domenica 26 marzo 2017

Che cos'è il reale, Giorgio Agamben

Il 25 marzo del 1938, prima di imbarcarsi da Napoli, il fisico Ettore Majorana scrive al collega Carrelli di una «decisione inevitabile» relativa alla sua «improvvisa scomparsa». In un’altra lettera alla famiglia, chiede di limitare il lutto a «non più di tre giorni». Sembrano le parole di un suicida (che però aveva passaporto e soldi).
Il giorno dopo, esattamente 79 anni fa, Ettore Majorana dà nuove notizie di sé, le ultime. Da Palermo riscrive a Carrelli: «il mare mi ha rifiutato» e annuncia il rientro a Napoli. Quando Majorana aveva comunicato l’intenzione di sparire, era riemerso. Ora dice di tornare e invece sparisce. Da quel giorno, molti si sono interrogati sulle sue lettere: i dubbi di un suicida indeciso o una fuga architettata a puntino?
L’INCHIESTA di Leonardo Sciascia su Majorana pubblicata nel 1975 rilancia l’interesse sul caso. Si individuano le piste possibili: la fuga coi nazisti, la crisi mistica, la depressione, la diserzione dalla scienza messa al servizio delle armi. Le ricostruzioni degne di nota si contano sulla punta di una mano perché la scarsità degli indizi allontana gli storici di professione. Oltre a Sciascia, di Majorana si sono occupati soprattutto i fisici. Neanche Giorgio Agamben è storico – ha insegnato filosofia nelle università di mezzo mondo.
LA TEORIA PIÙ RECENTE sulla scomparsa di Majorana è contenuta proprio nel suo ultimo libro, Cos’è il reale? La scomparsa di Majorana (Neri Pozza, pp.78, euro 12,50). Agamben, per la verità, non propone una ricostruzione storica originale. Piuttosto, si concentra sulle motivazioni che indussero il fisico a scomparire. Secondo Agamben, la sparizione fu una sorta di protesta filosofica contro la meccanica quantistica, il campo in cui lo stesso Majorana eccelleva.
Il fisico avrebbe intuito le conseguenze dell’indeterminismo insito nella teoria quantistica. Diversamente dalle leggi di Newton insegnate a scuola, la teoria elaborata da Bohr, Planck, Einstein e i loro colleghi nei primi del Novecento sostiene l’impossibilità di prevedere dove si trovi una particella in un certo istante. Al massimo, si può prevedere la probabilità che la particella si trovi in quel punto. Misurandone la posizione, per altro, si perde la possibilità di conoscere con precisione altre grandezze che caratterizzano il moto della particella – è l’indeterminazione di Heisenberg.
L’INCERTEZZA ASSOCIATA a ogni dato empirico non era, di per sé, un concetto nuovo: qualsiasi strumento di misura, per quanto raffinato, ha una precisione limitata. Ma ciò non contraddiceva la visione deterministica della realtà: l’incertezza nella conoscenza dei fenomeni fisici, che si manifesta con una limitata variabilità statistica, era destinata ad assottigliarsi sempre di più con il miglioramento delle tecnologie.
La meccanica quantistica dava invece un nuovo ruolo all’incertezza: le particelle non erano più rappresentate come punti localizzati, ma come «onde di probabilità». Il lavoro degli scienziati non consisteva nel restringere l’incertezza statistica delle misure negli esperimenti, ma nel prevedere come questa incertezza muti nel tempo. La probabilità, che nella fisica classica misurava la precisione degli strumenti, diventava essa stessa l’oggetto di indagine al livello più profondo.
I fisici erano giunti a questa conclusione sulla base di osservazioni sperimentali inspiegabili nei termini tradizionali, in cui una singola particella poteva trovarsi simultaneamente in più stati. Nella divulgazione dell’epoca, ebbe fortuna l’esempio del «gatto di Schroedinger»: un esperimento mentale in cui, seguendo i principi quantistici, un gatto risulta vivo e morto allo stesso tempo. Il paradosso puntava a dimostrare che le bizzarrie della meccanica quantistica non appartengono solo al mondo microscopico delle particelle, sostanzialmente inaccessibile fuori dai laboratori: sono osservabili anche nei sistemi più complessi con cui abbiamo a che fare quotidianamente.
SECONDO AGAMBEN, Majorana architetta la sua scomparsa per dimostrare che quell’esperimento mentale può davvero realizzarsi: quasi fosse una particella quantistica, tra il 25 il 26 marzo 1938 Majorana riappare e scompare in luoghi diversi simultaneamente. È vivo e morto insieme come il gatto di Schroedinger. Ogni tentativo di ridurre l’incertezza sul caso è destinato a fallire. Questo è il mondo inconoscibile che ci offre la nuova fisica, sostiene Majorana nell’interpretazione di Agamben. Ed è un mondo da rifiutare in blocco, ancor prima di interrogarsi sulle sue ricadute militari.
L’ipotesi  si basa su un saggio dello stesso Majorana, un articolo divulgativo postumo intitolato Il valore delle leggi statistiche nella fisica e nelle scienze sociali, che già aveva interessato Sciascia. In quello scritto, Majorana illustrava il carattere della nuova fisica a un pubblico non esperto: «il risultato di qualunque misura sembra perciò riguardare piuttosto lo stato in cui il sistema viene portato nel corso dell’esperimento stesso, che non quello inconoscibile in cui si trovava prima di essere perturbato».
Agamben vi legge la descrizione di una mutazione genetica avvenuta nella scienza: «la scienza – scrive il filosofo – non cercava più di conoscere la realtà, ma, al pari della statistica nelle scienze sociali, soltanto di intervenire su di essa per governarla».
Già Simone Weil, assai citata da Agamben, aveva rivolto una critica simile alla teoria quantistica. La transizione dalla fisica classica a quella quantistica, secondo Weil, non era giustificata da evidenze empiriche: «Appare chiaramente che ciò che ha introdotto la discontinuità, non è affatto l’esperienza (…) ma unicamente l’uso della nozione di probabilità», scrive la filosofa. «Rinunciando alla necessità e al determinismo in nome della probabilità, la meccanica quantistica aveva, secondo Weil, puramente e semplicemente rinunciato alla scienza», rincara Agamben. D’altronde, «anche Einstein, che aveva dato un contributo decisivo alla teoria dei quanta, mantenne fino all’ultimo delle riserve sulla sua interpretazione esclusivamente in termini probabilistici».
La tesi di Agamben su Majorana, dunque, è suggestiva. Purtroppo, mancano le evidenze storiche a suo supporto. Non è vero, ad esempio, che l’adozione della meccanica quantistica sia stata slegata dall’esperienza. I primi sviluppi della teoria furono motivati dalle anomalie rilevate sperimentalmente nello spettro luminoso emesso dagli oggetti caldi e nell’effetto fotoelettrico, e non furono affatto conseguenze immediate dell’approccio probabilistico alla fisica. «Questa straordinaria teoria è dunque così solidamente fondata nell’esperienza come forse nessun’altra fu mai», scrive lo stesso Majorana in un passo non citato da Agamben. La confutazione più forte alla completezza della teoria quantistica, inoltre, fu pubblicata da Einstein nel 1935.
e Agamben avesse ragione, Majorana avrebbe dovuto interessarsene avidamente. Invece, negli appunti del corso sui fondamenti della teoria quantistica tenuto all’università di Napoli nel 1938 non vi è traccia delle critiche di Einstein.
IL RACCONTO FILOSOFICO della scomparsa di Majorana, dunque, non svela particolari misteri. Che cos’è il reale? va interpretato come una dissertazione sull’impatto filosofico della meccanica quantistica, a cui la vicenda dello scrittore scomparso fornisce solo un po’ di pepe narrativo. Sulla «scomparsa», a 79 anni di distanza, continuiamo a ignorare quasi tutto. Sul piano giudiziario, la vicenda parrebbe conclusa dall’identificazione sudamericana di Majorana nel «signor Bini» fotografato in Venezuela negli anni ’50, ma le «evidenze» a sostegno sono risibili. Un’altra foto celebre lo mostrerebbe sul piroscafo in fuga verso l’Argentina insieme ai gerarchi nazisti. Anche in questo caso l’identificazione basata sul confronto fotografico lascia a desiderare. I risultati più affidabili sono probabilmente quelli ottenuti dai fisici Francesco Guerra e Nadia Robotti che, sulla base di fonti primarie (rapporti di polizia, corrispondenze familiari) hanno stabilito che Majorana sia rimasto in vita dopo la sua scomparsa e che sia morto poco dopo, nel 1939. È l’anno in cui la stessa famiglia istituisce una borsa di studio a suo nome e in cui la polizia interrompe improvvisamente le ricerche, fino a quel momento molto attive. Il caso Majorana, forse, era già stato risolto.
[Andrea Capocci 26/03/2017]

