domenica 30 aprile 2017

Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Donna Haraway

Guardare viene prima delle parole è una frase che può descrivere il breve saggio Perché guardiamo gli animali? di John Berger, usando l’epigrafe del suo libro più noto Questione di sguardi. Lo scritto pone l’accento sullo scambio puro e assoluto dello sguardo tra uomo e animale, al di là del linguaggio, attraverso un abisso di non-comprensione. Non appena l’uomo guarda un animale viene richiamato alla sua solitudine come specie e il segreto della loro somiglianza/diversità  si rivela come tale. Il loro è un rapporto metaforico, i primi disegni, la prima metafora umana è stata animaleBerger con rammarico descrive il declino di quello sguardo che ha avuto un ruolo cruciale nello sviluppo della nostra società fino a meno di un secolo fa; l’addomesticamento dipendente dal senso di superiorità dell’umano ha cancellato il parallelismo e ha ridotto gli animali a una maggioranza silenziosa, marionette umanizzate nella banale rappresentazione alla Disney.
Lo zoo, risultato e frutto di esplorazioni e conquiste coloniali e in ultima analisi dell’imperialismo, ancor prima di essere dominio su altre terre e altri esseri, è stato quello mentale del cogito ergo sum. Nello zoo lo sguardo è unilaterale su un soggetto reso marginale e divenuto oggetto, resto di un mondo che va sparendo. Il visitatore singolo si sente isolato, se è in una folla appartiene a una specie anch’essa isolata. Gli zoo sono monumenti di questa perdita storica, con gli animali ormai lontani dal ricordarci le origini o dall’essere metafore morali; pure, nonostante la loro crescente marginalizzazione fisica, continuano a esser presenti in forme culturali, giochi, proverbi, modi di dire, sogni, superstizioni, e nei racconti: fiabe, romanzi, fantascienza e fantasy storica o pseudo tale.
«Ritengo gli Animali Piccole Persone, fratelli «diversi» dell’uomo, creature con una faccia», dice Anna Maria Ortese in Le piccole persone, saggio contenuto nella raccolta omonima pubblicata postuma; e più avanti: «Sento nella natura una tristezza di fondo … Ci sono momenti in cui un albero ci si mostra improvvisamente umanostanco. Altri momenti che un’umile bestia ci guarda in modo tanto quieto, benevolo, profondo. Come gravasse su tutti noi, l’albero, la bestia, l’uomo, una stessa confusa memoria della separazione, e apprendimento rassegnato del lutto». Senza questo lutto, dirà in seguito, non si può scrivere. E infatti i suoi grandi romanzi sono fondati nella compassione come cognizione profonda del dolore.
La protagonista di L’Iguana, un romanzo fantastico, che si potrebbe definire fantasy d’epoca, ha al suo centro Estrellita, un’iguana: «… bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall’apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna, con una sottanina scura, un corsetto bianco, palesemente lacero e antico, e un ghembrialetto fatto di vari colori». Tra umano e animale, paradiso e inferno, è soggetta alle mutazioni dello sguardo altrui, considerata alternativamente principessa o servetta, sposa romantica o figlia adottiva, serpente malefico o fanciullina smarrita; lei non sa se «essere lei stessa, la Iguanuccia, il Male, ciò che dicesi ‘spirito delle tenebre’, perseguito da Dio», oppure il simbolo di un’alleanza tra le diverse specie, «un affiatamento e uno sforzo di superare insieme la terrestrità…». Quando crudelmente le portano uno specchio, da angelo caduto scopre di essere tutta sporca e brutta, «un vero serpente… in paradiso, in quelle condizioni, non poteva andare».
Altra creatura innocente e pura, priva delle ambiguità di Estrellita,un cucciolo di puma dell’Arizona è al centro di Alonso e i visionari (1996): «Il buon cucciolo cadde preda del sorriso di quelle fiere, imbevute della nostra cultura del primato, e rese più inesorabili dalla propria cultura; e fu oggetto, dopo ogni beffa, strazio o confinamento, di un vero linciaggio morale». In nome della libertà dai propri limiti, si varcarono tutti i limiti altrui. In Il cardillo addolorato (1993), ci sono due piccole persone, un folletto, un munaciello, vecchio di trecento anni della storia della città, e il cardillo stesso, che è oggetto dell’attrazione verso qualcosa che è al di là dell’umano, ‘il cuore della natura’. Questo essere piccolo tra i piccoli fa sentire il suo canto di dolore che «distrugge chi lo ama … perché è la nostra memoria signore … il ricordo dei giorni belli … i giorni impossibili che tutti noi abbiamo incontrato…» – una memoria distruttiva cui la città di Napoli non riesce a sfuggire.
Dalla visione cupa e triste di Ortese si passa al femminismo speculativo di oggi che cerca una strada partendo dal femminile. Un modo di vivere insieme, in una catena simbiotica tra esseri di ogni specie e natura, è lo scopo del libro recente di Donna Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene. Il titolo complesso – ripreso da Anna Tsing – si riferisce all’arte di vivere in un tempo profondamente disturbato, di sopravvivere nel disagio, coesistere con la devastazione. Dagli organismi cellulari endosimbiotici all’origine della vita, abbiamo bisogno gli uni degli altri in una simbiosi obbligata.
Vari decenni prima l’autrice si era concentrata sul rapporto dell’umano con scienza e tecnologia nel suo «Cyborg Manifesto«, evocando nell’immagine del cyborg un organismo cibernetico, un ibrido tra macchina e umano, tra realtà sociale e romanzo, tra mito delle origini ed epoche future, tra scimmia e donna, come il titolo della raccolta Simians, cyborgs and women indicava programmaticamente – una guerra di frontiera giocata sui territori della produzione, della riproduzione e dell’immaginazione. Haraway capovolgeva il paradigma della donna, da sempre vista come sintesi tra natura e artificio, tra passato e futuro; consegnata nell’immaginario a un’alterità irrappresentabile come doppia minaccia, si trasformava in doppia utopia: il cyborg femminile era il simbolo di «confini trasgrediti, fusioni potenti, possibilità pericolose».
Nel libro recente la macchina c’è ma in secondo piano rispetto alla simbiosi organica che lei vede come urgente su un pianeta danneggiato come quello in cui ormai viviamo. Il presente è quello dell’antropocene e del capitalocene, mentre il tempo del chthulucene – nome di un altro luogo e di un tempo che era, ancora è, e ancora potrebbe essere – produce poteri e processi terreni inclusi quelli umani ma molto di più. Si può resistere producendo relazioni e collettività che travalichino la singolarità della riproduzione umana. «Creare relazioni e comunità, non bambini», titolo di uno dei capitoli, guarda al creare legami e parentele non solo genealogiche, ma veramente a favore dei bambini che nel mondo attuale non sono protetti. Il riferimento a coloro che cercano rifugio, i migranti di oggi, è un elemento importante di questo passaggio: «L’antropocene distrugge luoghi e tempi di rifugio quando, proprio ora, la terra è piena di rifugiati, umani e non».
Il libro tratta della resistenza dei ‘critters’ mortali sulla terra al tempo dell’antropos e del capitale. La parola inglese, alla lettera animali che strisciano, non va tradotta, ammonisce l’autrice, con creature che, in più di una lingua, sono riferite all’umano; in questo caso è usata promiscuamente per indicare esseri di ogni specie, microbi, piante, animali, umani e non umani («muniti di tentacoli, antenne, dita, cordoni, code di lucertola, gambe di ragno, peli scomposti») e talvolta macchine. Questi esseri sono alla base del pensiero tentacolare – il tentacolo può sentire e cercare – composto da fili che disegnano figure concatenate, come quelle del ripiglino in cui lo spago passa da una forma all’altra, tessendo ragnatele di sentieri e causalità mai deterministiche:«Nodi che si sciolgono per crearne altri, come nella fantascienza, che narra trame di mondi e tempi possibili, mondi material-semiotici, passati, qui, o ancora a venire». Come non pensare agli esseri tentacolari, nuova e futura specie al centro della trilogia di Octavia Butler, Xenogenesis?
La creazione di trame relazionali si ritrova nelle «fabulazioni filosofiche» ma anche nel rapporto tra scienza e immaginario («scientifico è il modo in cui scrivo» lei dice). Il nesso con il nuovo pensiero antropologico passa attraverso l’opera di Anna Tsing; con la biologia femminista il tramite è Lynn Margulis e con l’immaginario fantascientifico Octavia Butler e Ursula Le Guin –queste e altre sono le sue sorelle. È nella mitologia che il pensiero di Haraway trova le sue icone: «Medusa/Gorgoni/Erinni (Furie), Arpie, potenti entità alate dalla presa laterale e tentacolare, senza una genealogia o un genere definito, anche se sono sempre raccontate come femminili».
La copertina di Geraldine Javier mostra una figura composita che ha la radice in un’ossatura pelvica umana in forma di farfalla e s’innalza in una colonna vertebrale fatta da filamenti vegetali fino a finire nell’immagine di una farfalla compostadi due foglie secche. È umanoide e insettoide, fibrosa e ossea, pianta e animale, tra evocazione e metamorfosi. C’è il riferimento ai tanti temi del libro: le arti fibrose, la barriera corallina, le figure di fili o spago, le tessiture navajo, la medusa merlettata, e il richiamo alle molte metafore visuali, corporee e cerebrali, cui aggiungerei etimologiche, mitologiche e scientifiche.
Bibliografia

Octavia Butler,
 Ultima genesi e Ritorno alla terra, Urania Mondadori, Milano 1987 e 1988.John Berger, Perché guardiamo gli animali? Dodici inviti a riscoprire l’uomo attraverso le altre specie viventi, a cura di M. Nadotti, Il Saggiatore, Milano2016.
Annamaria Ortese, Le piccole persone, Adelphi, Milano 2016.
Annamaria Ortese, L’Iguana, Adelphi, Milano 1989.
Donna J. Haraway, Il manifesto cyborg. Donne , tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano1995.
Donna J. Haraway, Staying with the Trouble. Making Kin in the Chthulucene, Duke U.P., Durham and London2016.
Tsing, Anna Lowenhaupt, In the Realm of the Diamond Queen. Marginality in an Out-of-the-Way Place, Princeton U.P., Princeton, NJ 1993.
[Lidia Curti 30/04/2017]

sabato 29 aprile 2017

Il giardino delle meraviglie Lucia Scuderi

Nella sua stanza di bambino, Leo Lionni non aveva spazio per i quaderni aperti sul suo tavolo: questo, infatti, era stipato all’inverosimile di erbari, piccoli orti, teche con insetti. Un mondo vegetale scelto come compagno di giochi lo circondava ogni pomeriggio. È da lì, da quel ricordo di un tempo passato tra le piante e gli animali di un microcosmo domestico, che nacque probabilmente l’idea di inventarsi – una volta divenuto adulto – una botanica «fai-da-te». Lionni, nato ad Amsterdam nel 1910, poi italiano di adozione, infine americano a causa delle leggi razziali, grafico pubblicitario, scrittore immaginifico e autore amatissimo di letteratura per l’infanzia, nel 1977 «vide» una serie di piante «che l’occhio umano non percepisce». E da quel momento non può sottrarsi al suo compito: redigere un grande albo scientifico in cui classificare la sua Botanica parallela, fra le cui pagine prendono vita le estrose artisie, ma anche il giraluna oppure gli strangolatori. Gallucci ripropone un assaggio di quel catalogo, in un bel libretto formato tascabile (pp.125, euro 10, disegni dell’autore), pescando qua e là fra i capitoli e i «personaggi vegetali», mantenendo la successione originale della prima edizione.

