mercoledì 17 maggio 2017

Cannes 70

È tutto pronto o quasi. L’immagine con la silhouette di Claudia Cardinale svetta sul tetto, in alto verso il cielo azzurro, mentre nel Palais fervono gli ultimi preparativi. Il festival di Cannes inaugura oggi l’edizione dei suoi settant’anni, apertura francese con Les fantomes d’Ismael (fuori concorso) di Arnaud Desplechin, un film con due star, Charlotte Gainsbourg e Marion Cotillard – entrambe molto «copertinate» – che sono le due donne nella vita del protagonista, il cineasta Ismael (Mathieu Amalric, l’attore icona di Desplechin che come regista con Barbara dà il via al Certain Regard), che alla vigilia delle riprese di un nuovo film si trova diviso tra la compagna (Gainsbourg) e l’amore di gioventù (Cotillard) riapparso all’improvviso.
Settant’anni dunque per questo figlio dell’immediato dopoguerra che le cronache ci dicono doveva nascere nel 1939, in opposizione alla Mostra di Venezia fascista, e la scelta era caduta già allora, tra i molti concorrenti – si era parlato di Biarritz, di Vicky, di Algeri – sulla cittadina della Costa Azzurra. Ma prima della data prevista, l’1 settembre del 1939, la Germania di Hitler aveva invaso la Polonia, e così tutto era stato rimandato a un futuro da destinarsi. Da allora passano sette lunghi anni, e il festival comincia nella Francia ancora segnata dal conflitto, dall’occupazione, dal collaborazionismo di Vichy, quasi a celebrare una nuova partenza. Vincono Roma città aperta di Roberto Rossellini e La Bataille du Rail (Operazione Apfelkern) di René Clement,la storia dell’attacco a un convoglio tedesco nei giorni che precedono lo sbarco alleato in Normandia: il mondo un attimo prima di là.
Se il festival (auto)celebra il suo compleanno proponendo nella sezione Cannes Classics i film che hanno caratterizzato la sua storia – tra cui anche L’avventura di Michelangelo Antonioni, nella versione restaurata come tutti gli altri – al passato di Cannes si dedicano anche i media nei numeri speciali per il festival. Fotografie in bianco e nero di Brigitte Bardot insieme a Kim Novak nel 1956, entrambe con stole di pelliccia (oggi molto politicamente scorrette che solo alla «prima» della Scala), e tornando indietro, alla prima edizione del 1946, non in maggio ma tra settembre e ottobre, Jean Cocteau ai tempi di La Bella e la Bestia. Quell’anno c’era anche Hitchcock con Notorius, proiettato nel caos delle sciopero dei commercianti che temevano il festival e le sue proiezioni gratuite (a pensarci oggi …).
Nel tripudio di nostalgia vintage eccoci alla festa per La Dolce vita. Walt Disney – che aveva già vinto nel 1947 con Dumbo torna sulla Croisette con Peter Pan, il ragazzo che non vuole crescere mai… Gli anni Cinquanta hanno il volto imbronciato del ribelle James Dean in La Valle dell’Eden Kazan più Steinbeck, e i Sessanta i cieli neri di becchi rapaci degli Uccelli di Hitchcock dal romanzo di Daphne Du Maurier (Gli uccelli e altri racconti). – «Sarei incapace di raccontarvi il libro di Du Maurier, l’ho letto solo una volta e molto rapidamente» dirà Hitch a Truffaut.
Il tempo passa, le date del festival cambiano, il Sessantotto di Godard, Truffaut e degli altri esplode anche sulla Croisette dove adesso «Mai 68» è il nome di un nuovo negozio con vestiti per un look flower power. Nel 1971 Visconti arriva con Morte a Venezia, piano piano dalle memorie in bianco e nero si passa al colore, ai registi e alle star che ritroviamo anche in questa selezione, al paesaggio «messo in sicurezza» del presente, con norme di controllo ancora più severe dopo l’attentato dello scorso luglio a Nizza. Del tutto inutili, ovviamente, come il metal detector messo all’ingresso della sala degli accrediti mentre fuori la coda appare infinita ancora più faticosa sotto al sole estivo arrivato all’improvviso. «Questione di forma» chiosa saggio qualcun nell’attesa perché poi se si vuole sparare è facilissimo aggiunge. Già.
Il festival di Cannes numero 70 è anche il primo dell’era Macron, che della sicurezza ha fatto uno dei punti cardine del suo programma, con sorriso trionfante sulle copertine di tutti i giornali, insieme al suo nuovo primo ministro di destra, Edouard Philippe, – del resto Macron ha detto che il suo movimento En Marche è sia di destra che di sinistra. «Macron I» titola il settimanale Les Inrockuptibles in attesa delle imminenti legislative. Sulla Croisette più di qualcuno sospira. Ma sono pochi, la minaccia Le Pen è stata più forte anche di fronte al neoliberismo di Macron anche se poi il festival sarà per questi giorni la sola preoccupazione. Tra i dieci imperdibili consigliati dal delegato generale del festival Thierry Frémaux – di cui scopriamo una «fede» assoluta springsteeniana – oltre al film di Desplechin e alla selezione di Cannes Classics ci sono: Kirsten Stewart con un corto da regista, Come Swim; il musicista Benjamin Biolay; Jane Campion e la sua nuova stagione della serie Top of the Lake; Nicole Kidman, che si vedrà in ben quattro film; Benicio Del Toro; Barbara, la «Dame Noire» della canzone francese nel film – già definito un anti-biopic – di Amalric; e naturalmente David Lynch con i nuovi segreti di Twin Peaks. E le polemiche su Netflix e Amazon?
«Prima di tutto noi selezioniamo delle opere e degli autori non una piattaforma.Questi film mi sono stati proposti da produttori coi quali lavoro spesso e sono stati realizzati da registi di cinema. Non è questione di essere anti o pro Netflix o Amazon. Non sottovaluto nemmeno il problema che si pone se non usciranno in sala che è un aspetto fondamentale dl cinema. Non potremo più prenderli anche se il festival di Cannes, come altri festival, deve dialogare con quelle piattaforme che ormai finanziano molto cinema mondiale. Sarà un tema di riflessione in questo anniversario dei 70 anni».
[Cristina Piccinino  17/04/2017]