sabato 25 marzo 2017

Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere, Olivier Razac

L’idea di recinzione si incontra con quella di confine che, a sua volta, rimanda a quella di contenimento. In un moderno Stato nazionale contenere implica il selezionare: qualcosa ma, anche e soprattutto, chi possa essere parte della comunità (di popolo, di stirpe, di razza, di «destino»), idea competitiva, nella moderna esperienza della politica, a quella di cittadinanza. Allora, il primo punto da cui partire è la ristampa, arricchita di nuovi suggerimenti di lettura, di un volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere (ombre corte, pp. 158, euro 14). L’autore, maître de conférences in filosofia presso l’Università di Grenoble, ricostruisce letteralmente il reticolo storico del reticolato. Il filo spinato, infatti, non è solo uno strumento materiale per spezzare, dividere, infine separare per sempre i corpi ma anche un dispositivo simbolico che ha un fortissimo impatto sulle coscienze dei contemporanei.
NEL MEDESIMO TEMPO delimita il campo della protezione da quello del rifiuto, l’habitat di ciò che va tutelato dal contesto di quanto deve essere annientato.
Il filo spinato non vale solo per quanti sono trattenuti dentro gli spazi da esso rigidamente contrassegnati ma anche e soprattutto per coloro che lo osservano da fuori, celebrandone in tale modo la sua invalicabilità. Non è quindi un caso se esso compaia, sinistramente, in tre catastrofi della contemporaneità, quasi a volerne definire i lineamenti di fondo: i processi di colonizzazione dello spazio americano, a partire dal superamento della frontiera orientale; la parossistica recinzione dell’interminabile teoria di trincee, disegnata sui campi di battaglia immobili della Prima guerra mondiale; la tragica linea di delimitazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La questione alla quale il filo spinato rimanda da subito è la rottura della linea di continuità, nel diritto alla vita, tra ciò che è considerato umano e quanto, invece, viene ridotto a mero oggetto animato. Olivier Razac ci restituisce quindi il nesso tra controllo dello spazio attraverso la sua interruzione e il legame tra discontinuità e reificazione dell’umanità.
Un percorso parallelo è quello svolto da Götz Aly in Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista, 1939-1945 (Einaudi, Torino 2017, pp. 261, euro 30), laddove la «selezione» delle vite «non degne di essere vissute» è ricostruita dall’autore, docente al Fritz Bauer Institut dell’Università di Francoforte, come percorso di ingegneria sociale e, nel medesimo tempo, manifestazione di rimozione della responsabilità all’atto stesso della sua esecuzione.
L’ASSASSINIO SISTEMATICO di duecentomila cittadini tedeschi, considerati un peso per lo Stato tedesco, perlopiù in ragione della loro condizione psichica, ritenuta irrecuperabile, fu parte integrante del percorso di disintegrazione della varietà umana che stava al nocciolo del progetto nazista. Aly ne ricostruisce i diversi passaggi: l’impostazione politica del «problema» del trattamento degli «incurabili», la dimensione burocratica dell’azione, l’intervento sistematico degli ordini professionali e della sanità pubblica, l’opera di comunicazione con le famiglie, la feroce e infelice dialettica tra abbandono, indifferenza, rimozione ma anche il fatalismo e il pudore che connotarono una parte dei congiunti, le famiglie, in generale il pubblico tedesco. Tra il 1939 e il 1945 una macchina di distruzione collettiva operò attivamente in tal senso, colpendo non solo le vittime ma adoperandosi in un complesso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva.
A VOLERE RIBADIRE un principio fondamentale nella fascistizzazione delle società, dove la repressione e poi l’annientamento delle minoranze, ricondotte in questo caso alla condizione di minorati irrecuperabili, viene pensata e organizzata come strumento riordinativo della maggioranza, quella composta dai «sani». Questi ultimi non sono tali solo perché esenti da degenerazioni ereditarie o da patologie ritenute incurabili, esclusivo onere economico per la collettività, ma per la loro totale adesione ad un corpo collettivo, quello della nazione intesa come comunità di stirpe. Il dispositivo ideologico che sovraintendeva all’Azione T4 era solo uno degli anelli terminali di un ampio processo di radicalizzazione dell’azione biopolitica, portata ai suoi estremi risultati. E ne costituiva quindi la vera essenza.
All’autore non interessa la denuncia morale in sé ma la ricostruzione dei meccanismi che facevano parte di una macchina sterminazionista nel quale l’omicidio di massa veniva presentato dalle autorità pubbliche in quanto atto di «misericordia», coniugato alla necessaria «selezione» dei caratteri positivi della collettività. In altre parole, la morte dell’impuro, e del degenerato, come garanzia di vita dei «migliori».
Aly ci restituisce uno spaccato sia del sistema criminale di Stato sia del mondo delle vittime, molto presenti all’interno delle pagine del suo libro. Si concentra invece sull’ideologia antiebraica il volume di Steven Beller dedicato a L’antisemitismo (il Mulino, pp. 150, euro 13,50). Lo studioso, già Fellow del Peterhouse College di Cambridge e culturalmente attivo nel mondo anglosassone, si cimenta nel lavoro di definire e circoscrivere la cogenza interpretativa, e la funzionalità analitica, delle riflessioni sull’antisemitismo in età contemporanea.