Essendo primavera inoltrata, piace rimanere immersi nel verde vagabondando dentro parchi che custodiscono innumerevoli storie segrete con un altro albo – splendido – scritto e illustrato da Lucia Scuderi. È Il giardino delle meraviglie, edito da Donzelli (pp. 50, euro 20), che racconta le biografie di gelsomini, ulivi, capperi e alberi di limoni, facendo tappa su una isola come la Sicilia, ricca di specie endemiche del Mediterraneo. Scopriamo così che l’echinocactus è conosciuto anche come «cuscino della suocera» (evidentemente le spine servono come seduta per persone non gradite). Al fico, invece, è legata la tradizione di una ricetta antica, le sarde a beccafico, che prende il nome da un piccolo uccello golosissimo dei frutti tanto da starsene sempre appollaiato fra i rami dell’albero. Se il limone ha origine in India e Indocina, ormai l’immaginario l’ha assegnato all’Italia e a molte aree del Mediterraneo (questa volta il consiglio culinario, un piatto che possono preparare anche i bambini, sono le polpette in foglie di limone). I
nfine, l’ulivo, la pianta simbolo della nostra civiltà – anche Romolo e Remo secondo la leggenda, nacquero all’ombra delle sue fronde. A favorire la sua crescita e prosperità in terra italiana (e siciliana) è stata la pratica millenaria dell’estrazione dell’olio.
Il libro di Donzelli accompagna la prima edizione della rassegna Radicepura Garden Festival, dedicata al garden design e all’architettura del paesaggio. Fino al 21 ottobre, nel parco botanico di Radicepura sarà possibile visitare quattordici giardini, realizzati appositamente con le specie più originali coltivate da Piante Faro. La Sicilia è la cornice del primo appuntamento di questa variegata Biennale, ai piedi dell’Etna. Ogni giardino è site specific e misura 150 metri quadrati.
C’è quello verticale, Tour d’Y Voir del paesaggista francese Michel Péna e quello dell’amicizia progettato dalla designer Kamelia Bin Zaal, ispirato alla convivialità dei cortili arabi. Poi ci sono le aree verdi degli artisti più giovani: l’Hortus Salis di Alejandro O’Neill, un omaggio alle saline nate dall’evaporazione del mare nella zona di Trapani e Marsala, e «Re-Live» degli spagnoli Carmen Guerrero Mostazo e Andrea Graña, sul tema dei terremoti e della possibilità di rinascita. S’ispira, invece, alla mantiglia, lo scialle di pizzo usato dalle donne nelle cerimonie, il Jardin de Mantille della francese Maia Agor. Radicepura ospita anche quattro installazioni vegetali: si va dalla creazione artistica-botanica di François Abélanet al Giardino della Dieta Mediterranea, ideato dallo studio Coloco.
[Arianna Di Genova 29/04/2017]

Il selfie del mondo, Marco d’Eramo

Il filosofo Immanuel Kant è stato il primo a teorizzare, nella Critica del Giudizio, la figura del turista come un soggetto che si muove per il mondo alla ricerca di esperienze estetiche gratificanti. Alla ricerca cioè di mete di visita che sono in grado di assumere ai suoi occhi un carattere sublime. Non sono però sublimi in assoluto, ma lo diventano per un turista che li vive come inferiori rispetto a sé. Che trova dunque in tal modo una conferma della sua superiorità nei confronti della natura, ma anche di chi la abita, ovvero gli abitanti di un determinato luogo geografico.
Dall’epoca di Kant, però, il turismo è profondamente mutato. Quello che era un turismo d’élite è stato progressivamente sostituito da un vero e proprio turismo di massa. Pertanto, è andata scomparendo la distinzione tra i viaggiatori e la popolazione che vive in un territorio preciso, la quale ha cominciato a sua volta a viaggiare per il mondo alla ricerca di esperienze sublimi.
CIÒ È POTUTO avvenire perché il turismo si è trasformato in uno dei fenomeni che più caratterizzano le società contemporanee. Al punto che l’attuale può essere considerata una vera «era del turismo». Marco d’Eramo, storica firma del manifesto, ne dà conto nel libro Il selfie del mondo (Feltrinelli, pp. 254, euro 22). D’Eramo racconta, intrecciando interpretazioni teoriche con un’elevata quantità di fatti e notizie, come il turismo si sia sviluppato. Come cioè le città e i luoghi turistici siano diventati oggetto di un intenso processo di miglioramento e promozione allo scopo di soddisfare una domanda di vacanze in forte crescita. Come dunque ogni territorio geografico e culturale è stato progressivamente considerato dotato di una specifica identità che può essere sfruttata per esercitare una capacità d’attrazione nei confronti della domanda turistica.
D’Eramo mette bene in luce come tutto ciò sia nato nel corso dell’Ottocento. Non a caso in tale periodo è andato definendosi il modello dell’albergo. In realtà, l’albergo ottocentesco era un «grand hotel», ovvero un luogo di elevato prestigio destinato ad ospitare poche persone privilegiate appartenenti all’aristocrazia e all’alta borghesia. Grazie alla locomotiva ferroviaria e al piroscafo, il viaggio da tormento si trasformava in piacere e le famiglie altolocate cominciavano a spostarsi. Non è un caso che nella seconda metà dell’Ottocento ci sia stata anche una larga diffusione di guide turistiche, come quelle pubblicate da Karl Baedeker in Germania o quelle celebri di Mark Twain.
IL TURISMO è diventato un fenomeno di massa soprattutto nel Novecento, in conseguenza di una legittimazione etica e sociale del concetto di tempo libero. D’Eramo mette inoltre in evidenza come il turismo si sia sviluppato anche moltiplicando i suoi modelli, assegnando una maggiore importanza allo sguardo del turista. Il quale ha trovato disturbanti le esperienze fatte con gli altri sensi. Che dunque vengono di frequente indebolite o addirittura eliminate.
Per esempio, D’Eramo riporta che i turisti che non hanno il coraggio di fare rafting nel Grand Canyon in Arizona trovano a pochi chilometri di distanza un cinema IMAX con 525 posti su cui viene proiettato un film di 34 minuti su uno schermo da 21 metri con sei amplificatori Dolby stereo che permette di vivere la stessa esperienza di scendere nel fiume con il canotto.
CIÒ È POSSIBILE perché, come aveva già sottolineato nelle sue Mythologies Roland Barthes, il turismo si presenta essenzialmente come un fenomeno culturale e comunicativo. D’Eramo sposa perciò la posizione di Dean MacCannell, secondo il quale quello che conta per i luoghi turistici è la loro capacità d’attrazione, che la società elabora dando vita a delle «frecce», cioè dei markers che attirano l’attenzione.
Il turista poi, visitando tale luogo, produce a sua volta altri markers: cartoline, fotografie, giudizi sui social network. Non a caso, l’atto del fotografare sostituisce spesso per i turisti il guardare. E il digitale, semplificando l’atto del fotografare, ha intensificato questi comportamenti. Dunque, la diffusa pratica odierna del selfie, che dà il titolo al libro di D’Eramo, è dovuta al bisogno di segnalare la propria presenza e la propria esistenza, ma anche alla necessità di produrre dei «marcatori». Il turista contribuisce pertanto a conferire con i suoi markers una natura autentica all’attrazione turistica.
Di conseguenza, nascono anche città interamente dedicate al turismo, o trasformate a tale scopo. D’Eramo racconta di diverse città di questo tipo: Venezia, San Gimignano, Las Vegas o la cinese Lijiang, ricostruita dopo un terremoto secondo un modello di pura fantasia. Eppure oggi ogni anno ben 20 milioni di turisti si accalcano all’interno di tale città per vedere dei falsi nuovi edifici antichi, come il palazzo mai esistito della famiglia Mu.
SI TRATTA di città che applicano il modello dell’«autenticità messa in scena» di cui ha parlato MacCannell. L’autenticità dev’essere cioè «marcata» per essere visibile al turista. Perciò spesso il turista rimane deluso, perché si è precostituito delle aspettative tramite i markers che ha incontrato prima della sua visita e che non corrispondono alla realtà. Eppure l’industria turistica odierna non si ferma. Spesso addirittura trasforma in attrazione gli stessi turisti. E riesce a fare affari persino svelando la messa in scena, cioè mostrando cosa è possibile trovare dietro le quinte, secondo quel modello che oggi applicano abitualmente i grandi chef, che permettono ai clienti di entrare nelle loro cucine.
Eppure, nonostante tutto, va riconosciuto, come fa anche D’Eramo in sede conclusiva, che il tanto bistrattato sguardo del turista di massa non è molto lontano da quello della modernità. Rappresenta cioè il riflesso di quell’insaziabile volontà di conoscere e comprendere il mondo circostante che ha alimentato con successo il processo di sviluppo delle società occidentali.
[Vanni Codeluppi 29/04/2017]

mercoledì 26 aprile 2017

El niño del balcón. La Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán, Giuliano Malatesta

