sabato 24 giugno 2017

Lettura ed editoria secondo le leggi di «The apprentice»


Accade come in quel programma tv The apprentice condotto da un rapace imprenditore che alla fine di una gara tra due squadre rivali decreta un responsabile della «disfatta» dell’impresa e gli comunica: «sei fuori», il gesto perentorio della mano che indica l’uscita. Ciao e grazie, in fondo un apprendista è intercambiabile. Cosa abbia a che fare un simile scenario con l’amore per la lettura è presto detto: niente. Pratiche similari illuminano invece, e piuttosto bene, un certo mercato editoriale selvaggio e del tutto miope in cui vendere libri o asparagi è equivalente. A darne conferma è la decisione, da parte di Fabbrica del Libro e Aie, di sollevare Chiara Valerio dall’incarico direttivo sul programma generale di Tempo di Libri. Se è vero che festival, saloni, fiere del libro e dell’editoria imperversano in Italia come fossero delle performance compulsive, per quantità e concentrazione territoriale, altrettanto vero è che bisognerebbe entrare almeno nel merito dei programmi. Quello composto e diretto da Chiara Valerio è stato esito di un’accorta intelligenza relazionale. Non basta, è vero. Ma le ragioni di tale insufficienza non si attribuiscano a un lavoro che, perfettibile o no, avrebbe dovuto trovare maggiore sostegno nella seconda edizione e non una brusca interruzione. La diretta interessata si definisce attonita, le criticità evidenti (rapporti mancati con il territorio, collaborazioni da rafforzare e strutturare), sono state ritenute «ragionevoli ma non praticabili», sia dalla Fabbrica del libro che da Aie, responsabili della mancata mediazione (nei giorni scorsi) con BookPride e inoltre attenti solo all’obiettivo imprenditoriale dell’iniziativa, dimenticando che i libri oltre che una merce sono anche contenuti. Ed è esattamente questo uno dei problemi dell’agonismo culturale contemporaneo. Che individua intelligenze brillanti, professionisti capaci come Chiara Valerio (ma la stessa cosa sarebbe potuta accadere a Nicola Lagioia, direttore del programma del Salone di Torino) e poi li liquida come apprendisti. Intercambiabili e da scaricare alla prima occasione. Peccato che non siamo in un programma tv ma in un mondo dove i libri dovrebbero essere trattati con maggiore serietà.

Swing Time Zadie Smith

Dopo il successo di Denti bianchi (Mondadori) che 15 anni fa le ha garantito un posto di rilievo all’interno del panorama letterario internazionale, Zadie Smith è oggi una quarantenne che continua a interrogarsi sulla scrittura e sull’urgenza di affrontare temi sociali. Lo ha fatto anche a Lignano Sabbiadoro pochi giorni fa, in occasione del premio Hemingway per la Letteratura 2017, quando ha ricordato duramente l’incuria con cui è stato costruito l’edificio di Londra «per poveri» andato a fuoco mietendo oltre cento vittime – per risparmiare non erano stati usati materiali ignifughi.
Anche in questo suo ultimo volume, Swing Time (Mondadori), utilizza la narrazione per conciliare questioni di carattere personale con quelle più generali che riguardano tutti noi ma di cui spesso ci si dimentica. Numerosi sono i passaggi in cui le singole storie veicolano una più vasta comprensione del mondo.
In che modo la visione sociale può essere restituita da un punto di vista letterario?
Affrontare le cose con un approccio diverso può portare a un cambiamento. Mi riferisco ai dogmi politici nel senso che se si parla in termini di destra o di sinistra non si va da nessuna parte. È invece più utile fare riferimento ad altri concetti che possono essere quelli della fortuna, della gratitudine, dell’umiltà, che hanno un loro versante politico oltre ovviamente ad averne uno religioso e ad avere a che fare con la religione cristiana, cattolica, protestante. In questo senso mi sento fortunata. Sono stata in realtà «allevata» dallo Stato, nel senso che mi ha dato un’istruzione gratuita, un’assistenza sanitaria gratuita e so bene di avere un debito in considerazione proprio di tutto questo. Forse oggi chi cresce in una situazione diversa, chi ha denaro, tende a non pensarsi così, non si sente fortunato, ha l’illusione di avercela fatta perché è un suo merito essere nato all’interno di una famiglia ricca. Ricordiamoci cosa è la libertà, ricordiamoci cosa è veramente essere fortunati e forse c’è un punto d’accordo se ci si dice vicendevolmente: «Io mi sento così, e tu? Io ho questo istinto un po’ basso che non è proprio encomiabile e tu, sei anche tu così?». Se ci si rivolge alle persone in questo modo, magari escono dalla loro scatola.
E cosa può accadere?
Mi viene in mente una cosa che ha raccontato un filosofo angloamericano, John Rawls, che ha dato un’immagine molto narrativa della giustizia dicendo: se come gruppo di persone dovessimo decidere qual è la struttura sociale in cui vogliamo vivere, e se avessimo un velo davanti agli occhi in modo da non sapere chi è chi, siamo lì velati e dobbiamo decidere quali saranno le regole, quale sarà il sistema che si applicherà a ognuno di noi e i diversi ruoli che rivestiremo, di ciascuno di noi uno farà il giornalista, l’altro il papa, l’altro sarà artista, l’altro sarà operatore ecologico ma noi non sappiamo chi saremo e velati dobbiamo decidere concretamente come sarà questa struttura. Insomma, togliere l’elemento della soggettività, la stessa cosa fa anche la narrativa togliendo l’interesse soggettivo.
Auto-orientamento e riconoscimento di sé sono due dei temi prevalenti nella sua scrittura. C’è anche un intendimento trasformativo?
Spesso nella scrittura letteraria si creano dei luoghi ipotetici all’interno dei quali noi possiamo assistere al panorama dei rapporti, delle situazioni etiche e morali senza sentirci in pericolo. Non ho l’idea romantica che l’arte possa cambiare il mondo, credo che il mondo possa essere migliorato dai cambiamenti nelle leggi e nelle strutture dei governi. Al massimo, ciò a cui può aspirare uno scrittore è cercare di avere un’influenza su chi ha il potere di apportare questi cambiamenti, ma non valgono più le idee che ci sono state nel passato dell’arte come qualcosa di veramente trasformativo.
Pensando ai romanzi di Jonathan Franzen e di Elif Shafak, si può registrare una certa contiguità con il suo approccio alle storie e alla scrittura. Anche se non bisogna farsi troppe illusioni, ci sono libri che diventano ponti che cambiano chi li attraversa…
Amo entrambi e trovo che la «nostra generazione» di autori possa fare qualcosa di utile nel ricordare alle nuove generazioni la chiarezza del pensiero. Non ho mai pensato che noi (come generazione, ndr) fossimo dei pensatori particolarmente brillanti o chiari, ma poi rispetto a quello che vedo nelle generazioni più giovani e negli studenti, nei miei studenti, capisco che c’è una modalità di sviluppo del pensiero diversa perché gli studenti scrivono online, pensano online, hanno questo atteggiamento per cui portare un’argomentazione significa in realtà urlare più forte, significa litigare e hanno spesso delle idee confuse. Le hanno per esempio su quelli che sono i diritti e i doveri, nel senso che sono molto attenti ai diritti personali e non lo sono per niente ai doveri. Ecco, gli autori che lei ha citato, gli autori della mia generazione, hanno avuto il tempo di esercitare il proprio pensiero senza telefono, senza pc, senza essere online. Una cosa completamente diversa dalla lunghezza di espressione dei 140 caratteri.
[Riccardo Mazzeo 24/06/2017]