CIÒ FACENDO, davanti alla messe gigantesca di studi così come ai diversi indirizzi interpretativi, Beller cerca di trovare una linea di equilibrio che storicizzi il pregiudizio antisemitico. Il problema, per qualsiasi studioso, al giorno d’oggi, non è infatti il difetto ma, piuttosto, l’eccesso di stimoli euristici. Non di meno, una questione di fondo è se l’esito sterminazionista sia stato in qualche modo già configurato, o comunque implicato, dalle forme precedenti di avversione antigiudaica oppure costituisca una frattura a sé, in quanto tale propria del Novecento.
Le riflessioni dell’autore non offrono risposte conclusive, assestandosi semmai sul versante della rassegna dei diversi contributi. Al riguardo la silloge delle sue riflessioni si raccoglie nell’affermazione per cui: «l’antisemitismo non è più un fenomeno isolato ma piuttosto è sostanzialmente una forma estrema di pensiero esclusivista moderno, con una logica condivisa da fondamentalismi e nazionalismi ».
Per integrare queste e altre considerazioni è anche utile un non meno recente volume del sociologo francese Pierre-André Taguieff, anch’esso intitolato L’antisemitismo (Raffaello Cortina, pp. 139, euro 13). Infine, Luca Peloso, studioso di filosofia, con L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento (ombre corte, pp. 172, euro 15), lavorando sulla comparazione tra Lager nazisti e Gulag staliniani cerca di coinvolgere la riflessione filosofica nell’indagine storica e sociologica.
PIÙ CHE UN INTENTO storiografico l’autore in questo caso cerca di soddisfare alcune esigenze che hanno ad oggetto la narrabilità della prigionia in quelle condizioni estreme, soprattutto se dalla sua memoria derivano esigenze sia di comunicazione pubblica che di pedagogia civile.
La sfida, che rimanda direttamente all’oggi, e quindi ai sistemi analogici che adottiamo nell’interpretare quei passati non meno che alle categorie di razionalizzazione alle quali facciamo ricorso per ricondurre a senso ciò che altrimenti rischia di rimanere un’infinita insensatezza, invita alla rilettura dell’esperienza concentrazionaria attraverso diverse angolazioni disciplinari. Dalle quali, ancora una volta, ne deriva per il lettore il senso della incompiutezza, trattandosi di una storia che letteralmente precipita nel vuoto.
[Claudio Vercelli 25/03/2017]

venerdì 24 marzo 2017

La montagna ci cade addosso, Charles-Ferdinand Ramuz

Antoine ha seguito il vecchio Séraphin, di cui è destinato a prendere il posto, per imparare il duro lavoro con gli animali nelle baite d’alta quota. Ed è qui che una notte qualcosa comincia a scricchiolare nel tetto d’ardesia della baita. Séraphin rassicura però l’amico che sono solo «i diavoletti» che lanciano pietre per allietare e distrarre dalla noia il loro padrone, il diavolo», che «abita lassù, sul ghiacciaio». Era in realtà solo l’inizio di una frana enorme, oltre un milione e mezzo di metri cubi di detriti che seppellirà tutto, uomini, animali e cose.
Sette settimane più tardi, Thérèse che non vuole rassegnarsi alla perdita di Antoine, scorgerà un punto bianco apparire da dietro un cespuglio, «qualcuno che ha sì un corpo d’uomo, ma che non ha più figura d’uomo. Cerca di riconoscerlo, non ci riesce. Si vede che è un uomo o una specie d’uomo che ha una barba, e niente occhi. Ha sì una bocca, ma c’è una voce nella sua bocca? Una cosa nera gli pende in alto sul viso; è quasi nudo con un corpo che ha il colore della pietra, un corpo che è come il corpo dei morti». L’uomo da cui aspetta un figlio è davvero sopravvissuto alla «caduta della montagna» o quello che si trova di fronte è un essere più simile ai diavoletti che popolerebbero le cime secono le leggende popolari?
CAPOLAVORO DIMENTICATO di Charles-Ferdinand Ramuz, scrittore di Losanna attivo nella prima metà del Novecento, La montagna ci cade addosso, uscito negli anni Trenta e ispirato a un fatto realmente accaduto, la frana che nel 1714 si staccò dal monte Diablerets, esce ora in una nuova traduzione di Valeria Lupo per i tipi di Ideafelix (pp. 160, euro 20). Ramuz, considerato da Céline come uno dei pochi autentici autori in lingua francese e apprezzato anche da Paul Claudel, Stefan Zweig e Juan Rulfo dedicò al tema della montagna e alla ricerca di una lingua espressiva che ne esprimesse l’anima, gran parte della sua opera, immeritatamente poco conosciuta dal grande pubblico.
Non è perciò un caso che il suo romanzo compaia nella collana inaugurata da Ideafelix, una piattaforma editoriale che finanzia progetti culturali e laboratori didattici nelle scuole italiane, grazie alla pubblicazione di opere da tempo introvabili, malgrado si tratti di piccole pietre miliari della letteratura internazionale (www.ideafelix.com).
L’OPERA dello scrittore svizzero è il secondo titolo proposto, dopo Studs Lonigan, una storia di formazione ambientata tra gli immigrati irlandesi della Chicago degli anni Dieci, scritto da James T. Farrell, autore che ha potuto vantare tra i suoi estimatori nomi del calibro di Ernest Hemingway, Kurt Vonnegut e Tom Wolfe. Se Studs Lonigan è legato al progetto di finanziamento di «L’alba della meraviglia», un laboratorio didattico che promuove l’incontro tra la filosofia e gli alunni della scuola elementare, La montagna ci cade addosso servirà a finanziare Radio Freccia Azzurra, una web-radio condotta dai bambini delle elementari.
[Guido Caldiron 24/03/2017]