Da un balcone del Barrio Chino un bambino guarda i suoi coetanei tirare dei calci ad un pallone nella piazza sottostante. Sono i primi anni quaranta, la Guerra Civile spagnola è finita da poco e la dittatura di Franco impone silenzio e obbedienza. Quel bambino è Manolo Vázquez Montalbán, l’inventore del «più stravagante e straordinario detective di tutto il Mediterraneo», Pepe Carvalho. Solo dopo verranno il Montalbano di Camilleri, il Fabio Montale di Izzo e il commissario Charitos di Markaris. Montalbán ci ha lasciato di colpo nel 2003 e ora nel suo quartiere, ribattezzato Raval, lo ricordano solo una brutta piazza e una targa in quella che era la casa della sua infanzia. Con queste due immagini si apre El niño del balcón. La Barcellona di Manuel Vázquez Montalbán, il bel libro di Giuliano Malatesta (Giulio Perrone, pp.104, euro 12). Di Montalbán si è scritto molto. Soprattutto in Spagna, ma anche in Italia, paese a cui lo univa l’amore per la politica, la cucina e il calcio. E pure l’amicizia con Inge Feltrinelli, Slow Food e il manifesto.
MALATESTA, PERÒ, ci offre un viaggio diverso e suggestivo che lega indissolubilmente lo scrittore alla sua città e ancora di più al suo Barrio Chino, un quartiere di operai e represaliados del franchismo che i «missili intelligenti lanciati dagli urbanisti» hanno distrutto con la scusa di mandare via «poveri e puttane». È una critica sagace quella di Malatesta ai troppi processi di riqualificazione urbana che sventrano i quartieri popolari e che nella Barcellona post-olimpica trovano uno dei suoi casi emblematici. Quelle che ci regala Malatesta sono «storie di altri tempi, di una Barcellona che non esiste più». Un vagabondaggio che ripercorre la Ciudad Condal di Manolo e ne recupera la memoria collettiva negata dal franchismo e «dall’autocompiaciuto post modernismo catalano».
Si susseguono così ricordi e immagini che dagli anni bui della dittatura del Generalísimo arrivano fino al nuovo millennio. I lunghi mesi passati da Montalbán nel carcere di Lerida per aver cantato Asturias, patria querida, quando era un giornalista ventitreenne militante del partito comunista. Lì, dietro le sbarre, conosce Biscuter, la persona che gli ispirerà il personaggio del futuro aiutante e cuoco di Carvalho. E poi gli ultimi infiniti anni della dittatura quando muove i primi passi nel mondo della letteratura e, criticato dalla gauche divine barcellonese che si riunisce in locali come il Bocaccio, sceglie il genere poliziesco per «portare avanti una critica sociale utilizzando un formato popolare». Al Bocaccio e alla borghese Calle Tusset, Montalbán preferiva le sordide strade del Raval, il bancone del Boadas, i tavoli di Casa Leopoldo e il mercato della Boquería. È in quel triangolo che si svolgono la maggior parte delle prime storie di Carvalho, cronache della Spagna che passa «dalla speranza pre-democratica all’inganno post-franchista».
MA NON C’È SOLO questo nel libro di Malatesta. C’è la Barcellona invasa dai grandi scrittori latinoamericani come Cortázar, Vargas Llosa o Gabo. La Barcellona della «super agente letteraria» Carmen Balcells, che seppe lanciare al firmamento delle lettere anche Montalbán. C’è quella Barcellona amata da Orwell o Genet, vuoi per il fermento politico, vuoi per la vita senza tempo dei cabaret e dei bordelli del Barrio Chino. C’è la Barcellona anarchica, la Rosa de fuego, e la Barcellona de La Criolla e di Madame Petite. Ma c’è anche il Barça, che per un «tifoso novecentesco» come Montalbán era «l’esercito simbolico, disarmato ma imponente, della catalanità». E, ovviamente, la gastronomia, rivendicata dal creatore di Carvalho come un oggetto letterario. C’è tutto questo, ma anche molto di più. Il tutto con un velo di saudade per una città in cui ora, come scrisse lo stesso Manolo ne Il pianista, «le farmacie sembrano i caffè e i caffè farmacie».
[Steven Forti 26/04/2017]

Z. La guerra dei narcos, Diego Enrique Osorno

Diego Enrique Osorno è nato e cresciuto nella metropoli di Monterrey, la città del nordovest del Messico che per la sua vicinanza con il confine con gli Stati Uniti è diventata da tempo uno dei centri nevralgici di ogni sorta di traffico tra i due paesi. Da queste parti, una fabbrica della Ford, che sfrutta i bassi salari e la scarsa sindacalizzazione della manodopera locale, costruisce veicoli come i Fusion o i Lincoln MKZ con cui altri messicani, si calcola che siano oltre 100mila ogni anno lungo una linea di confine con il Texas che qui si estende per oltre 600 chilometri, tentano il viaggio alla conquista della loro fetta del «sogno americano».
Allo stesso modo, da quando le autorità di Washington e Città del Messico hanno dichiarato formalmente, ma non senza evidenti contraddizioni e complicità, la loro guerra ai narcos, la regione si è trasformata in una sorta di tragico campo di battaglia dove le prime vittime sono spesso proprio i migranti.
Intorno al tema della frontiera, che è risultato centrale nella vittoriosa campagna elettorale condotta da Donald Trump, ruota perciò da tempo anche il lavoro di Osorno, tra i più noti giornalisti investigativi messicani che ha raccontato, tra libri, reportage e documentari, i conflitti sociali e lo sviluppo del narcotraffico e delle culture criminali nel suo paese. Protagonista del nuevo periodismo infrarrealisa, che ispirandosi all’opera di Roberto Bolaño cerca di far convivere denuncia e ispirazione narrativa, questo giovane autore, che è stato fra gli ospiti della kermesse milanese Tempo di libri, ha pubblicato nel nostro paese Z. La guerra dei narcos e Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio, entrambi per la casa editrice La Nuova Frontiera.

In un intervento pubblicato all’indomani dell’elezione di Trump, lei si è chiesto cosa avrebbe significato per il Messico condividere il confine «con un paese crudele e inumano chiamato ’trumpland’». Oggi che risposta dà a quel quesito?
All’inizio Trump sembrava un proiettile vagante sparato dalla stupidità che non aveva alcuna possibilità di farci del male. Poi abbiamo capito che invece poteva andare a segno. Sappiamo che rappresenta una tragedia per la democrazia e un prodotto folkloristico del capitalismo magico, anche se dobbiamo ancora capire che tipo di ecatombe sociale e economica potrà produrre il suo piano di dar vita a un paese ancor più razzista e autoritario. Nel frattempo, l’arrivo di Trump ha ridestato un forte sentimento anti-americano in tutto il Messico. Anche se, in linea di massima, si sta assistendo a due tipi di reazioni rispetto al suo arrivo alla Casa Bianca. Da un lato, c’è quella di pressoché totale smarrimento che emerge dai nostri governanti, che in tutti questi anni hanno fatto ogni tipo di sforzo per ingraziarsi l’establishment statunitense e che ora non sanno bene cosa fare di fronte ai continui attacchi e insulti che ricevono da costoro. Dall’altro, in particolare nella zona del confine, ci sono molte comunità e persone che difendono l’integrazione sempre più forte che si è costruita nel corso degli ultimi anni tra il lato messicano e quello statunitense della frontiera. Un’integrazione che è tutt’altro che soltanto economica. Sono reduce da un viaggio attraverso gli stati messicani di Tamaulipas e Nuevo León, e quello statunitense del Texas, nel corso del quale mi sono accorto che gran parte delle conversazioni che ho intavolato con i miei interlocutori vertevano proprio sulle somiglianze umane e culturali tra queste zone, indipendentemente dalla linea della frontiera che le divide.
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Diego Enrique Osorno
Oltre 35mila immigrati messicani «irregolari» sono stati espulsi dagli Usa dopo l’insediamento di Trump. In prospettiva, cosa può significare tutto ciò per una zona in cui, come descrive nel suo «Un cowboy attraversa la frontiera in silenzio», il confine più che un limite rappresenta il sogno, la speranza e una sorta di «terra del possibile»?
In realtà, purtroppo, queste «deportazioni» non costituiscono una novità. Anche durante l’amministrazione Obama le cifre erano più o meno le stesse. Piuttosto, penso che ciò a cui punta davvero Trump sia di inibire la migrazione, di dissuadere chi vuole partire, più che arrestare il fenomeno.
In ogni caso, chi abbia letto attentamente quel mio libro, può comprendere quanto questo territorio sia interconnesso e come per chi vive da queste parti le leggi che vengono votate a Washington come a Città del Messico ci mettano del tempo ad arrivare e spesso continuino a essere smentite dai fatti. Da questo punto di vista, spero proprio che il muro di cui parla tanto Trump, possa restare soltanto un’altra trovata stupida e assurda della vecchia élite americana, e che non possa riuscire a fermare il flusso di persone che traversa il confine e la vita quotidiana in comune che si svolge in quel paese terzo che esiste già di fatto tra il Messico e gli Stati Uniti.
Il «muro» di Trump, che in realtà è già stato parzialmente costruito prima di lui da Clinton e Bush, punta a fermare le persone. Perciò che effetto potrebbe avere sul narcotraffico che affligge la zona del confine?
Sono decenni che la droga arriva negli Stati Uniti non solo via terra, ma anche per mare o con gli aerei. Ciò detto, in Messico sanno tutti che una quota considerevole della «merce» che il cartello di Sinaloa fa entrare in territorio americano passa attraverso tunnel sotterranei. In questo senso, controlli seri e barriere potrebbero ostacolare il lavoro dei trafficanti. Tuttavia, anche così la droga continuerebbe a passare… Il problema è, infatti, un altro. Se Trump e le autorità americane volessero bloccare il narcotraffico, è contro i cartelli criminali responsabili del trasporto e della diffusione della droga negli Usa che dovrebbero concentrare i loro sforzi. Oggi come oggi in città come Los Angeles o New York è più facile trovare la cocaina che il jamón serrano, il prosciutto di montagna che arriva dalle nostre parti.
L’ultima a cadere è stata Miroslava Breach, inviata di La Jornada uccisa il 25 marzo a Chihuahua, mentre in questo decennio è stato ucciso almeno un giornalista al mese, per lo più senza che i responsabili fossero identificati. Nel volume collettivo La Ira de México (Debate, 2016), che riunisce alcuni dei maggiori cronisti locali, lei spiega che questa «impunità appare come un progetto elaborato dal regime politico e che sembra impenetrabile». Qual è lo spazio per il lavoro dei cronisti?
Purtroppo, Miroslava non rappresenta il caso più recente. Proprio alla vigilia di questa intervista, un altro collega, Max Rodríguez, è stato ucciso in Baja California Sur. Tutto ciò è terribile, soprattutto perché il governo non fa nulla per impedirlo. Anche se la cosa peggiore è forse la mancata reazione dell’opinione pubblica, legata al fatto che sull’intera categoria pesa un certo discredito, visto che alcuni media hanno più volte mentito alla popolazione o manipolato le informazioni in combutta con le autorità.Paradossalmente però, nonostante questa strage continua, in Messico la libertà di espressione non è ancora perduta. Al contrario, oggi ci sono più giornalisti che investigano e denunciano ciò che non va rispetto a dieci anni fa. La mafia non ha scoraggiato il giornalismo messicano. Non riescono a farci stare zitti.
Lei ha realizzato due documentari, «Tierra de impunidad», prodotto da Al Jazeera e La libertad del Diablo, presentato al Festival di Berlino. In entrambi è descritta la spirale di violenza legata al narcotraffico e ai metodi, spesso analoghi a quelli dei mafiosi, degli apparati repressivi dello stato: un modo per far prendere coscienza all’opinione pubblica internazionale del meccanismo di morte che imprigiona il Messico?
Nel corso di un solo decennio, tra il 2006 e il 2016, nel mio paese sono scomparse qualcosa come 30mila persone. Questa cifra è superiore a quelle relative al bilancio, già terrificante, dei regimi autoritari del Cile e dell’Argentina degli anni Settanta del secolo scorso. Perché una democrazia come il Messico produce più desaparecidos e barbarie delle dittature dell’America Latina? Per me questa è la domanda più urgente a cui dobbiamo rispondere tutti. Come giornalista, documentarista e scrittore, sto lavorando con ogni mezzo e senza fermarmi mai per cercare una risposta a tutto ciò.
[Guido Caldiron 26/0.4/2017]