Citizen. Una lirica americana Claudia Rankine

Abbiamo incontrato Claudia Rankine a Venezia in procinto di partire per il Salone del Libro di Torino, dove presenterà in anteprima il suo pluripremiato Citizen. Una lirica americana (2014) ora pubblicato dalla casa editrice 66th and 2nd. Rankine, poetessa statunitense di origini giamaicane, è Frederick Iseman Professor of Poetry a Yale e chancellor della prestigiosa Academy of American Poetry. Oltre a Citizen ha pubblicato quattro raccolte di poesie e un testo drammatico, e collabora con numerosi artisti visivi a installazioni, video saggi e performances.
Nel 2016 ha vinto un McArthur «genius» Fellowship con cui ha fondato l’Institute of Racial Imaginary, un laboratorio culturale interdisciplinare dedicato allo studio della razza come uno dei principali modi in cui la storia entra nelle nostre vite. Per Claudia Rankine il mondo in cui viviamo è tutto fuorché post-razziale.
In «Citizen» la voce poetica pone a sé stessa domande che riaffiorano in diverse occasioni: «Cos’ha detto lui? E lei, ha davvero detto questo? … Quella cosa è uscita proprio dalla mia bocca, dalla sua bocca, dalla tua bocca?». Sono questi gli interrogativi che guidano il passaggio dal registro lirico a quello analitico e autoanalitico?
Sono le domande che un essere umano fa a un altro quando sente di essere stato cancellato, o sminuito. Non sono scatenate solo dal razzismo, ma da ogni comportamento che sminuisca o cancelli un’altra persona. Quando le senti vorresti concedere il beneficio del dubbio a chi le pronuncia, e quindi inizi a domandarti: «ma ho sentito bene?», perché tendiamo tutti a restare attaccati all’umanità nostra e degli altri e desideriamo concedere il beneficio del dubbio anche quando sappiamo che l’interlocutore o il parlante è entrato in quella modalità offensiva: razzista, sessista, anti mussulmana, ecc. Lo riconosci, perché è già successo tante volte. Queste domande avvolgono tutto il tuo essere, la tua fragilità, il tuo desiderio di stare con gli altri, di comunicare, la tua consapevolezza e la tua possibilità di realizzarti. Il passaggio da un registro all’altro avviene perché quello è un momento dissociativo. Da quella valutazione dipende ciò che accadrà dopo, perché se lo ignori torni indietro, e quel carico di informazioni resta sepolto dentro di te. Se affronti chi le pronuncia, allora entri in un dialogo difensivo, un atteggiamento difensivo bianco nei confronti delle persone nere.
Il concetto di dissociazione richiama quello di «doppia coscienza» di W.E.B. du Bois, un concetto chiave nella letteratura afro-americana del Novecento. Però la sua «dissociazione» sembra portatrice di un altro discorso…
Sì, è vero. Quando du Bois parla di doppia coscienza, si riferisce alla posizione del trickster, del truffatore, e all’idea del trickster di poter negoziare uno spazio che operi secondo codici specifici per poi spostarsi in un altro spazio, dove valgono differenti forme di enunciazione. Ma la dissociazione nasce dalla mancanza di possibilità di controllo. La uso intenzionalmente, come significante del trauma. Chi è che dissocia? I traumatizzati.
Parliamo di Serena Williams, del modo in cui – nel suo poema – il piano intimo, privato, personale, emotivo si fonde con quello strutturale, pubblico, istituzionale. Che impatto ha questo sulla forma lirica?
La fusione delle dinamiche liriche e strutturali è la genesi di Citizen. L’idea che succedessero cose terribili e le persone reagissero dicendo «come è potuto accadere?». Volevo scrivere un libro che mostrasse che, a un certo livello, il genere di disprezzo visto durante Katrina si verifica quotidianamente, a piccole dosi somministrate dalle stesse persone che si domandavano «come è potuto succedere?». Volevo che capissero che erano proprio loro, consciamente o inconsciamente, a mostrare disprezzo, ogni giorno.