giovedì 23 marzo 2017

Le parole che ci salvano, Eugenio Borgna

Le parole che ci salvano (Einaudi, pp. 248, euro 14) può essere considerato una summa delle riflessioni svolte da Eugenio Borgna sui temi che costituiscono la sua personale forma di resistenza all’arroganza contemporanea: la fragilità, costitutiva della nostra condizione umana; la necessità di parlarsi, in un mondo popolato da una prevalenza di «egolatri» che guardano agli altri soltanto come strumenti utili al perseguimento dei propri fini; la responsabilità; la speranza per un presente migliore.
La gentilezza resistente di Borgna non è mai ignara della fondamentale ambivalenza che pulsa nelle azioni umane, della compresenza di spinte contrastanti, del male che si intrecciaal bene nel passaggio in questo mondo, ma soffia con delicatezza e al tempo stesso con ferma risoluzione sugli aspetti virtuosi spesso messi in ombra dall’avvincente quanto spietato spettacolo della battaglia, del sangue, della sopraffazione, della morte. Non è un caso se il Satana di John Milton ha più impatto di Dio nel Paradiso perduto, se i thriller esercitano una fascinazione così potente sugli spettatori, se nel tourbillon del web un commento acido riscuote più successo di un haiku.
BORGNA È INVECE IL PALADINO delle parole fragili che aprono alla scoperta, alla luce e alla grazia, che accendono relazioni e sono capaci di recare conforto: «le parole rilkiane, che si aprono e si chiudono come ortensie azzurre, le parole leopardiane, nelle loro risonanze così facilmente ferite dalla nostra indifferenza e dalla nostra noncuranza, dalla nostra fretta e dalla nostra disattenzione, le parole ungarettiane che, come allodole accecate da troppa luce, rinascono dal silenzio e dalla discrezione, dalle luci e dalle penombre della vita». E lo è tanto di più nell’epoca presente in cui il nuovo presidente degli Stati Uniti ha una parola a più alta frequenza d’uso negli insulti che rivolge a destra e a manca prendendo a bersaglio chi non si allinea ai suoi comandi: «debole». Un epiteto connotato da un atteggiamento fascista che punta il dito contro la colpa peggiore attribuita dai tiranni: la fragilità, appunto. Per non parlare del culto della forza di Paesi governati da sultani come Erdogan o da zar come Putin, o dell’abitudine sempre più diffusa in Paesi come l’Ungheria di mandare i ragazzini di 11 anni, invece che in una scuola secondaria di primo grado, in convitti paramilitari dove hanno la sveglia alle 5 del mattino e si mette loro in mano un Kalashnikov per «forgiarli».
È CIOÈ ALL’OPERA una campagna di cancellazione delle emozioni, di messa al bando della gentilezza, di ridicolizzazione di tutto ciò che non sia coeso, impermeabile, roccioso, virile, in un rigurgito di insofferenza per le sfumature, la delicatezza, l’imperfezione, per tutto ciò che è diverso da come deve essere.
Sembra impossibile contrastare lo spirito del tempo ma non è così, può risultare certo più arduo, ma le sfide vanno comunque raccolte. Per esempio, si vedono continuamente pessimi videoclip di pop music che ridicolizzano gli anziani ma recentemente ne è comparso uno, Hear Me Now, di Zeeba, Petrillo e Martini, dove si vede un anziano con la malattia di Alzheimer e suo figlio che, riandando al passato con la memoria, recupera aspetti e manifestazioni della loro vita di un tempo per risintonizzare il vecchio padre malato.
E allora, per non rischiare di dover soffocare o dissimulare i tesori di umanità necessariamente imperfetta, leggiamo Borgna e facciamo pace con le nostre istanze più immateriali, più tenui ma più nobili.
[Riccardo Mazzeo 23/03/2017]