martedì 25 aprile 2017

Il Canto della Pianura, Kent Haruf

Carissime/i,
ci troviamo LUNEDI' 8 MAGGIO, a casa di Monia, solita ora, per parlare di Kent Haruf e della sua TRILOGIA DELLA PIANURA. Leggete il primo della serie (Il Canto della Pianura -che però in Italia è stato pubblicato come secondo), il secondo, il terzo, o tutti quanti i romanzi se volete: Monia ci guiderà nella pianura -un po' desolata- del Colorado, su e giù per la trilogia.
A presto
Silvia

domenica 23 aprile 2017

Allontanarsi, Elizabeth Jane Howard

Il successo dei romanzi che raccontano epopee famigliari sta nell’empatia che lo scrittore o scrittrice riesce a stabilire con chi legge, tenendolo legato – volume dopo volume – alle sue storie. È ciò che è capitato all’inglese Elizabeth Jane Howard, autrice de La saga dei Cazalet, pubblicata in Italia da Fazi Editore. Il 20 aprile sono usciti il quarto capitolo della serie – Allontanarsi, (pp. 650, euro 10,00) e, sempre per Fazi, un’intensa biografia, Elizabeth Jane Howard. Un’innocenza pericolosa (pp. 450, euro 18,50) firmata da Artemis Cooper.
LA SAGA DEI CAZALET, che in Inghilterra è stata pubblicata per intero – in tutto cinque volumi – ha riscosso un tale successo da convincere i produttori di Downtown Abbey a farne una serie tv. Le vicende di questa famiglia della borghesia inglese del dopoguerra sono il capolavoro autoriale di Elizabeth Jane Howard. In questa biografia, Artemis Cooper fa un ritratto puntuale e critico dell’autrice, indagando nelle contraddizioni di una delle migliori penne del Novecento inglese.
L’uscita del quarto volume della saga e della biografia accende un faro su Elizabeth Jane Howard, amata dal pubblico ma solo di recente consacrata dalla critica. Cosa ha causato questo scetticismo?
Secondo Jane, nell’epoca in cui uscirono i suoi romanzi (anni ‘80/’90) c’era un pregiudizio da parte dell’establishment letterario, allora molto schierato a sinistra: le storie di grandi famiglie – che vivevano in belle case e conducevano vite borghesi – non erano degne di essere prese seriamente. Potrebbe esserci una parte di verità in questo, ma le cose sono cambiate; gli anni della guerra di cui Jane parla sono lontani e questa distanza rende più facile focalizzarsi sui pregi delle storie.
Raccontare una donna come lei è un’enorme responsabilità. Qual è stata la cosa più difficile di questa biografia?
Jane era una figura complessa; ho esplorato tutte le sue contraddizioni, ma temevo di confondere il lettore. Era una donna forte, intelligente, pratica, eppure sempre alla mercé delle sue fantasie romantiche; una femminista convinta, e al tempo stesso più che sensibile alle adulazioni di qualsiasi uomo la amasse o la ammirasse. Era orgogliosa del suo lavoro e di quello che aveva ottenuto ma apparteneva ancora alla generazione che guardava gli uomini come fossero dèi. Spesso ho pensato che il suo corpo e la sua mente la trascinassero in direzioni diverse.
La scelta di raccontare una saga famigliare ha a che fare con la sua vita sentimentale turbolenta?
Tre matrimoni dolorosi e una serie di relazioni che l’hanno fatta soffrire molto – questa era la sua vita. In un certo senso i suoi libri sono stati un tentativo di fare chiarezza dentro se stessa. Nello scrivere Jane era così lucida sull’amore, sul tradimento e su ciò che uomini e donne si fanno a vicenda. Com’è possibile che qualcuno con una visione così acuta faccia errori così catastrofici nella sua vita amorosa? E non solo una o due volte, ma più e più volte. Naturalmente era proprio questo suo lato passionale e spericolato a renderla tanto brava nel raccontare storie.
Per questo la sua biografia si intitola «Innocenza pericolosa»?
Ebbe tre mariti, per tutti Jane divenne una specie di femme fatale. Eppure si considerava una donna ingenua in cerca d’amore. Non si sentì mai davvero in colpa per i danni che causò: molti dei suoi uomini erano sposati. Ed è per questo che la sua era un’innocenza pericolosa. L’amore s’impossessava di lei; le forniva una scusa per comportarsi male.
Cosa ha reso la saga dei Cazalet così apprezzata dal pubblico, tanto da farne una serie?
I romanzi sui Cazalet non sono solo letture godibili, sono anche tecnicamente riusciti: Jane ha saputo gestire un cast enorme per un lungo periodo di tempo, intrecciando le vicende dei personaggi le une con le altre. Ciò lo rende perfetto per la tv: la gente ama essere coinvolta in complessi drammi familiari che si sviluppano nel corso di diverse stagioni. Guardi il successo di Downton Abbey!
Al di là del fatto che siano un’opera quasi unica, c’è una caratteristica che accomuna i cinque capitoli?
Il filo conduttore è lo spiccato senso della famiglia che accomuna tutti i personaggi. Ma è una famiglia che fatica a stare al passo coi tempi: gli uomini Cazalet non sono abbastanza ambiziosi da investire seriamente nel business del legname, vogliono solo mantenere il loro stile di vita agiato. Per questo sono condannati a restare indietro.
Ha avuto modo di conoscere Elizabeth Jane Howard di persona. C’è qualcosa che avrebbe voluto chiederle ma non lo hai mai fatto?
Una cosa adorabile di Jane era che potevi chiederle di tutto. Qualsiasi cosa. Ha sempre mostrato un grande interesse per l’intero processo biografico. Mi ha messo in contatto con tutti i suoi vecchi amici, la sua famiglia, i suoi editori. Persino la sua psicoterapeuta, che non avrebbe mai parlato con me se Jane non glielo avesse chiesto e permesso. Quindi no, non c’è nulla che avrei voluto chiederle di più.
[Francesca Del Vecchio 23/04/2017]

sabato 22 aprile 2017

Wonder R.J. Palacio

Alla fiera milanese Tempo di libri, c’era anche la scrittrice R.J. Palacio, che ha al suo attivo una serie di romanzi di cui il capostipite è Wonder (in Italia pubblicato da Giunti), sei milioni di copie vendute, tradotto in 47 paesi e un film in arrivo: a novembre in America per la regia di Stephen Chbosky, con Julia Roberts, Jacob Tremblay, Owen Wilson, e nel 2018 sui nostri schermi.
Dopo le avventure del protagonista Auggie, affetto dalle sindrome di Treacher Collins, che ne deforma i tratti del volto (procurandogli non pochi problemi di socializzazione a scuola e una serie di colpi da schivare), sono seguiti i libri dedicati ai suoi amici/nemici: Julian, Christopher e Charlotte (sempre per Giunti). Palacio, pseudonimo di Raquel Jaramillo – ha origini colombiane – ha esordito nella letteratura per ragazzi con questa storia-metafora della diversità, che attraversa l’adolescenza facendo saltare gli steccati che proteggono il concetto di «normalità».
Perché dopo «Wonder» ha deciso di raccontare la storia da differenti punti di vista? Le emozioni di Auggie non erano sufficienti?
I personaggi del mondo di Wonder sono molto diversi fra loro. Rappresentano la quotidianità di New York, la mia città. Lì le geografie sono molteplici; se si sale su una metropolitana, ci si può trovare insieme a persone provenienti da una cinquantina di paesi differenti, fianco a fianco. È un bella sensazione. Ho scelto di raccontare la storia da più punti di vista perché il mio obiettivo era narrare la vicenda esistenziale completa di Auggie, e questo includeva il suo impatto sugli altri, ho dovuto tener conto anche dei pensieri di chi gli era vicino.
Come è arrivata alla scrittura?
Sono sempre stata una scrittrice segreta e, soprattutto, un’avida lettrice. La mia carriera mi ha portato su un percorso differente per molti anni, ma non mi sono mai allontanata realmente dalla scrittura e non ho mai perso l’ambizione della mia prima infanzia. Credo che stessi solo aspettando il libro giusto, quello che mi avrebbe colpita.
Qual è, secondo lei, la maggiore difficoltà che può incontrare oggi l’editoria per i lettori più giovani?
Non sono sicura che ci siano davvero tali difficoltà. Negli Stati Uniti, almeno, la letteratura per l’infanzia e l’adolescenza finalmente sta ricevendo il rispetto che merita. I libri per bambini sono i più resistenti, in termini di volumi stampati: i genitori sembrano voler continuare a comprare libri fisici, oggetti «tangibili» per i propri figli, in cui le pagine si possano girare. È un’esperienza diversa rispetto alla lettura in e-book, che ha comunque un suo fascino.
Penso che la letteratura per l’infanzia sia diventata meravigliosamente di tendenza: gli adulti si rendono conto che possono trovare non solo una ottima scrittura, ma anche grandi storie, grandi narrazioni, grandi argomenti. E ogni racconto può essere, allo stesso tempo, popolare e «alta letteratura»
 [Arianna Di Genova 22/04/2017]

venerdì 21 aprile 2017

Chi ci ha abbandonato?