Quando le cose si manifestano culturalmente, ciò accade solo perché sono le abitudini sociali a renderlo possibile. Il libro è iniziato con i poemi in prosa, quei momenti casuali che generano le domande di cui abbiamo parlato: «ho capito bene?», «starà reagendo in modo eccessivo?», proprio per mostrare l’accumulo di queste micro dosi di disprezzo, molto prima di arrivare ai neri bersaglio della polizia, o all’incarcerazione di massa. Solo disprezzo di massa. È l’organizzazione strutturale del libro. Come si fa a mostrarne l’impatto sugli individui? Nelle relazioni personali? Succede nelle amicizie più strette, al lavoro, con i colleghi…, e poi quelle persone diventano giudici, governatori, membri del parlamento – il popolo è sovrano –, e quindi quei pregiudizi entrano nelle posizioni di potere. E in più c’è il razzismo sfacciato nelle stesse posizioni di potere. Come si fa a rendere tutto ciò manifesto? Con il linguaggio.
Negli Stati Uniti la tradizione della lirica è stata fortemente condizionata dall’idea che la poesia bianca è apolitica, mentre quella nera è politica. Volevo mettere alla prova questo pregiudizio e ho preso ad esempio due poesie di Robert Lowell citate in Citizen per mostrare che sono un prodotto dell’oppressione derivante dalla sua educazione patriarcale bianca, e evidenziare che la poesia è sempre stata politica, ma politica dalla posizione di dominio bianco, che include l’idea che essere bianchi sia meglio. E se è meglio non è necessario indicare la struttura del dominio, perché è quella struttura. Ecco perché il sottotitolo Una lirica americana. Ecco il secondo pregiudizio contro cui ho scritto Citizen.
Nel poema su Serena Williams, a un certo punto c’è una frase che dice: «Ogni sguardo, ogni commento, ogni errore arbitrale affiora dalla storia, attraverso lei, verso di te». Sembra un modo di distillare la storia dentro alla parola poetica…
Questo ci permette di tornare alla gamma pronominale. Mentre scrivevo Citizen non pensavo questo, ma da allora ritengo che la posizione idealizzata del soggetto dovrebbe essere quella aperta dalla conoscenza storica nello spazio del «tu», del pronome, che dovrebbe includere tutti, affinché tutti possiamo sentire quella storia come un insulto rivolto proprio a noi, da una prospettiva nazionale, americana, e non semplicemente essere il «tu» dentro la coscienza dei neri.
Dovrebbe essere dentro una coscienza americana, che sa che conoscere la storia significa imparare che questo tipo di disprezzo va avanti dalla schiavitù, da Jim Crow alla brutalità della polizia, e dovremmo sentirlo tutti come un insulto, a ciascuno di noi. La storia dovrebbe colpirci, fisicamente, con le sue frasi. Insultarci. Non può essere gradevole. Durante la scrittura di Citizen pensavo nei termini di coscienza dei neri. Ma ora penso: no, deve essere «tu», deve essere qualsiasi «tu» americano, tutti. Tutti dovrebbero trovare intollerabile questa storia che si ripete.
Il suo lavoro si situa sulla traccia solcata da Toni Morrison sulla decostruzione della «whiteness», spostandolo anche sul piano della cultura visiva e dell’impegno pedagogico continuo. Può descriverci i suoi progetti e quelli dell’Institute of Racial Imaginary, fondato anche con il premio McArthur «genius» che ha vinto?
Una delle cose che credo manchi è la costruzione della whiteness, il suprematismo bianco, che esiste dal momento della costruzione degli Stati Uniti. È ciò che permette ai bianchi di essere considerati persone, facendo sì che gli altri siano soppesati attraverso l’ottica del razzismo. Morrison lo ha dimostrato dicendo che nessun bianco è bianco, e che i bianchi hanno un fortissimo investimento nel rendere centrale la loro posizione di privilegio, ovunque: nella letteratura e nella vita, nel governo, nell’urbanizzazione, nella legislazione.
L’unico modo di dimostrarlo è insegnarlo. Il Racial Imaginary Institute è un tentativo di uscire dall’accademia per portare l’informazione sul lavoro necessario a sopprimere la storia della whiteness. È un progetto curatoriale e itinerante che coinvolgerà artisti e pubblico e andrà dove l’informazione manca: al Sud, nel Midwest, in Europa. Ovunque.
[Cristina Iuli 17/05/2017]