martedì 14 marzo 2017

Il capitalismo in un contesto ostile, Arrighi e Fortunata Piselli


Nel cuore degli anni Settanta Giovanni Arrighi, noto a livello mondiale per il suo Il lungo XX secolo (tradotto dal Saggiatore nel 1996), approdò alla nuova Università della Calabria. Aveva alle spalle studi di economia alla Bocconi ed esperienze di ricerca e insegnamento in Africa e a Trento, mai disgiunte dalla partecipazione appassionata ai conflitti sociali e politici del suo tempo. Installatosi nel visionario campus di Arcavacata di Rende, Arrighi raccolse in un seminario informale un gruppo di ricercatori, per proseguire nello scenario calabrese le sue indagini storiche e sociologiche su capitalismo e forza-lavoro.
IL LABORATORIO-CALABRIA, «metafora della periferia», confermò e precisò alcuni assunti che andavano emergendo nell’approccio al sistema mondiale dell’economia lanciato da Immanuel Wallerstein ed altri studiosi.
Da poche settimane Donzelli ha tradotto Il capitalismo in un contesto ostile (pp. 162, euro 19), un lungo saggio pubblicato nel 1987 da Arrighi e da Fortunata Piselli, un’antropologa che aveva partecipato al seminario calabrese e che firma una postfazione sulla Calabria di oggi. Originariamente apparso sulla «Review» del Fernand Braudel Center di Binghamton, fondato dallo stesso Wallerstein nel 1976, ove il sociologo milanese si era trasferito nel 1979, si tratta di uno dei preziosi frutti di quell’esperienza calabrese e rappresenta tuttora un modello per ulteriori studi e approfondimenti. Come riassume efficacemente nella Prefazione un’altra partecipante al seminario, la storica Marta Petrusewicz, si spezzava la relazione necessaria fra l’avvento di rapporti capitalistici di produzione, la proletarizzazione della manodopera e l’ascesa a posizioni «centrali» nel sistema globale: queste tre caratteristiche potevano andare anche disgiunte, così come non vi era un nesso meccanico fra condizione proletaria e mobilità migratoria.
NEL PRIMO OTTOCENTO la Calabria era caratterizzata dal latifondo contadino, ma a metà secolo le formazioni sociali cominciavano a differenziarsi, facendo della regione un agglomerato di modalità produttive, pur accomunate dalla perifericità rispetto ai centri dell’economia globale. Il Crotonese diventò un grande latifondo capitalistico, con alternanza di cereali e allevamento, l’esproprio dei contadini semi-indipendenti e la loro riduzione a braccianti salariati. Il Cosentino vide invece l’ascesa contadina alla piccola proprietà tesa all’autosussistenza, che innescava forma diverse di emigrazione. Nella piana di Gioia Tauro infine il mondo contadino si articolava attorno alla produzione mercantile di agrumi, olio e vino.
PERCHÉ DIVERGEVANO? Congiunture economiche e unificazione nazionale non possono spiegarlo, occorre ricostruire la storia dei contesti ambientali locali («ostili»: malaria, scarsità di comunicazioni, brigantaggio), la loro interazione (ad esempio tramite flussi migratori interni) e l’esito del conflitto sociale che opponeva l’interesse dei proprietari per i nuovi mercati esterni a quello dei coltivatori.
Dopo il 1945, per diverse vie le diverse formazioni del capitalismo periferico ripresero a convergere: attraverso la lotta di classe e la riforma agraria (nel Crotonese), la crisi della piccola produzione (nel Reggino) e l’emigrazione di massa (il Cosentino) si disgregava la centralità agricola. Allo stesso tempo si affermava la mediazione statale e partitica, si diffondevano i consumi e si dilatavano i movimenti verso le fabbriche del Nord, per la peculiare posizione della Calabria, regione di un Paese sospeso fra centro e semiperiferia dell’economia globale.
NON DEVE INGANNARE la natura di «articolo» dello scritto, perché per densità e acutezza vale almeno un voluminoso trattato e non basta una recensione a renderne pienamente conto. Con modestia, Arrighi e Piselli definivano il lavoro uno studio della «formazione di una forza lavoro salariata in un contesto periferico», ma in realtà realizzarono una lezione di metodo per le scienze storico-sociali, delineando un ricchissimo affresco storico del mutamento sociale in un’intera regione, nelle sue relazioni con il contesto nazionale e globale e nel suo prodursi attraverso sempre nuovi conflitti.
[Michele Nani 14/03/2017]

Demoni & Metropoli, Chiara Zanasi

Diffuso in tutte le civiltà, l’inferno riflette i valori delle società che lo hanno immaginato. Nel medioevo europeo la rappresentazione si è arricchita di demoni e diavoli configurando un complesso meccanismo punitivo. In età contemporanea il demonio diventa solamente una figura allegorica, ma la dimensione demoniaca non è scomparsa anche nei suoi tratti più tradizionali. Nel codice di diritto canonico (can. 1172) si afferma che nell’esorcismo «occorre procedere con prudenza, osservando rigorosamente le norme stabilite dalla Chiesa». Ci aiuta a capire cosa significhi nella prassi lo studio di Chiara Zanasi (Demoni & Metropoli, edito da manifestolibri, pp.126, euro 16). Il libro costituisce la sintesi di un lavoro etnografico nell’area metropolitana romana. Il campo della ricerca, durata circa vent’anni, è delimitato dal set rituale di padre Gabriele Amorth, il più famoso degli esorcisti italiani, scomparso nel 2016.