Chi ci ha abbandonato? Sembra una domanda a sfondo astratto-meditativo e invece è l’amaro titolo scelto per presentare ieri i dati Istat della lettura alla fiera milanese di Tempo di Libri. Il punto è stato interrogarsi proprio sui non-lettori in Italia. Un drammatico 57,6% che corrisponde a oltre 4 milioni di non lettori in più rispetto al 2010 (4 milioni e 300mila per la precisione). Ci sarebbe in effetti da inaugurare una sincera valutazione e non certo a scopo contemplativo ma critico e anche, forse, di costatazione che più di qualcosa è andato in corto-circuito.
I non-lettori, cioè quelli che dai 6 anni di età in su non hanno sfogliato neppure un libro in un anno, sono complessivamente 33 milioni. A guardarne il profilo ipotizzabile ci si accorge che non si è in presenza di un nuovo analfabetismo ma di una incostante frequentazione della pagina scritta, anche da parte di chi ha una propensione per «i prodotti culturali» e ha gradi spesso elevati di istruzione. A parte, infatti, che a spiccare per pigrizia è la popolazione maschile (il 64,5%) e la passione invece di quella femminile che solleva l’asticella attestandosi al 51,1%, nel 2016 i non-lettori risultano essere il 28,2% (aumentati del 7% rispetto il 2010) tra quelli che abitualmente si recano al cinema, a teatro e nei musei. La percentuale raddoppia tra chi usa la Rete tutti i giorni (in aumento del 15% rispetto al 2010).
«L’elemento di maggior interesse e di riflessione riguarda la necessità di approfondire chi è un non lettore», lo riconosce anche l’Associazione Italiana Editori che è colonna portante della Fiera di Milano Rho e che è più che interessata a domandarsi qualcosa riguardo la fedeltà dei lettori e delle lettrici ma anche la ragione della disaffezione di quei 4 milioni che un tempo sono stati attenti consumatori.
Sta di fatto che chi non molla – insieme a chi c’è sempre stato, ovvero quell’entità quasi magica del cosiddetto «lettore forte» – ha un bel da fare. Nell’ambito di Tempo di Libri, Aie e Nielsen hanno presentato i dati del mercato italiano dei libri, in calo di 2,9% a valore sul 2016 (nel primo trimestre del 2017). Guardando all’andamento degli ultimi tre anni comunque, si registra un lieve aumento (sempre a valore), grazie alla fiction (38,4% a copie) e i libri per bambini e ragazzi (22,8%, sempre a copie).
Quella porzione di popolazione che legge almeno un libro all’anno cosa ci vuole indicare? Che si vive bene fino agli 11 anni e il resto della vita lo si deve trascorrere nutrendo anzitutto la propria fantasia? Non esattamente, intanto perché anche qui non è l’età tra l’adolescenza e la vecchiaia a essere più attaccata dalla disaffezione alla lettura (e si potrebbero fare dei distinguo tra uomini e donne) ma una serie di fattori e variabili.
In compenso «l’Italia si vende benissimo all’estero», lo ha ribadito ieri Giuseppe Strazzeri, direttore di Longanesi, in occasione di un incontro dedicato alla narrativa italiana. Che all’estero guardino alla nostra letteratura con grande slancio ed entusiasmo è uno dei dati più confortanti, siamo tra i più amati. È «a casa nostra» che dobbiamo sempre concentrarci più del dovuto per trattarci bene.
[Alessandra Pigliaru 21/04/2017]

giovedì 20 aprile 2017

Troppo sale. Un addio con ricette, Stefania Giannotti

«Bisogna lasciarlo fare il mondo. Non mi risparmierà niente, ma se taccio potrebbe raccontarmi quello che ancora non so e farmi vedere dove non vedo». È una commossa gratitudine ciò che scuote dopo la lettura di Troppo sale. Un addio con ricette, appena pubblicato da Stefania Giannotti per Feltrinelli (pp. 182, euro 16). Memoir esperienziale, fortemente spirituale, una preghiera alta e meravigliosa che racconta di bagliori e cadute, attraverso una scrittura poetica – e politica – su di sé e sul mondo.
AL CENTRO LA SCOMPARSA del figlio dell’autrice nel mare di Carloforte, in Sardegna, 25 anni fa. Il ragazzo, diciassettenne e amatissimo, è il «tu» che nella narrazione riannoda i fili di un tempo franto e improvvisamente cambiato di segno, da reinventare.
Nelle pagine consegnateci da Giannotti, quel «tu» diventa sineddoche di amore indiviso, di madre che sopravvive al dolore più grande e che, rivolgendosi alla propria mancanza, domanda di poter vivere ancora e lo fa.
Vive ancora, Stefania, nonostante un vuoto di deserti e che riesce a mutare in tavola da imbandire anche per chi se n’è andato.
Sullo sfondo, la luce imprevista dell’obbedienza al cielo, di un dio minuscolo che si comincia a scrivere in altro modo per farselo amico, infine il chiaroscuro di uno strappo che se dapprima imponeva silenzio, ora trova sponde, le parole per riferire di cose irreparabili, imponderabili, e che vanno prese in carico, con cura. Una speciale trama di relazioni, di affetto e di sostegno ha ricevuto Stefania Giannotti, a partire da quelle interne al femminismo, un modo per scalzare il «nulla» che ha accompagnato tutto il «dopo».
Insieme però c’è una presenza, nella insostenibile e incredula trafittura che da congedo diventa mancanza incolmabile, emerge soprattutto la forza di una donna che sceglie di restituire la narrazione di sé con una libertà del vivere che colpisce nel profondo.
CAPIRE, RASSEGNARSI, rinunciare alla propria vita, abbandonarsi allo scorrere dei giorni? Che fare, esattamente di quel che resta dei giorni? Stefania Giannotti decide di cucinare, o meglio di continuare a cucinare e tenere con sé, anche dopo la scomparsa del figlio, questo «campo relazionale» che è sempre stato il cibo per lei, osservato, maneggiato e preparato per fare da alimento; per sé e gli altri: «è il rito beato della trasformazione calcolata, della materia che cambia fino a diventare commestibile, appagante, piacere, nutrimento, distrazione».
Se il reale è capace di ghermire e procurarci strazi che mai ci saremmo aspettati di vivere, il reale del cibo è infatti quella materia – il dato prima opaco e spesso inespugnabile – che segue il verso della mano, perché si pensa, e si sente, anche con le mani. Si piega, la materia, alla vividezza sensuale di un consenso all’esistere. E si entra in contatto con gli altri e le altre, si innesca non la competizione culinaria a cui siamo abituati ma la dedizione al condividere.
UNA MEMORIA che non dice il piacere del consumo ma l’infinito intrattenersi della preparazione – come in una tessitura – con centinaia di ingredienti e abbinamenti che, in calce ai paragrafi e in appendice, raccontano in Troppo sale uno spazio che è casa ovunque. In un ristorante, in un luogo privato, al Cicip&Ciciap, o alla Libreria delle donne di Milano insieme alle cuoche di Estia: «la cucina allora è metafora della vita. Come lei prepotente pretende una partecipazione attenta e assorbe completamente la mente e il corpo. Non ci si può distrarre, rimandare, perdere la misura».
E la perdita diventa quasi accessibile, per uno strano catechismo della gioia di cui bene ha raccontato Cristina Campo. O per il ringraziamento stupito che si deve a chi non si ama, di cui ha scritto Wislawa Szymborska. «Perdo te e mi resta soltanto il mondo», sembra rispondere loro Stefania Giannotti. Un mondo stupefacente che come il cielo non finisce, dotato di una consistenza imperfetta e di cui il dolore e il desiderio di vivere sono parti che non possono essere espunte.
SCHEDA
Stefania Giannotti è architetta, la cucina è più di una passione; i suoi libri precedenti sono «Zucchero a velo» (La Tartaruga, 1990); «Fuochi» (Libreria delle donne di Milano), insieme ad altre autrici cuoche varie. Oggi, a Milano, nell’ambito di «Tempo di Libri» (16.30 – Sala Optima, pad. 4), la prima presentazione di «Troppo sale». Dialogherà con l’autrice Liliana Rampello.
[Alessandra Pigliaru  20/04/2017]