martedì 9 maggio 2017

Le nature indivisibili», Claude Royet-Journoud


È possibile la poesia «senza alcun rumore di sillabe»? Sì, in fondo il nostro tempo bloccato sembra essere quello adatto a un poetare estremo. Altrimenti che fare più? Certo, ci sarebbe il silenzio («Se solo si facesse un po’ di silenzio!» ammoniva Fellini nella sua ultima opera) e forse sarebbe salutare, ma tant’è. In attesa di una rivoluzione nell’arte della letterature (e non solo), vediamo cosa ci suggeriscono alcuni autori. È uscito, per le edizioni Effigie, il primo libro di poesie in traduzione italiana di Claude Royet-Journoud (Le nature indivisibili, pp. 100, euro 12).
Il libro è pubblicato, senza il testo francese a fronte, con la traduzione di Domenico Brancale, altro interessante e radicale poeta italiano. E non poteva che essere così se la filosofia dello stesso Royet-Journoud sulle traduzioni è chiarissima: «Nella traduzione, la lingua di arrivo è la versione originale e non l’inverso. D’altronde la poesia ha un corpo. È racconto – e in una sola lingua. Nelle edizioni bilingue ciò che viene distrutto è la nozione stessa di libro: la doppia pagina, l’importanza di voltare pagina, la sospensione della narrazione, il rapporto con il tempo». Bene. Inoltriamoci allora in questo testo (quarto volume, va aggiunto, di una tetralogia che comprende, dal 1972, Le Reversement, La notion d’obstacle, Les objets contiennent l’infini) che è un po’ un antro della Sibilla ma con la parola che si fa via via più rarefatta, sospesa in spazi bianchi che annunciano la sua consunzione. «Dirti una sola cosa/ (senza usare la bocca/ né la lingua/ e senza alcun rumore di sillabe)», «Vengo nel tuo respiro/ la tua vita ti riguarda/ la mia unica funzione è di non muovermi». È un’esperienza di assoluto questa raccolta poetica che ha una scansione per capitoli con titoli di un poema d’altri tempi: la storia in serie, portamento di voce, errore di localizzazione degli eventi nel tempo, cancellazione del bordo destro del cuore.
Una poesia che lascia esterrefatti per la capacità di emozionare nel sottrarre, nello scomparire. «Senza stimare la distanza/ tra voce e sonno/ qualche cosa/ intaccava l’insieme delle regole». E sono le regole codificate che se ne vanno definitivamente nei versi di Royet-Journoud. Ora non resta che aprire altre strade perché la poesia esca fuori dall’impossibilità di parlare: «Un ingranaggio/ occupa la base del cuore».
[Michele Fumagallo 9/0.5/2017]

domenica 7 maggio 2017

Incontro 8 maggio

Carissime/i,
ci troviamo, a casa di Monia, solita ora, per parlare di Kent Haruf e della sua TRILOGIA DELLA PIANURA. Leggete il primo della serie (Il Canto della Pianura -che però in Italia è stato pubblicato come secondo), il secondo, il terzo, o tutti quanti i romanzi se volete: Monia ci guiderà nella pianura -un po' desolata- del Colorado, su e giù per la trilogia.
A presto
Silvia