LA BIOGRAFIA di questo personaggio meriterebbe un libro a sé: partigiano bianco nel modenese, giovane democristiano legato al gruppo di Dossetti, poi sacerdote paolino e dal 1986 punto di riferimento degli esorcisti italiani. In tempi recenti si era distinto per la sua «condanna» di Beppino Eglaro in quanto «messaggero del demonio», ma come dimenticare anche l’invettiva contro Harry Potter?
Siamo di fronte a una figura che la Chiesa istituzionale ha tenuto ai margini, costringendolo a operare negli scantinati, senza tuttavia negargli uno spazio di visibilità su Radio Maria. Una personalità pubblica, autore di numerosi libri, che si è attribuito più di 50mila interventi su «indemoniati» provenienti da tutta Italia. Danno un’idea dell’estensione del fenomeno i dati diffusi dall’Osservatorio antiplagio nel report Magia e occultismo del 2016: 35mila gli italiani che ogni giorno si rivolgono a sensitivi, veggenti e guaritori; duemila operatori solo nel Lazio.
LA RICERCA DI ZANASI, limitata ai casi di esorcismo, ci restituisce uno spaccato particolare di un fenomeno radicato. Dei trenta casi presi in esame la maggioranza è composta da donne, spesso giovani e di provenienza urbana, scolarizzate e incluse in ambito lavorativo.
Per quanto riguarda il metodo, il lavoro qui pubblicato è un esempio di ricerca-azione antropologica fortemente partecipata. Inserita come osservatrice nell’équipe che assisteva il «sacerdote», l’autrice racconta nel dettaglio «una teatralizzazione della crisi ormai inimmaginabile negli asettici set psichiatrici». Il rito, che si ripete identico nel tempo, mira a scacciare la presenza del diavolo attraverso la preghiera, ma senza disdegnare l’utilizzo di «pratiche magiche»: dalla scopa fuori dalla porta, alla richiesta di bruciare fotografie e oggetti inquinati dalla fattura.
SE L’EZIOLOGIA GENERALE deriverebbe proprio all’aver praticato magia e occultismo anche in forme giocose, la cura si presenta invece come estremamente dolorosa. Quasi come nel film di Friedkin, gli «indemoniati» piangono, rimettono muco, si mostrano aggressivi e violenti, urlano e addirittura talvolta ululano in trance per poi tornare a uno stadio di normalità alla fine del rito. Pur riconoscendo una valenza culturale a queste manifestazioni, gli psichiatri tendono a collocare la fenomenologia della possessione entro uno spettro di patologie che comprende l’isteria, la schizofrenia, e forme gravi di depressione. Non sfugge, del resto, che la maggioranza dei casi presentati si leghi a storie talvolta drammatiche di disagio familiare, come testimoniano le interviste condotte da Zanasi dentro e fuori dal set.
SONO SOPRATTUTTO I LUTTI più difficili da accettare a condurre i «pazienti» di Amorth ad avvertire il senso di una maledizione. I circuiti culturali del fanatismo religioso con i quali sono già in contatto, o entreranno in contatto magari dopo essersi rivolti senza successo a maghi e guaritori, permettono il passaggio successivo. L’«indemoniato» – racconta l’antropologa – continua spesso a condurre una vita normale, talvolta senza condividere con il mondo esterno ciò che succede negli scantinati dell’esorcista.
Come osserva Roberto De Angelis nell’introduzione, date anche le proporzioni e la quotidianità del fenomeno, il ricorso a maghi ed esorcisti rappresenta oggi una delle forme del ritorno alla religione nelle società occidentali. Si tratta di qualcosa di profondamente radicato nella storia, ma l’«insicurezza dell’esserci», per usare la celebre formula di De Martino, sembra essere diffusa in una società in profonda crisi culturale. Il post-secolarismo è anche una sovrapposizione tra religione e superstizione. Come di fronte a Medjugorje, la Chiesa ha scelto di tenere dentro la contraddizione; per disciplinarla, ma forse anche per non perdere il contatto con una dimensione del religioso che sembra sfuggirle di mano.

lunedì 13 marzo 2017

Anime Baltiche, Jan Brokken

oggi 13 febbraio 2017 ci si trova a casa di Rossella, per discutere e commentare il libro da lei proposto

mercoledì 8 marzo 2017

Buon 8 marzo


Parole e storie. Generazioni di donne allo specchio


La prima nasce a Napoli nei primi anni del secolo, è di buona famiglia, la fanno studiare, ha molte sorelle, alcune vere altre no. Ha il dono della mano: disegna tutto quello che vede. È piccola piccola, come non fosse mai cresciuta, arriva a stento al metro e cinquanta. Delicata nelle membra, concreta nella mente. Accetta in matrimonio un bel giovane calabrese, dai normanni occhi verdi. Poi scoppia la guerra, il marito parte soldato, lei resta sola con tre bambini piccoli, viene spostata in varie località d’Italia, alla fine si rifugia con dei cugini nell’entroterra ligure. Per anni non ha notizie del marito, potrebbe essere morto, evaso, deportato. Ma tiene dritto il timone, fino in fondo. L’uomo torna, fanno un quarto figlio, si trasferiscono nella capitale, la pensione, i nipoti, i gatti, diventa vedova, non smette mai di disegnare, a pastello, a matita, a tempera. Fino all’ultimo giorno. Non ha mai voluto sentir parlare di femminismo, aborriva le trasgressioni dei ’70, umiliava la figlia che ne galoppava le istanze libertarie.
La seconda viene dal nord, scende a Roma solo per sposarsi, subito si sente spaesata ma non lo dice. È una donna molto riservata, tiene sempre gli occhi bassi, crede molto nella religione e nei valori di una buona educazione. È maestra elementare e una fantastica nuotatrice. Presto fa tre figli, primogenito un maschio, come desiderano, all’epoca, tutte le donne e tutte le famiglie come si deve. Il patriarca è soddisfatto. Ma, per carattere, è autoritario, la maltratta, fa solo come pare a lui perché ha i soldi, li ha guadagnati con il sudore della fronte e l’arguzia del cervello, è un self-made man, i soldi sono l’unica cosa che conta. Niente smancerie. Lei sopporta tutto, vede, capisce, riconosce le donne che lui preferisce a lei, ma tace. Ama spasmodicamente il figlio ma le è quasi proibito di farlo, come tante altre cose. Le riesce solo di insegnargli un crawl perfetto e trasmettergli l’amore per la letteratura. È fatta per stare lì ad aspettare il suo re. Da anziana va dal parrucchiere una volta a settimana e torna con una vaporosa chioma celeste che la rende una perfetta fata Turchina. Avrà avuto una vita felice? Non sta a noi dirlo.
La terza ha poco più di cinquant’anni ma i capelli tutti bianchi, dopo un incidente di macchina dove se l’è vista brutta. Non ha avuto figli perché il tempo e la vita le sono scorsi tra le mani senza che se ne accorgesse. Ha lottato tanto, non ha mai smesso di lottare, lotta ancora. È il suo modo di restare a galla, di pensare agli altri. Insieme ad altre donne ha messo su luoghi di incontro, collettivi politici, consultori gratuiti. Ha lavorato per la città, per tutte le donne. Ha abortito due volte, la prima da ragazza, volontariamente, la seconda che aveva superato i quaranta e il corpo non ha voluto. È buona ma non buonista, perdona ma non si lascia infinocchiare. È sola ma non ci si sente. Ogni tanto torna in paese a trovare la madre. Le porta la marmellata di arance amare, forse l’unica cosa che hanno in comune, l’unica trasmessa di madre in figlia. Resta quel tanto che basta. Quando si affacciano le recriminazioni scappa. Dice: «Mamma, devo andare, mi aspettano». «Chi ti aspetta, chi? Ti sei tenuta un uomo per una volta?». Lei non risponde, è già oltre l’uscio. Le manda un bacio da lontano, estremizzando il gesto del braccio. A casa, in automatico, accende la televisione per procurarsi una sonnolenza fittizia. Vede donne-gatto, donne-panda, donne-galline. Non le giudica ma la confondono: ha vissuto anche lei la menopausa ma senza mai pensare di ridursi in quel modo. Parlano a vuoto di politica, di maquillage, di osteoporosi senza soluzione di continuità. La vacuità degli argomenti la conduce nel magico mondo dei sogni. Buonanotte. Domani è l’otto marzo, domani è un altro giorno, si vedrà. Tre donne.
[Fabiana Sargentini 08/03/2017]