Mio papà sa volare! , David Almond

In alcuni romanzi dello scrittore inglese David Almond (Newcastle Upon Tyne, 1951) la bruma nordica si espande, diventando la protagonista di paesaggi e solitudini; in altri, invece, al centro del racconto c’è la sfida dei ragazzini con la morte, un conflitto che si consuma tutto in gallerie buie, che molto ricordano quel sottosuolo dove sparivano gli uomini, il «mondo rovesciato» che ha accompagnato l’infanzia dell’autore, cresciuto in una cittadina del nord est, nell’Inghilterra mineraria.
Almond, che nel 1998 regalò ai lettori di ogni età uno dei personaggi più affascinanti della letteratura degli ultimi anni – Skellig, un po’ angelo e un po’ demone, creatura indecifrabile e bisognosa di cure –  arriva in Italia sull’onda del suo ultimo libro, Mio papà sa volare! (Salani, illustrazioni di Polly Dunbar, traduzione di Alessandro Peroni, pp. 128, euro 14,90). Se in un romanzo come Il grande gioco ha narrato il tunnel nero dell’adolescenza, qui l’aria è azzurra, ha i colori del cielo e delle nuvole, tutto è improntato a una certa leggerezza, nonostante la malinconia del tema: ungenitore andato fuori di testa e depresso, che cerca di dimenticare la moglie morta inventandosi ali assurde per volare, e una figlia-bambina che lo accudisce, incerta se assecondare le sue fantasie o riportarlo con i piedi per terra. Dopo l’incontro di ieri alla fiera dell’editoria milanese Tempo di libri, David Almond torna fra il pubblico oggi, in dialogo con Pierdomenico Baccalario (ore 11,30, Sala Tahoma).
In «Mio papà sa volare!», come accadeva in «Skellig», l’essere umano cerca l’ibridazione con altre creature fantastiche – in questo caso per cancellare lo sconforto di una vita difficile. La capacità di librarsi nell’aria è forse una via di fuga dall’esistenza ordinaria?
Naturalmente, siamo in molti a sognare di volare. E fin dalla notte dei tempi, racconti e immagini ci hanno mostrato creature umane alate. Esistono inoltre numerose poesie e canzoni che parlano dei gorgheggi degli uccelli o delle loro traiettorie di volo. Il desiderio di volare sembra essere qualcosa che ci appartiene, davvero fondamentale. Forse esprime la smania di libertà. È un anelito spirituale e fisico insieme. Si tratta di una metafora per la nostra immaginazione, che ci permette di sperimentare cosa significhi essere pienamente umani.
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Illustrazione di Polly Dunbar, dal romanzo «Mio papà sa volare!»
Il suo libro condivide lo stesso senso dell’umorismo e del ritmo che troviamo in diverse storie di Roald Dahl: è un autore che ha apprezzato?
Sì, ho sempre pensato che Dahl sia uno scrittore incantevole: è divertente, eccentrico e anche piuttosto dark.
«Skellig» è stato il suo primo romanzo per lettori giovanissimi. Come mai ha scelto questo settore della letteratura?
La storia di Skellig è arrivata d’improvviso, un giorno, mentre camminavo lungo una strada. Avevo appena finito di scrivere una raccolta di racconti (il libro sarebbe poi stato pubblicato con il titolo Counting Stars, in italiano Contare le stelle, Mondadori, ndr), mi sentivo leggero e libero. Non avevo intenzione di cominciare nient’altro, ma d’un tratto lì c’era la storia di un ragazzo che va in un garage e scopre qualcosa di sconosciuto e strano. Non sapevo cosa sarebbe accaduto né in cosa si fosse imbattuto quell’adolescente, ma appena ho iniziato a scrivere, ho sentito che era il racconto migliore che avessi mai prodotto fino a quel momento. Certo, nasceva da tutto ciò che avevo fatto prima, ma ero anche consapevole, con mio grande stupore, che stavolta ero alle prese con un libro rivolto soprattutto a un pubblico di giovani. Ho impiegato sette mesi per terminarlo. Era scaturito dalla mia vita, dalla mia infanzia, dalla casa in cui vivevo, a volte la storia sembrava quasi procedere da sola. Ignoravo come sarebbe andata a finire.
Che cosa hanno amato di più in «Skellig» i suoi lettori? Si sono forse identificati nella solitudine straniata del personaggio che così bene rappresenta incubi e sogni dell’«età di passaggio»?
In genere, amano l’idea di entrare in un luogo pericoloso, segreto e trovare qualcosa di sorprendente. Si riconoscono nel libro, sono coinvolti in un’esperienza che condividono con Michael, Mina e Skellig. Sembra quasi che traggano ispirazione dal romanzo, che li aiuti a pensare e a sentire profondamente. Gli adulti mi scrivono raccontandomi episodi molto personali delle loro esperienze come genitori. E i bambini desiderano esprimere l’entusiasmo provato durante la lettura del libro.
Cosa leggeva invece lei da bambino e poi in gioventù? Quali sono stati i personaggi letterari e cinematografici preferiti?
Ho amato i miti e le leggende, soprattutto il ciclo di re Artù. Andavo pazzo per la fantascienza di John Wyndham. Da ragazzo, poi, ho scoperto Hemingway e ho avuto la sensazione che i suoi romanzi mi avrebbero spinto a diventare uno scrittore. Ho letto un sacco di storie su fantasmi e poltergeist e anche sugli astri.
Come riesce a tenere incollata alle sue storie la generazione dei nativi digitali?
Sono un ottimista. Mi capita di incontrare, in tutto il mondo, bambini che adorano i libri e la lettura, che sono affascinati dal processo di scrittura: spesso, scrivono loro stessi racconti, poesie e canzoni. Ovviamente, utilizzano i media digitali (lo facciamo tutti, in fondo!), ma il volume stampato non scomparirà mai. Come autori, dobbiamo continuare a scrivere le nostre storie nel modo migliore che ci è proprio. Lavoriamo per chi costruirà il futuro.
In tutti i suoi romanzi con grande semplicità, lei mescola realtà e finzione, scenari fantastici e mondi reali…
I giovani possono contare su un’immaginazione aperta, flessibile. Sono in grado di godere di qualsiasi storia nell’emozionante caleidoscopio di forme in cui si dipana. Nel mio mestiere, sembra che io mixi realtà e vicende appartenenti al «fantastico», ma non è una decisione che prendo a tavolino. Scrivo in quel modo perché voglio esprimere cosa vedo e sperimentare lo stupore del mondo.
Può descriverci la sua tipica giornata di lavoro?
Uso quaderni per i miei schizzi, matite, penne, matite colorate, sperimento e gioco con le parole, le idee, le immagini. Quando la storia comincia a prendere vita, inizio a comporre frasi, paragrafi, pagine, capitoli sul mio computer. Viaggio molto, ma al centro c’è sempre una routine di scrittura. Quando sono a casa, continuo a farlo con orari regolari: parto di mattina e finisco nel tardo pomeriggio. Quando sto componendo le varie parti di un romanzo, provo a scrivere 1000 parole al giorno, e registro quello che faccio. Continuo poi a disegnare e a scarabocchiare nel mio taccuino per non perdere le idee che via via zampillano.
Cosa sta accadendo nella scuola oggi?
Abbiamo diversi insegnanti meravigliosi, scuole meravigliose e, naturalmente, meravigliosi bambini creativi. I pericoli per l’educazione provengono da quei politici che immaginano le scuole come fossero fabbriche per gli esami e classificano i bambini come unità economiche. La resistenza è una pratica sempre necessaria.
[Arianna Di Genova 20/04/2017]