sabato 6 maggio 2017

Ahmed Naji, Vita: Istruzioni per l’uso

Per raccontare lo squallore dei bassifondi è necessario servirsi del linguaggio sordido della strada, fatto di oscenità e depravazione. È quanto insegna il romanzo dell’egiziano Ahmed Naji, Vita: Istruzioni per l’uso (traduzione di E. Rossi e F. Fischione, illustrazioni di Ayman al-Zorqani, Il Sirente, pp. 266, euro 18). Questo testo, visionario e sperimentale, è una distopia sulla città del Cairo, rivoluzionata da un comitato di urbanisti senza scrupoli. L’autore non risparmia dettagli scabrosi, né cerca di proteggere il lettore da uno shock emotivo. Anzi: costruisce tutta la narrazione sulla successione sincopata di eventi e dialoghi al limite del surreale. Nel 2016, a soli 31 anni, Ahmed è stato condannato a due anni di carcere per oltraggio al pudore dal tribunale di Bulaq per il contenuto – definito osceno – del sesto capitolo del suo libro. Ahmed ha trascorso un anno di prigione al Cairo e il 7 maggio (domenica) saprà se la sua condanna sarà confermata. Quando lo contattiamo su Skype, la connessione è disturbata: l’Egitto ha di nuovo limitato l’accesso ad alcuni social.
Il suo libro «Vita: Istruzioni per l’uso» è un’utopia rovesciata che forse possiamo leggere anche come denuncia all’operato di al-Sisi?
Molti hanno voluto vedere nel mio libro una critica politica. La verità è che non esiste alcuna relazione tra il romanzo e al-Sisi, la politica o la scena corrente. Ho scritto la prima versione nel 2010, quindi senza la rivoluzione. Il manoscritto definitivo è arrivato nel 2011, prima dell’ascesa dei militari. Non m’interessa la politica e certamente non voglio farla con i miei libri.
In Egitto la censura non è una novità, ma lei è il primo scrittore a essere stato arrestato. Come vive questo spiacevole primato?
Sono triste, mi sento molto a disagio. Per quanto possa essere razionale, non riesco a sentirmi diversamente dopo aver trascorso un anno in prigione. Il mio Paese mi ha ritenuto un pericolo per la comunità, un rischio per l’ordine sociale. Secondo le accuse, il mio romanzo rappresenta una vera e propria minaccia al modello di famiglia egiziano; distrugge i valori che stanno alla base della società. Ma soprattutto incoraggia l’immoralità.
Il 7 maggio lei saprà se tornerà o meno in carcere per le accuse che le sono state rivolte. La prospettiva la spaventa?
Non vivo sensazioni di paura; il male è già accaduto. Sono impaziente. Mi annoio e mi auguro che questo capitolo della mia vita venga presto archiviato, perché sono giovane e ho in progetto tante altre cose.
Durante il periodo di prigionia che ha già trascorso, qual è stata la cosa che più la angosciava?
Sono tante le cose per cui si soffre in carcere. Di certo, una delle peggiori è la totale mancanza di privacy, unita alla scarsa alimentazione e alle condizioni igieniche precarie: di notte, la cella si affollava di scarafaggi. Ho sofferto di artrosi, di dolori muscolari molto intensi, sudorazione e congestioni provocate da una vita priva di qualsiasi cura. E poi mi mancava terribilmente il sole. Ma quel che più tormenta qualsiasi prigioniero è la noia, il lento scorrere del tempo e infine la speranza: un fantasma che perseguita ogni detenuto.
Davvero il sesto capitolo del suo libro è così scandaloso?
Non resterei ancorato al contenuto di un solo capitolo: l’intero libro può essere devastante per i nervi e per le menti fragili. Soprattutto, non è raccomandabile alle persone con i cuori deboli o che nutrono sentimenti gentili.
In qualche modo la rivoluzione urbanistica di cui il libro parla è una metafora dell’estremismo religioso?
Come non mi occupo di politica, così non scrivo di religione. Non sono interessato al tema dell’estremismo islamico, né alle sembianze dell’uomo d’affari nel mondo arabo che prega e fa beneficenza. Se cercate un vero quadro degli effetti del fondamentalismo islamico sul vuoto urbano e sulla formazione della città, Dubai è il posto giusto. Quello è il prodotto delle idee di fondamentalisti islamici nella sua forma migliore: una città senza democrazia, senza elezioni né rappresentanza politica; eppure, nell’immaginario comune, è una realtà in cui si vive bene. L’angolo di mondo in cui le persone cercano l’islam moderno, dove viene aperta una filiale del Louvre e la casa d’aste Christie’s vende opere d’arte, ma non dipinti di nudo.
I disegni rafforzano molto lo stile sperimentale della scrittura. Com’è nata la collaborazione con al-Zorqani?
Ho scritto il romanzo per intero. Non avevo considerato la parte grafica. Poi mi è venuta l’idea di aggiungere inserti a fumetti. Ho visto e parlato con diversi artisti, tra cui l’entusiasta al-Zorqani. Ma la rivoluzione e alcuni eventi personali hanno rallentato i tempi. Abbiamo impiegato tre anni perché il libro assumesse la forma che ha oggi.
La prima cosa che farà da uomo libero?
Andrò a trovare mio padre in Kuwait: non lo vedo da un anno e mezzo.
[Francesca Del Vecchio 6/05/2017]