domenica 5 marzo 2017

Stanza con vista sul muro: Banksy tra arte e politica

Una signora porta una pianta, suo marito saluta cordialmente il manager dell’hotel, Wassim Salsaa, che dispensa il benvenuto agli invitati che accedono al “The Walled Off Hotel”, l’hotel dello street artist britannico Banksy.
Tutti sorridono lasciandosi alle spalle i lastroni di cemento armato, decorati con slogan politici, manifesti, imprecazioni e frasi di speranza, che compongono questa sezione del Muro israeliano che circonda Betlemme.
Proprio all’ingresso, una nicchia ricorda Lord Balfour mentre nel 1917 promette la Palestina al popolo ebraico. Nella hall di stile vario, con alle pareti riproduzioni e originali di opere di Banksy, tra le decine di persone presenti gira una domanda: mescolato tra di noi c’è anche il famoso graffitaro?
La lente di ingrandimento è su un paio di uomini, alti e con uno spiccato accento british. Ma il mistero resterà irrisolto per tutta la sera. Banksy sa custodire il suo anonimato e i suoi collaboratori palestinesi hanno lavorato per oltre un anno all’hotel lontano dagli occhi dei media.
Al secondo piano, in una sala ampia e ben illuminata, sono esposti i lavori di pittori palestinesi: Tayseer Barakat, Khaled Hourani, Slyman Mansour e altri ancora. Alcuni di loro sono giù nella hall. Poi comincia un breve intrattenimento artistico, utile a spiegare il “The Walled off Hotel”.
Ad un certo punto, su di uno schermo, appare Elton John live da Los Angeles. Wassim Salsaa sostiene che il cantante britannico si esibisce anche in onore di questo piccolo albergo in Palestina. Scattano gli applausi.
Eppure le attrazioni della serata restano la stanza decorata dallo stesso Banksy e il murales che ritrae un palestinese e un poliziotto israeliano che si prendono a cuscinate.
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Una delle stanze dell’hotel di Banksy a Betlemme (Foto: Reuters)
Si provano sentimenti contrastanti girando per questo hotel che, come ha ripetuto Wassim Salsaa in questi giorni, «ha la vista più brutta del mondo». Come dargli torto. I lastroni del Muro sono a pochi metri dalle finestre del “The Walled Off Hotel”.
Inevitabile porsi degli interrogativi. Questo albergo è una iniziativa artistica o commerciale? Ha un significato politico o è figlio di quella superficialità occidentale che sempre più spesso avvolge la questione palestinese? È una denuncia sincera della barriera israeliana o proprio quei lastroni di cemento finiscono per renderlo trendy?
Probabilmente è tutto questo e anche altro, con gli amministratori palestinesi che appaiono un po’ meno interessati ai contenuti rispetto allo stesso Banksy che a Betlemme ha donato la sua guerrilla art per condannare l’orrore del Muro.
Lo street artist un paio d’anni fa è stato anche a Gaza, per lasciare i suoi graffiti sui ruderi delle case abbattute dai raid israeliani. E non passa inosservato, accanto all’hotel, il negozio dove è possibile acquistare magliette, poster, souvenir con le immagini dei lavori del graffitaro iconoclasta.
Si dice che l’hotel voglia favorire il dialogo fra israeliani e palestinesi e riportare i riflettori su Betlemme, la città della Natività che, soffocata dal Muro, non riesce a sfruttare il suo potenziale turistico e le capacità dei suoi noti artigiani del legno d’olivo.
Sarebbe già tanto se riuscisse a persuadere i giornalisti italiani a non definire il Muro che divide Betlemme da Gerusalemme e dalle campagne circostanti, sempre e soltanto come una «barriera anti-terroristi» e a considerare quanta terra questa “opera” ha sottratto alla Cisgiordania per annetterla di fatto a Israele e i danni che ha causato a decine di migliaia di palestinesi, specie gli agricoltori, spesso riducendoli alla fame.
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L’interno dell’albergo dell’artista di strada britannico (Foto: Reuters)
Gli abitanti di Betlemme non hanno un giudizio unico del “The Walled Off Hotel”. Molti lo apprezzano, altri alzano le spalle, altri ancora lo ignorano. A Banksy comunque tutti i palestinesi dovranno dire grazie per aver riportato attenzione sul Muro.
Quei 700 km di cemento e reticolati che dal 2002, come un serpente, si incuneano nella Cisgiordania restano per i palestinesi il jidar al fasl al unsuri, il muro della separazione razziale. Ormai non se ne parla più, non fanno più notizia le manifestazioni settimanali che a Bi’lin e in altri villaggi contro quel mostro di cemento.
Negli anni passati, oltre a Banksy, altri artisti, come Roger Waters dei Pink Floyd, hanno denunciato il Muro. Poi più nulla o quasi.
Ed è caduto nell’oblio il parere emesso il 9 luglio 2004 dalla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia: «L’edificazione del Muro che Israele, potenza occupante, è in procinto di costruire nel territorio palestinese occupato, ivi compreso l’interno e intorno a Gerusalemme Est, e il regime che gli è associato, sono contrari al diritto internazionale». Nel 2017 un piccolo hotel e un artista di strada riaprono il caso.
[Michele Giorgio 05/03/2017]

