Risposta:«Credevo che volesse ballare». Fantozzi è nato, anche se ancora non lo sa.
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Forte di alcune esperienze nella compagnia goliardica Mario Baistrocchi (dove sono passati anche De André e Carmelo Bene) Villaggio si esibisce poi a teatro presentando un prestigiatore maldestro e aggressivo nei confronti del pubblico. E fa ridere. Molto. Al punto da essere mandato a Roma da Maurizio Costanzo, dove il suo cabaret folgora Ennio Flaiano e poi al mitico Derby di Milano. Lì si forma davvero tra Cochi e Renato e Giorgio Gaber, a Tirar mattina con Umberto Simonetta.
Di lì a poco  lo scoprono la radio e la tv dove irrompe come professor Kranz con l’immancabile cammello di pelouche e soprattutto Giandomenico Fracchia, perennemente convocato dal gran capo megagalattico , costretto a non trovare pace sulla poltrona sacco, devastato dalla salivazione azzerata e costretto a riconoscere «come è umano lei» mentre gli «si sono intrecciati i diti».
L’effetto è dirompente anche perché Villaggio inventa un lessico destinato a restare nel tempo. Fantozzi è lì, in agguato con i suoi pantaloni ascellari, i suoi congiuntivi inarrivabili, il basco e il servilismo iperbolico. Prima appare sull’«Europeo», poi in libro, infine in film. Il successo è smisurato: alla fine si conteranno cinque libri e dieci film con il ragionier Ugo Fantozzi bistrattato dal mondo, con tanto di nuvola personale che lo segue puntuale. Ma non si creda di poter liquidare con una scrollatina di spalle il fenomeno Villaggio e la sua più (s)fortunata creatura. Tra il primo e il secondo libro di Fantozzi pubblica il geniale Come farsi una cultura mostruosa (Bompiani, prefazione di Umberto Eco), tradotto in russo ottiene il premio Gogol, anzi Evtushenko interrogato sugli autori italiani preferiti cita «Vigliacchio» perché gli ricorda sia Gogol che Cechov.
Serviti gli schizzinosi comincia l’immensa trionfale cavalcata di Villaggio attraverso il cinema con Monicelli, Gassman (grande amicizia), Corbucci, Samperi, Loy, Ferreri, Comencini, Avati, Salce naturalmente, Neri Parenti, Castellano e Pipolo, Mogherini, Ponzi, Olmi, Wertmüller, Salvatores e naturalmente Fellini che in questo modo lo consacra definitivamente al di là del personaggio, in quanto attore. Infatti arriva anche un leone d’oro alla carriera alla Mostra di Venezia, grazie a Pontecorvo (primo comico e ricevere questo riconoscimento), poi anche a Locarno. Contemporaneamente trionfa con la tv, la radio, l’editoria, il teatro, tra l’altro con un Avaro di Molière per la regia di Giorgio Strehler.
Impossibile ripercorrere tutte le tappe della carriera magistrale di un individuo ruvido, a tratti scorbutico, assolutamente non compiacente, basti citare i titoli di un paio di suoi libri: Vita, morte e miracoli di un pezzo di merda e Siamo nella merda. Pillole di saggezza di una vecchia carogna.
In anni non sospetti (primi ’80) Villaggio, a lungo sostenitore del Pci, si era schierato con Democrazia Proletaria, in tempi recenti aveva invece simpatie per il suo concittadino Grillo. Come il suo grande estimatore Fellini anche Villaggio è diventato un aggettivo, meglio la sua creatura: fantozziano è presente nei dizionari. Non capita a tutti, meno che mai ai comici. Anche se Villaggio era davvero molto di più, infatti era già presente nei vocabolari col suo stesso nome, seppure con significato diverso.
[Antonello Catacchio 04/07/2017]