venerdì 5 maggio 2017

I musici di Caravaggio

Tre giovani musicisti in procinto di iniziare un concerto: sullo sfondo il suonatore di cornetto, un autoritratto di Caravaggio; al centro il suonatore di liuto con un drappo rosso sulla spalla; nell’angolo Cupido ignora il gruppo mentre coglie un acino da un grappolo d’uva; tra le mani del ragazzo di spalle uno spartito, probabilmente composto da uno degli amici della cerchia del cardinale Francesco Maria Del Monte, appassionato di musica e mecenate del pittore.
I musici, una delle opere giovanili di Michelangelo Merisi da Caravaggio, dipinta a Roma nel 1595, sarà esposta a Napoli, a Palazzo Zevallos, da domani al 16 luglio in prestito dal Metropolitan Museum di New York. Si tratta di una delle tappe del progetto «L’ospite illustre» all’interno delle sedi Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo e uno degli appuntamenti della prima edizione del festival Sky Arte, di cui il gruppo bancario è main sponsor.
L’OPERA È COLLOCATA al secondo piano, nella sala dove di solito si ammira un altro capolavoro di Caravaggio, Il martirio di Sant’Orsola. Realizzato nel 1610, l’atmosfera è completamente cambiata rispetto a I musici: l’allegoria che lega la musica all’eros ha ceduto il passo al dramma. Il dipinto è attualmente al Metropolitan Museum, esposto accanto alla Negazione di San Pietro, realizzato da Caravaggio nello stesso periodo. Sabato e domenica l’ingresso a Palazzo Zevallos sarà gratuito, domani alle 16 (previa registrazione su www.festivalskyarte.com) si potrà assistere alla visita guidata su Caravaggio dello storico dell’arte Claudio Strinati.
La rassegna, in collaborazione con Sky Academy, prende il via oggi con Storie che fanno la storia. Si tratta di un creative camp a cui hanno partecipato gli studenti dell’Accademia di belle arti di Napoli, guidati dall’artista Roxy In The Box: dopo una serie di sopralluoghi, Roxy ha scelto i basamenti circolari in cemento in cui sono stati piantati alberi di ulivo arrivati dalla Palestina, un regalo fatto alla parrocchia di piazza Montesanto, nel cuore del quartiere popolare della Pignasecca, per realizzare il suo progetto. «Il rione si prende cura delle piante, sono sicura che adotterà anche il nostra lavoro», ha spiegato.
SUL CEMENTO e intorno agli alberi verranno ritratti in chiave pop, a partire da oggi, Bud Spencer, Fortunato il tarallaro (protagonista di una delle canzoni di Pino Daniele), il Principe Sansevero, Concetta Barra, Ria Rosa (cantante napoletana sbarcata negli Usa nell’Ottocento, rischiò l’espulsione per aver preso le parti di Sacco e Vanzetti), Giancarlo Siani, Annibale Ruccello, Giulia Civita (educatrice anche lei dell’Ottocento, lavorava con gli scugnizzi seguendo una pedagogia innovativa), l’étoile Fanny Cerrito e Artemisia Gentileschi. Domenica, a mezzogiorno, a ogni ritratto corrisponderà uno sgabello su cui si siederà un attore che racconterà se stesso attraverso il personaggio e la sua storia. L’unico sgabello che resterà vuoto sarà quello di Totò: «Non ho voluto assegnare un compito così difficile ma il pubblico sarà libero di occupare quel posto e interagire».
Domani e domenica a Villa Pignatelli il laboratorio per ragazzi «Sky un mare da salvare» con il musicista Maurizio Capone. Ancora per gli studenti delle scuole napoletane i workshop Sky Academy reporters mentre i ragazzi del rione Sanità si trasformano in videomaker per raccontare il quartiere.
Domenica, alle 17.30, a Villa Pignatelli la tavola rotonda Artevisione: interverranno il direttore del museo Madre, Andrea Viliani, Martina Melilli, Massimo Carozzi (Zimmerfrei), Riccardo Giacconi e la curatrice di Artevisione Chiara Agnello.
[Adriana Pollice 5/05/2017]

giovedì 4 maggio 2017

Storia delle api, Maja Lunde

«L’umanità può imparare dalle api. Mentre lavoriamo per una vita migliore per noi stessi e per i nostri figli, le api lavorano per l’alveare, cioè per tutti. Il pianeta è il nostro alveare, ogni cosa è collegata all’altra».
Maja Lunde, scrittrice conosciuta per i suoi otto libri rivolti ai ragazzi, ha nel viso i colori lucenti della magnifica terra dove vive, la Norvegia, e i capelli di un miele chiaro. La storia delle api (Marsilio, pp. 426, euro 18.50, traduzione di Giovanna Paterniti) è il suo primo volume per adulti, un esordio letterario poderoso, già definito epico, che due anni fa – quando è stato editato per la prima volta – ha guadagnato un clamore immediato. Tradotto in diciannove lingue e pubblicato in più di trenta paesi, non è una narrazione di armonie bucoliche, è piuttosto la visione ispirata e dolente di un mondo attraversato da forme di vita che si intrecciano le une alle altre. E che ci interpellano, sia pure nell’ipotesi della loro fine.
Fonte grande e radiosa di attenzione, dall’Antico Testamento a Rilke, passando per Bernand Mandeville Emily Dickinson e molti altri, le api hanno segnato iconografia, filosofia e letteratura e sono state archetipo, metafora politica e semplici insetti, spesso dell’invisibile. Qual è la ragione che l’ha spinta a dedicare loro un libro?
Ho deciso dopo aver visto un documentario sul fenomeno riguardante la cosiddetta sindrome dello spopolamento degli alveari. Guardandolo, ho provato un senso di spavento e fascinazione allo stesso tempo e ho capito subito di voler scrivere qualcosa a partire da questo tema. L’idea mi è giunta nella sua chiarezza e ispirazione fin dal primo giorno, ma non ho mai pensato che sarebbe stata una non-fiction, piuttosto un romanzo. Sono anzitutto una scrittrice di fiction. In secondo luogo, sono stati gli stessi personaggi che mi hanno convinta e mi hanno risolta a proseguire. Scoprirli e conoscerli è stata la parte più sorprendente del lavoro.
A quale immaginario letterario si è rivolta e in che modo ci ha lavorato?
Ho perlustrato molti generi letterari, traendo ispirazione sia da diversi romanzi che da non-fiction. Nel periodo preparatorio alla stesura della Storia delle api ho letto intensamente, e tra gli altri, Charles Dickens, in particolare il suo Grandi speranze. Mi sono anche concentrata su alcuni volumi storici e ho potuto parlare con alcuni esperti della materia. A proposito della parte relativa alla biologia ho intrapreso una sfida, oltre alle ricerche per scoprire quanto già era noto sulle api, ho consultato per quanto possibile il lavoro di Lorenzo Lorraine Langstroth e Francesco Huber. Entrambi sono stati pionieri dell’apicoltura moderna ma alcuni tratti della biografia di Langstroth mi sono serviti per illuminare la storia di uno dei protagonisti del libro, William, un uomo e padre depresso che rinasce attraverso una nuova invenzione.