martedì 18 aprile 2017

Svegliare i leoni, Ayelet Gundar Goshen


«Credo che l’essenza di questo romanzo sia universale, biblica: sono forse io il custode di mio fratello?» – spiega Ayelet Gundar Goshen se le si chiede quanto di specificatamente israeliano vi sia nel suo Svegliare i leoni edito in questi giorni da Giuntina (pp. 318 , euro 17, traduzione di Ofra Bannet e Raffaella Scardi).
LA DOMANDA è quella che Caino fa al Padre Eterno dopo l’uccisione di Abele ma l’interrogativo è rigorosamente laico. «Il protagonista è un dottore israeliano che lascia un immigrato sul lato della strada dopo averlo investito – prosegue la scrittrice riferendosi alla trama del romanzo – ma potrebbe essere facilmente un dottore italiano». Il medico di cui la giovane scrittrice racconta è il neurochirurgo Eitan da poco allontanato dall’ospedale di Tel Aviv per aver scoperto che il professore di cui è stato allievo era corrotto. E, come a volte succede, è lui ad essere stato cacciato e inviato con moglie e due figli ad espiare la sua onestà a Beer Sheva, a sud del paese, ai margini del deserto.
EITAN CORRE con la macchina dopo un turno di notte e proprio mentre «stava giusto pensando di non aver mai visto luna più bella» – musica a palla e il fresco che finalmente allevia l’arsura di sabbia – «investe un uomo».
Nel romanzo la storia di Eitan, onesto e retto, inizia e finisce qui: perché Eitan lascia l’uomo ai margini della strada, a finire di morire da solo. Spera che il mondo si congeli, che sia possibile tornare indietro ma, ovviamente, non è così.
«Quando nelle interviste mi domandano cosa si può imparare della mentalità israeliana dal romanzo – prosegue Gundar-Goshen – dico che spero che leggendolo le persone imparino più su sé stesse che sul popolo israeliano. Sempre, quando leggiamo un libro scritto in un luogo molto lontano da noi, possiamo pensare che sia su di loro. Invece è sempre su di noi. Io ho voluto che i lettori finissero il libro con questa domanda in testa: e se fosse successo a me di guidare verso la mia famiglia nel cuore della notte, colpire un rifugiato senza nome, uno tra altri mille, uno di quelli che pulisce al supermercato e che tanto nessuno lo saprebbe mai – sono assolutamente sicuro che non fuggirei anche io?». Disposti a cogliere la valenza universale della questione si è pronti a passare oltre quando Gundar-Goshen aggiunge: «Però è anche un romanzo molto israeliano. Circa settantamila, centomila africani sono entrati illegalmente in Israele negli ultimi dieci anni in cerca di salvezza. Per un paese piccolo questi sono grandi numeri. Arrivano attraversando il deserto, percorrendo la stessa strada che l’Israele biblica ha percorso dalla fuga dall’Egitto. Questo viaggio mitico degli ebrei in fuga dalla schiavitù è oggi il viaggio dei profughi africani verso la terra promessa. Una volta in Israele molti di loro vengono arrestati e messi in un centro di detenzione».
Ma Beer Sheva, nella realtà come nel romanzo, non è solo come Lampedusa per l’Italia, porta di ingresso alla fuga alla disperazione: «Non è infatti l’avamposto che accoglie l’arrivo dei migranti ma è la più grande città del Neghev, il deserto israeliano. È il cortile sul retro di Israele dove la povertà e il crimine sono più elevati che a Tel Aviv e a Gerusalemme. Eppure il deserto non è solo geograficamente distante, lo è anche psicologicamente: noi non pensiamo mai ai beduini o ai profughi africani, sono in fondo ai nostri pensieri. E non solo, il deserto oltre ad essere geograficamente e psicologicamente una periferia, è anche la metafora di quell’area della nostra coscienza che è intoccabile e nascosta, dove non avremmo mai il coraggio di andare».
IL ROMANZO INDAGA drammaticamente ciò che ciascuno di noi percepisce come altro da sé, a cominciare da noi stessi. Il mattino dopo l’investimento Eitan si prepara a una ordinaria mattina di lavoro quando gli viene incontro Sirkit, un’eritrea bella e gelida, moglie dell’immigrato ucciso, che gli mostra il portafoglio che ha lasciato sul luogo dell’incidente e lo ricatta: lo costringe ad andare a curare clandestinamente altri immigrati in una rimessa. Da quel momento per sostenere quella prima, unica e gigantesca vigliaccheria, Eitan è prigioniero di una rete sempre più ingarbugliata di inganni. Ne sarà coinvolta anche sua moglie Liat, poliziotta che indaga sull’incidente. «Entrambi – spiega la scrittrice – trovano in sé stessi aspetti della propria anima che non avrebbero mai pensato di affrontare».
AYELET GUNDAR-GOSHEN è laureata in psicologia clinica all’Università di Tel Aviv, columnist di uno dei principali quotidiani israeliani ed è impegnata nel movimento per i diritti civili. Svegliare i leoni è il suo secondo romanzo dopo Una notte soltanto, Markovich pubblicato anch’esso da Giuntina due anni fa, e deve il proprio titolo a una poesia in ebraico la cui traduzione suona «Noi siamo così pazzi che i leoni ruggiscono in noi tutta la notte».
«Mi piaceva l’idea di un predatore che dorme dentro di noi e che si sveglia nella notte. È un poema molto sensuale, non parla di istinti brutali e feroci ma della vita che non conosci, quella che incontri soltanto nei tuoi sogni. Infatti – continua Ayelet – anche se Eitan pensa di conoscere la mente umana, in fondo fa il neurochirugo, la verità è che non conosce nemmeno sé stesso. Pensa di essere un brav’uomo, un medico che salva vite umane e che vota per un partito progressista. Come la maggior parte di noi ha un’idea molto precisa di che tipo di persona sia, ma in realtà non sappiamo affatto chi siamo fino al momento in cui ci troviamo in una situazione estrema. Se gli si chiedesse durante un pranzo con gli amici se sarebbe capace di lasciare un uomo morente sul ciglio della strada Eitan probabilmente direbbe di no. Ma quando accade compie una scelta e la sua fiducia nell’essere un brav’uomo è una sorta di hybris, e viene punito per questo».
SENZA SVELARE i particolari del libro che gli danno i toni del noir è importante sottolineare che indaga e infrange i pregiudizi da entrambi i lati della storia: «Normalmente pensiamo che i migranti debbano essere santi ma non si può essere santi per sempre se vuoi rimanere vivo e Sirkit vuole restare viva. Anzi, di più, non vuole la vita di un cane o di una mucca, lei vuole la vita di Eitan, sente di averne diritto. E quando Eitan è sorpreso dalla sua mancanza di compassione dimentica che la compassione è un privilegio».
Nella realtà Eitan e Sirkit non si possono incontrare, sono destinati a ignorarsi reciprocamente per sempre: «Ma l’incidente di macchina che apre Svegliare i leoni è uno scontro di civiltà, due mondi paralleli che non si sono mai realmente incontrati prima. Come migrante Sirkit è una di quelle persone che è testimone di tutte le cose che facciamo senza porre alcuna attenzione alla sua presenza. Mi chiedo quante volte sono stata seduta al ristorante baciando, discutendo o chiacchierando intimamente mentre degli immigrati illegali stavano pulendo il mio tavolo completamente ignorati. Io volevo indagare cosa accade quando coloro che sono invisibili prendono atto di avere un potere che cambia le regole del gioco».
IL RAPPORTO tra Eitan e Sirkit diviene, nello scorrere delle pagine, rabbioso e sensuale e Liat, la moglie di Eitan, che pure ignora quanto sta accadendo ne percepisce l’asprezza e la profondità: «Liat organizza e pulisce in modo da non percepire il caos che regna fuori e dentro di lei. È come se gli oggetti di uso domestico fossero oggetti del pensiero e mettendoli a posto anche tutto il mondo trovasse il posto giusto. Mi stupisce sempre come delle persone possano vivere nella stessa casa diventando degli estranei invece Liat vuole che la propria casa sia libera dai misteri, sia un luogo che lei può conoscere completamente. Mi interessava l’idea che si possa dividere il letto con qualcuno, riconoscere ogni angolo del suo corpo anche ad occhi chiusi e, ancora, non sapere cosa sta sognando».
Un finale imprevisto, salvifico e amaro, consegna i protagonisti di Svegliare i leoni ciascuno al proprio destino e lascia domande inquiete su quegli «altri» con cui viviamo la vita e quell’altro in noi che giace dentro i nostri sogni frequentati da leoni.
[Lia Tagliacozzo 18/04/2017]

giovedì 13 aprile 2017

UN NO MOLTO ASPRO

Il territorio è un’entità impersonale, buona per misurazioni e cubature, e i luoghi, che esprimono le comunità, provano a dargli un senso diverso: tra questi due poli spesso è conflitto. È forte e deciso il no che arriva dalla Sardegna contro l’esproprio legalizzato di terre e prospettive sostenibili grazie alle megacentrali termodinamiche, che si apprestano a calare su Gonnosfanadiga e Guspini, Decimoputzu e Villasor.
UN NO MOLTO ASPRO dopo il parere positivo dato il 22 luglio scorso della commissione tecnica del Ministero dell’Ambiente sulla Valutazione di Impatto Ambientale del progetto «Flumini Mannu» (comuni di Decimoputzu e Villasor) della Green Power, gruppo Angelantoni: pannelli solari radianti su quasi trecento ettari, «espropriabili» (ma alcuni imprenditori agricoli operanti su questi terreni, come il combattivo signor Cualbu, non sembrano esattamente d’accordo). Una seconda è prevista al confine fra Gonnosfanadiga e Guspini: più ampia, con i suoi trecento ettari, dell’intera area del centro di Guspini.
media Cartografia_l'impiano di Gonnosfanadiga
I TERRENI AGRICOLI sono simili a quelli ben descritti da Emilio Sereni – che pure trascurava la Sardegna – nel suo Storia del paesaggio agrario italiano. Ci vai e vedi pianure e montagne come quinte in un’ampia area delimitata a nord-ovest dal castello di Arcuentu e a sud da quello di Acquafredda. Grandi serie monumentali dalla preistoria al medioevo; campi aperti e montagne, sorgenti: paesaggi culturali, identità che trova senso nei luoghi e ritroviamo nel «no» della Soprintendenza che sottolinea il rischio di distruzione della tipologia dell’openfield, irreversibile, attraverso la «distorsione della percezione e detrimento dei valori storico-culturale e paesaggistico».
L’OPPOSIZIONE SOCIALE espressa da comitati, sindaci, associazioni e forze ambientaliste, movimenti indipendentisti si è costituita in forma unitaria (Consulta Ambiente Territorio Energia) ed ha manifestato con forza il 25 marzo scorso a Gonnosfanadiga. Anche istituzionalmente la situazione è in movimento: se a suo tempo la Regione diede parere negativo, da poco persino il Presidente Pigliaru ha dovuto esprimere al premier Gentiloni «il forte malcontento e la netta contrarietà della popolazione alla realizzazione di questi impianti», e le «forti tensioni di carattere economico-sociale che potrebbero derivarne».
Questo termodinamico piuttosto ingombrante è ora sul tavolo del Presidente del Consiglio, come prescritto dalla procedura, e rappresenta un test delicato che non sfuggirà a Gentiloni. Lo è anche per una classe politica che – dopo lo «Sblocca Italia» – ha provato senza riuscirci a sistemare le autonomie territoriali con il referendum costituzionale, che in Sardegna ha registrato una sconfitta particolarmente netta, e prosegue costruendo modifiche ed eccezioni alle norme della tutela: sulle regole della Valutazione di Impatto Ambientale, sui parchi, sulle trivelle con concessioni entro le 12 miglia! Intanto la nuova proposta di legge urbanistica regionale mostra parole avvenenti («Programmi e progetti ecosostenibili di grande interesse sociale ed economico») e formule grimaldello come «l’accordo di programma».
SE OGGI I PAESAGGI della Sardegna, complessi e irripetibili, sono attraversati da un diffuso senso di appartenenza, dal racconto che diventa proposta, reticolare e integrata, di transiti e letture, tragitti e itinerari, e su questa base si pensa di costruire ricchezza, inserire impianti del genere significa sabotare, anche alterando i «punti di vista, passaggio e osservazione», una delle risorse principali della Sardegna.
Quando poi, a prescindere dai modelli, l’intervento vuole essere autorizzato nonostante la contrarietà generale, si pone, come abbiamo detto all’inizio, un serio problema di democrazia. Gli specchi prodigiosi di questi pannelli solari riflettono un modello neo-centralista e post-coloniale che sarebbe saggio, oltreché democratico, abbandonare.