venerdì 23 giugno 2017

L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi; Marino Magliani

In Liguria, su certe mulattiere rose dagli anni e da milioni di zoccoli a volte può ancora capitare di vedere la protezione «a coltello». Sono certe lamine affilate e lisce di pietra che stanno le une accanto alle altre, come menhir in miniatura, in punti ventosi, dove la furia dell’aria porterebbe detriti e foglie ad occupare il sentiero. Così è la lingua accorta che usa nei suoi romanzi e racconti Marino Magliani: affilata, precisa, liscia. A protezione. Per salvare il salvabile di quanto può ancora essere detto in modo asciutto e sgombro di qualsiasi cascame retorico, sentimentale o ideologico che possa essere.
LA MEMORIA SÌ, l’autobiografia composta e ricomposta da mille prospettive e stimoli indotti da un paesaggio – specchio sì. Il compatimento mai. Sono queste le impressioni che rimangono, forti, appena chiuse le pagine del suo ultimo romanzo – memoir, titolo al solito incantante e foriero di curiosità: L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exòrma).
Nel penultimo Carlos Paz e altre mitologie private lo scrittore ligure da molto tempo con base olandese, in un luogo che è una sfida all’anima, aveva mostrato di padroneggiare registri stilistico – linguistici disparati, come una sorta di supercoordinamento di arti diversificarti in un unico grande corpo narrativo.
Qui la riflessione torna invece a concentrarsi, a trovare un centro ossessivo di riflessione che allarga cerchi concentrici: è l’ «esilio del titolo». La condizione di chi, come Magliani, fa parte di quella generazione di persone che hanno fatto in tempo a vivere scampoli significativi di anni Sessanta e Settanta, e da allora vivono la lacerazione non pacificata del proprio paesaggio interiore affettivo con una continua dromomania, l’ossessione dell’essere continuamente in movimento, di spostarsi per esorcismo personale.
Per Magliani, dopo le esperienze di vita e mestieri duri in mezzo mondo un pendolo continuo tra il paesino della sua Liguria di Ponente e Zeewijk, Olanda, dove il paesaggio è fatto di dune sabbiose, di silenzi spettrali, di freddo e di case ricostruite ogni vent’anni.
I Moscerini danzanti giapponesi ci sono davvero, lì: sono le nuvole di insetti che, migrati dall’Oriente, da mezzo secolo hanno colonizzato le coste sabbiose del Nord. Si muovono assieme in aria disegnando segni, facili prede degli uccelli, in una sorta di balletto sacrificale. L’esilio non perdona, ma lascia posto per un’ultima danza elegante.
[Guidop Festinese 23/06/2017]