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Maja Lunde

Per costruire un congegno simile deve avere impiegato molte energie…
I primi sei mesi li ho dedicati al reperimento e alla lettura di libri, articoli e documentari che ho potuto trovare sull’argomento. Ho anche fatto la conoscenza dei miei personaggi e iniziato a lavorare sulle tre voci differenti, gli ulteriori e successivi sei mesi li ho trascorsi a scrivere le loro storie. Il secondo anno l’ho invece dedicato alla riscrittura; questa è una parte del lavoro molto importante per me, di solito rivedo e ritocco il testo almeno cinque volte. Nel caso della Storia delle api l’ho fatto otto volte.
I suoi tre protagonisti William (Inghilterra, 1852), George (Stati Uniti, 2007) e Tao (Cina, 2098), possiedono destini intrecciati non solo nelle storie che li collegano alle api ma anche nell’incontro di passato presente e futuro a cui ciascuno di loro appartiene. Quale profondità temporale e di luoghi ha inteso sondare?
Le domande che mi sono posta quando ho cominciato la stesura del libro sono state tre: perché le api muoiono, cosa produce e come ci fa sentire questa perdita, come può il mondo restare senza insetti impollinatori. Provare a rispondere a questi quesiti ha avviato la ricerca, facendomi trovare anche i tre protagonisti che ho individuato nel passato, nel presente e nel futuro. Il passato mi è stato sollecitato dalla vicenda di biologi e apicoltori vissuti in Europa e negli Stati Uniti. Il presente da ciò che è accaduto nel 2007 in Nord America, cioè il primo evento massiccio dello spopolamento degli alveari, riscontrato poi in altre parti del mondo e appellato come «sindrome». Il futuro invece dal fatto che la Cina fa già l’impollinazione manuale. William, George e Tao vivono dunque tempi e luoghi diversi ma hanno qualcosa in comune: sono colmi di paura e speranza, spirito di combattimento e rassegnazione. In questo senso, la loro storia è una, in realtà: sono tessuti insieme, ma non posso svelare di più.
Nella loro cifra di amore e inquietudine, lei tratteggia anche i legami che nascono tra genitori e figli. Quale rappresentazione famigliare ne è emersa?
Quando si scrive si mette sempre in campo se stessi. Per esempio, al principio ho lottato maggiormente mentre costruivo la storia di Tao, soprattutto perché dovevo pensarla nel futuro. Nel momento in cui però ho dimenticato quella precisione della costruzione e mi sono invece concentrata su di lei come madre, la sua vita ha cominciato a scorrere. Suo figlio nel romanzo ha tre anni, coetaneo del mio bambino più piccolo mentre cominciavo a scrivere di lei. Nell’immaginare Tao e il suo piccolo, avevo presente mio figlio. Questa convergenza è stata emotivamente forte. Un altro esempio: i tre personaggi principali sono molto diversi da me, ma tutti vogliono ciò che è meglio per i loro bambini anche se non sempre sanno che cos’è. È qualcosa che come madre mi interroga. Questa relazione tra genitori e figli ha un fondo di immenso amore, ma anche una grande ambivalenza, i bambini sono costantemente in mutamento e cambiano, altrettanto tenacemente, il ruolo di un genitore. È così facile dimenticare che il proprio figlio sia una entità diversa da te, e ciò che è giusto per te è spesso ingiusto per lui o lei. Sia Tao che George e William sono sicuri di sapere che cosa è preferibile per il loro bambino, ma spesso si sbagliano e commettono errori.
Il cambiamento climatico e il relativo surriscaldamento sono dei punti critici e allarmanti che attraversano «La storia delle api»…
Desidero che siano lettori e lettrici a decidere cosa comprendere ed evincere. Qualcuno lo ha letto semplicemente come una storia, non come un avvertimento. Altri in maniera completamente diversa. Certamente non volevo comporre un manifesto politico.
Detto questo, sono stata interpellata spesso dai lettori su cosa potrebbero fare per aiutare le api, per soccorrere il pianeta e ciò mi restituisce molta felicità. Se il mio romanzo fosse capace di generare anche solo un piccolo cambiamento, non ci sarebbe niente che mi renderebbe più grata. Sono certo preoccupata e allarmata quando penso al futuro e sono convinta che dobbiamo agire molto più di quanto già non facciamo.
Crede che la letteratura abbia qualche relazione con la responsabilità?
Siamo tutti responsabili, ognuno di noi, scrittore o no. Non posso parlare per altri autori, tuttavia per me è cruciale scrivere su qualcosa che mi sembra importante. In Norvegia diciamo «write where it burns». E ciò su cui ho scritto è quel che mi è parso urgente, che mi duole. Che brucia.
SCHEDA
Sabato 6 maggio, Maja Lunde sarà ospite del festival internazionale di letteratura ChiassoLetteraria (organizzato dall’associazione omonima negli spazi che compongono la cittadella della cultura di Chiasso: Spazio Officina, Cinema Teatro, m.a.x. museo) che da oggi apre i battenti fino al 7 maggio. L’edizione di quest’anno è dedicata al tema del bosco. Da Dante a Thoreau, da London a Hesse, da Ortese a Zambrano, numerosi sono gli esempi a cui ci si potrebbe riferire per definire l’incantamento e la rigenerazione di un luogo come il bosco. «Una radura letteraria – si legge nella introduzione al programma – dove scoprire letture (e letterature) significative, assaporare il piacere della condivisione o semplicemente passeggiare e lasciare libera la mente». Poetry slam, teatro, presentazioni e passeggiate letterarie, tra gli ospiti Paolo Cognetti, Alain Mabanckou, Noëmi Lerch, Anne-Sophie Subilia, Doris Femminis, Sofi Oksanen e Joy Harjo. Per maggiori informazioni http://chiassoletteraria.ch
[Alessandra Pigliaru 4/05/2017]