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Il connubio tra pannelli solari e pecore secondo la Green Power
[Marcello Madau 13/03/2017]

mercoledì 12 aprile 2017

Underground Railroad, Colson Whitehead


Il premio Pulitzer per la letteratura 2017 è andato allo scrittore afroamericano Colson Whitehead per il romanzo «Underground Railroad», che narra con un tocco fantascientifico le possibilità di fuga degli schiavi.
Il romanzo di Colson Whitehead, The Underground Railroad, è tra i cinque libri che il presidente Usa Barack Obama ha portato con sé per le vacanze a Martha’s Vineyard. Nella lista diffusa dalla Casa Bianca compaiono anche Giorni selvaggi. Una vita sulle onde di William Finnegan, vincitore del Pulitzer 2016 per la biografia e l’autobiografia, il bestseller La ragazza del treno di Paula Hawkins, Io e Mabe. Ovvero l’arte della falconeria di Helen MacDonald e il thriller fantascientifico Seveneves di Neal Stephenson.
William Thomas, il direttore della casa editrice Doubleday che ha appena pubblicato il nuovo romanzo di Colson Whitehead, The Underground Railroad, all’inizio dell’estate aveva spedito una lettera ai librai americani: «Faccio questa professione da 29 anni e ho imparato quanto sia pericoloso creare troppe aspettative su un libro in uscita. Per questo, di solito cerco di trattenermi. Ma quello che ha fatto Colson Whitehead è così straordinario che non posso rimanere in silenzio. The Underground Railroad mi ha profondamente turbato, tanto che dopo aver finito di leggerlo sono uscito in strada e ho cominciato a camminare, come sotto choc, per cercare di analizzare l’onda di emozioni che mi aveva travolto. Non mi vergogno a dire che ho pianto, più volte, leggendo questo romanzo… Mettere a disposizione del mondo libri come questo è il motivo per cui tutti noi abbiamo scelto questa professione così complicata. Magari state pensando che stia esagerando. Sono assolutamente certo che non la penserete più così quando avrete finito di leggere questo libro».
Thomas non sapeva ancora che Oprah Winfrey, leggendo una delle copie pilota, avrebbe avuto la stessa reazione: e per questo ha deciso di scegliere The Underground Railroad per il suo Oprah Book Club, garanzia di visibilità e vendite-monstre che ha addirittura convinto l’editore a anticiparne l’uscita, ora che in copertina c’è il bollino con la «O» della presentatrice televisiva più famosa e ascoltata d’America. Il commento di Winfrey? È andata oltre quello che ha scritto l’editore ai librai: «Mi ha tenuto sveglia la notte, con il cuore in gola, quasi spaventata al pensiero di voltare pagina. Comprate questo libro, una copia per voi e una per una persona che conoscete perché vorrete assolutamente parlarne con qualcuno, quando avrete letto l’ultima pagina, che vi darà un colpo al cuore».
Così, pubblicazione anticipata di un mese (era prevista per settembre) e altre 200 mila copie stampate in fretta e furia (con bollino winfreyano) oltre alle iniziali rispettabili 50 mila. Libro pubblicato in anticipo, e in anticipo stanno uscendo le recensioni, addirittura due sul «New York Times» oltre a una lunga intervista all’autore che, lodevolmente, sa di aver scritto un libro tanto potente su un tema tanto importante — la schiavitù — da avvertire in anticipo l’America: «Non sono un rappresentante dell’essere afroamericano, non sono un predicatore: ho scritto un libro e vorrei parlare di quello». Proposito nobile ma impossibile in questo 2016 che vede Donald Trump — con l’incredibile endorsement di quel che resta del Ku Klux Klan — in corsa per la Casa Bianca nominato dal partito che un tempo (lontanissimo) fu di Abraham Lincoln, nell’estate delle manifestazioni di Black Lives Matter per i neri disarmati uccisi dalla polizia. Whitehead è il primo a sapere che si tratta di un libro su un tema attualissimo e altrettanto doloroso perché l’idea gli era venuta sedici anni fa, ma non si sentiva ancora pronto, né tecnicamente né emotivamente. Nel 2014 stava cominciando un altro romanzo, poi ha capito che era arrivato il momento di affrontare «il libro che mi spaventava», e ha scritto The Undeground Railroad. La «ferrovia» del titolo è quella di un’espressione americana che indica il percorso segreto che veniva utilizzato dagli schiavi in fuga dai loro padroni, la rete di simpatizzanti che cercava di aiutarli a raggiungere il Nord e lasciare per sempre il Sud schiavista in cerca della libertà.

L’idea, semplicissima come quasi sempre sono quelle geniali (d’altronde lui da quasi esordiente si aggiudicò una borsa della Fondazione Macarthur conosciuta come «Genius Grant») è questa: perché non immaginare che la «underground railroad» fosse, letteralmente, una ferrovia sotterranea? Binari in un tunnel scavato da chissà chi, treni che arrivano senza orario diretti da qualche parte verso Nord, stazioni abbandonate. Whitehead, attraverso i pensieri della protagonista del suo libro straordinario, Cora, una schiava di quindici anni in fuga dai suoi aguzzini, la descrive così: «… gli uomini e le donne che costruirono la ferrovia sotterranea, che scavarono un milione di tonnellate di pietra e terra, faticando nel ventre della terra per liberare gli schiavi dalle loro catene… I capistazione, i ferrovieri, i simpatizzanti. Chi sei diventato una volta che hai costruito qualcosa di così magnifico, tu che nel costruire quest’opera immensa sei riuscito a arrivare dall’altra parte. All’entrata c’eri tu, e chi eri prima di intraprendere quel viaggio sottoterra, e all’uscita c’è una persona nuova che esce finalmente a fare i primi passi nella luce. Il mondo che sta sopra deve sembrare così banale rispetto al miracolo che sta sotto, il miracolo che avete costruito con il vostro sudore e il vostro sangue. Il trionfo segreto che portate sempre con voi, nei vostri cuori».
Whitehead sa che la realtà ha tanti limiti e che il realismo magico, di cui è un giovane maestro fin dall’uscita del suo primo libro già così sicuro dei propri mezzi tecnici, L’intuizionista (edito in Italia da Mondadori), ha tante sfumature. Al «New York Times» ha spiegato di aver riletto, prima di cominciare, Cent’anni di solitudine, e di aver deciso di «non alzare il volume fino a 10», di mantenere cioè una realtà che ci spiazza ma non è completamente aliena. Una realtà amplificata che può sorprenderci a ogni pagina, che Italo Calvino avrebbe definito «iperromanzo, o romanzo elevato al quadrato, o al cubo». Whitehead ha un controllo tanto sofisticato della sua scrittura che per raccontare l’orrore assoluto — il primo di tanti stupri subiti da Cora ancora bambina, sulla nave che la sta portando in America, a opera di un vecchio marinaio — ha bisogno soltanto di tre righe («A causa della tenera età di Cora, inizialmente i suoi carcerieri non la costrinsero a subire le loro voglie, ma giunti alla sesta settimana di viaggio alcuni dei marinai più esperti la trascinarono fuori dalla stiva. Prima di arrivare in America aveva già tentato per due volte di uccidersi»). Tre righe appena, che restano marchiate nel cuore del lettore, tre righe in cui c’è tutta la grandezza di Whitehead: il riferimento ovvio e naturale di questo libro è Amatissima di Toni Morrison (Sperling & Kupfer) ma dove la signora Morrison userebbe paragrafi di quel suo linguaggio così influenzato dalla Bibbia — la traduzione seicentesca «voluta da re Giacomo» che ha forgiato tanti scrittori di lingua inglese — Whitehead usa un’economia di mezzi assoluta pur senza fare sconti all’orrore. È il totale rifiuto di ricattare il lettore che per questo resta ancora più impresso nella memoria e nelle nostre emozioni: Primo Levi scriveva in questo modo, ed è la scelta ideale per raccontare il viaggio di Cora che, quasi subito, mostra tutto il suo debito verso I viaggi di Gulliver. Ma dove Swift fa satira Whitehead lancia un nitido, abbagliante j’accuse: i neri venduti come bestie al mercato sotto gli occhi del pubblico che tiene per mano bambini che mangiano caramelle, i neri marchiati, picchiati, violentati. I neri in fuga sottoterra dai loro carnefici bianchi, dai mercenari che cercano di riportarli indietro, nelle case infernali dei loro padroni.
«Se non riesci a trovare il libro che vuoi leggere, scrivilo tu», è il famoso consiglio che Toni Morrison dà ai giovani scrittori, e Whitehead ha seguito la scrittrice da Nobel, ha affrontato le sue paure per raccontarci, dopo trecento pagine capaci davvero di tenere il lettore sveglio di notte, la luce in fondo al tunnel della schiavitù. Verso una libertà tanto bella quanto difficile da conservare, che va difesa e protetta, mai presa per scontata: Whitehead si è documentato con fonti storiche di primissima scelta come Edward Baptist e Eric Foner e Michelle Alexander, nel costruire il mondo da incubo di Cora in fuga rievoca la famosa pagina di Dispacci di Michael Herr del marine americano con la collana di orecchie mozzate ai Vietcong, immagina i linciaggi dei neri messi in scena come agghiaccianti, allegri spettacolini di varietà per il pubblico bianco. Iperrealtà di un iperromanzo che grazie all’aiuto di Oprah Winfrey (tanti anni fa recitò nel film tratto da Il colore viola di Alice Walker, un altro dei riferimenti di Whitehead) ora troverà un pubblico enorme. Caso editoriale dell’ultima estate alla Casa Bianca del primo presidente nero, salutato otto anni fa da Derek Walcott con una poesia: uno schiavo liberato che, all’alba, comincia a arare un campo, segno di «una profezia impossibile», la folla che si divide per lasciar passare un presidente nero.
 
 Il dramma «Sweat», che indaga ciò che resta del sogno americano tra la classe operaia ha vinto per il teatro. Il libro memoir Il ritorno dello scrittore libico Hisham Matar si è aggiudicato il premio nella sezione «Biography» (il rapporto con il padre, l’esilio, un paese sotto attacco).
 Per il giornalismo, nella  categoria «Explanatory report»,  il Pulitzer è andato all’International Consortium of Investigative Journalists, all’editore McClatchy e al Miami Herald, per le storie sui Panama Papers, i documenti trapelati da una delle più importanti società del mondo che si occupa di creazione e gestione di società off shore, studiati nel corso di una  inchiesta che ha coinvolto decine di quotidiani, tra cui «L’Espresso»).
Fra i fotografi vince  Daniel Berehulak per i  reportage sui metodi disumani della guerra alla droga del presidente filippino Dutert.
Per la musica, la protagonista è la compositrice cinese Du Yun per Angel’s Bone, un’opera lirica «coraggiosa che integra elementi vocali e strumentali e una vasta gamma di stili in una straziante allegoria della condizione dell’uomo nel mondo moderno».
A Tyehimba Jess di Detroit per Olio, il Pulitzer poetico, per «un’opera particolare che mescola performance art con la più profonda arte della poesia, per esplorare la memoria collettiva e le sfide rappresentate dalle nozioni contemporanee di razza e identità».