mercoledì 3 maggio 2017

La fiducia di Arvo Part

La presenza di Arvo Part a Milano per la “quinta versione” di “Greater Antiphones” come la chiama Carlo Boccadoro che l’ha diretta con l’Orchestra dei Pomeriggi giovedì scorso al Teatro Dal Verme serberà nella memoria di chi vi ha partecipato l’aurea dell’evento eccezionale ed irripetibile. Per dirla al modo di un celebre poeta, in un’epoca in cui tutto ha un prezzo e nulla pare avere più un valore, nel discorso musicale di Arvo Part tutto appare come un dono. Forse o senza alcun dubbio questa smisurata fiducia nel darsi in toto deve aver mosso la limpida e tersa esecuzione del brano da parte di Boccadoro.
Cio’ sembra distogliere Part per fortuna dalla fama di compositore più eseguito al mondo e continuamente saccheggiato dal cinema contemporaneo, ormai entrata nel facile gioco mediatico dell’incasellamento categorico; mentre la biografia scolpisce i caratteri principali della sua musica, tra cui: apparente immobilismo, spiritualità, capacità di credere nella forza delle idee, sintesi della tradizione e invenzione di nuovi linguaggi musicali.
Tornando a Boccadoro, va aggiunto che il direttore e compositore milanese ha lavorato sulla partitura, da lui già diretta tempo addietro nella versione con coro, ecco il parlare di ultima versione, a stretto contatto con il compositore estone, arrivato a Milano in settimana proprio per assistere alle prove e a suggerire o accogliere, di volta in volta, dagli interpreti ed esecutori eventuali “correzioni” secondo una prassi diventata abituale nel continuo non più comporre opere nuove, ma passare al setaccio le vecchie composizioni nel desiderio di sottoporle ad un “refresh” rigoroso e critico, talmente serrato da considerarsi come confronto tra i se’ succedutisi fino ad oggi.
Ad onore della serata bisogna anche dire che al cospetto di Part sono passate in secondo piano le altre composizioni in programma, tra cui la prima esecuzione, commissione dei Pomeriggi Musicali, dei Racconti di pioggia e di luna, per due pianoforti di Carlo Galante, eseguiti da Luca Schieppati e Andrea Rebaudengo, il cui unico ascolto suggerisce un cauto giudizio tutto girato intorno alla fitta rete di relazioni che la partitura instaura tra l’orchestra, i due solisti, e il direttore.
Questo però non allontana ed è questo un merito, l’ascoltatore che percepisce il tentativo di dar un senso fisico agli elementi naturali evocati dal titolo, che un pubblico minimamente acculturato percepisce nei più celebri e, nella raffinatezza della composizione (l’inizio del secondo movimento, l’adagetto, con i due solisti impegnati in un fittissimo colloquio fatto più di affermazioni che interrogativi è di rara bellezza), non scontati rimandi letterari. Restano le ali del cartellone affidati a due composizioni di Stravinskij, Otto piccole miniature e Danses Concertantes, che racchiudono il grande compositore russo nell’apogeo del suo periodo neoclassico.
[Fabio Francione 3/05/2017]