sabato 4 marzo 2017

Biancaneve e i sette maghi

Nel 1812 viene pubblicata nella raccolta Kinder und Hausmärchen (Fiabe dei bambini e del focolare), a cura dei fratelli Grimm, la storia di Biancaneve ed i Sette Nani. La trama è nota: la mamma della bambina muore dandola alla luce ed il padre si risposa con una donna malvagia, una vera e propria strega che vuole ucciderla. In altre versioni, decisamente più “psicoanalitiche” e gotiche, è la mamma stessa che impazzisce di gelosia di fronte alla bellezza della figlia e la vuole morta. Fatto sta che dopo ben due tentativi andati a vuoto, oltre che assoldando un killer che però ha il cuore tenero, la madre/matrigna riuscirà a darle una mela avvelenata che la fa sprofondare in un sonno di morte.
La bara di cristallo
E allora dorme Biancaneve nella sua teca di purissimo cristallo: la pelle bianca come la neve e le guance rosse come il sangue sono incorniciate dai capelli, neri come l’ebano. Così la volle sua mamma (è questo desiderio eugenetico che la farà impazzire?) prima che lei nascesse. Ed ora la bella ragazza sembra morta anche se il suo aspetto resta splendido e incorrotto.
Eppure sino a quell’infausto incontro con la strega la vita era scorsa tranquilla nella casetta del bosco, dove la bambina inseguita dal male aveva trovata finalmente rifugio presso i Sette Nani. Ma la madre/matrigna cattiva, grazie allo specchio fatato, aveva scoperto che la ragazza era viva e in salute. Travestitasi da vecchia venditrice, allora, si era presentata alla casa dei Nani e per ben due volte aveva cercato di uccidere Biancaneve, prima stringendole una cintura in vita fino a toglierle il respiro, poi facendole passare tra i capelli un pettine avvelenato.
In entrambi i casi, però, la giovane si era salvata grazie all’intervento dei Nani, che riescono a rianimarla con le loro arti di guaritori. Ma, purtroppo, il terzo tentativo andrà a segno: una mela avvelenata verrà mangiata da Biancaneve che cadrà in catalessi tanto profondamente da farla apparire morta. E così i Nani si preparano a seppellirla; però il tempo passa e lei è sempre tanto bella… sarà anche per via della triade cromatica, nero bianco e rosso, che individua le varie fasi dell’Opera alchemica? Chissà.
E così, affinché la terra bruna non reclami quel corpo in animazione sospesa, viene costruita questa meravigliosa teca di cristallo che permetterà di vegliare la bella ragazza, se necessario sino al risveglio. Il suo sacello è dunque un manufatto che certamente ha del magico: non è facile tenere insieme delle lastre di cristallo e farle rimanere così trasparenti ed ermetiche per «tanto tanto tempo», come ci dice la favola del sonno di Biancaneve.
Ma chi l’ha costruita questa meraviglia? E come? Certamente sono stati i Nani: i Sette Nani amici e protettori di Biancaneve; abili artigiani e minatori, conoscitori degli antichi segreti che giacciono nella profondità della terra, scavatori di gemme preziose, sono anche fabbri provetti, signori incontrastati della metallurgia e soffiatori di vetro, dominatori del fuoco che plasma i metalli e ne fonde insieme le parti.
Ma chi sono veramente i Sette Nani, da dove vengono? Sappiamo bene che Walt Disney era un visionario che traeva le sue creature dalla letteratura per ragazzi ma, al tempo stesso, la sua appartenenza massonica ne facevano di fatto un iniziato a contatto con molti degli aspetti della Tradizione. Ancora si narra della sua ibernazione nelle viscere di Disneyland in attesa del risveglio (come Biancaneve e la Bella nel bosco addormentato?).
Per questo, se alcuni dei suoi personaggi sono rivisitazioni di protagonisti delle favole classiche, Peter Pan con la sua ninfa Wendy, la Bella nel bosco addormentato (questo è il titolo originario) e Biancaneve appunto, altrettanti deuteragonisti sono invece scelti perché vengono da molto più lontano, perché il loro essere emana ancora l’aura delle origini, del divino. E spesso questa deriva dalla Grecia arcaica sospesa tra mito e magia: è il caso dei nostri Sette Nani.
Lasciando da parte le evidenze numerologiche legate al sette, sulle quali non ci addentriamo perché sin troppo palesi , cerchiamo invece di risalire ai loro antenati, ai loro ascendenti mitologici: se ne studiamo le caratteristiche arriviamo chiaramente a collocarli all’interno della cosmologia della Grecia omerica.
I Telchini di Rodi
Loro sono, infatti, la trasposizione moderna, colorata e gioiosa, degli assistenti di Efeso, il dio fabbro che forniva agli dei gli strumenti del potere o delle loro gesta. Sono i Telchini di Rodi, esseri che la mitografia ci descrive come naniformi, dalle fattezze deformi, come del resto lo era il loro padrone e mentore, capaci di fulminare con lo sguardo o «gettare il malocchio» su quanti si opponevano al loro volere, ma anche di produrre, agli ordini di Efeso, dei manufatti unici e favolosi, dotati di una potenza magica ineguagliabile persino dagli dei stessi.
La loro nascita è antichissima: avrebbero addirittura inventato la falce usata da Crono per evirare il padre Urano, forgiato il primo tridente di Poseidone, ci narrano Diodoro Siculo e Svetonio (Περὶ βλασφημιῶν 4, 49). Si tramanda che in origine, prima di diventare sette, fossero tre, chiamati Oro, Argento e Bronzo, in ricordo del materiale scoperto da ciascuno e che furono infine disarmati dalla pioggia di Zeus o dalle frecce di Apollo.
Una prima ricostruzione etimologica del loro nome viene da Svetonio, che tramanda un altro appellativo diffuso per indicare queste creature, Thelgines, che deriverebbe dal verbo greco θέλγω, “incantare, ammaliare”, con riferimento alla loro natura stregonesca. In effetti si è evidenziato lo stretto legame esistente tra i Telchini e le Sirene, altre creature magiche e pericolose. (Cfr. D. Musti, I Telchini, le Sirene. Immaginario mediterraneo e letteratura da Omero a Callimaco al romanticismo europeo, Pisa 1999).
Ma i loro manufatti magici di eccezionale valore e potenza non si limitano certo al tridente di Poseidone o al falcetto che evirò Urano, dal cui membro caduto nelle acque, non lo scordiamo, nacque in seguito Afrodite, dato che afros significa non solo spuma ma anche sperma. E allora vediamone alcuni.
Demetra e Atena
Il mito narra che Demetra donò a Trittolemo, figlio di Celeo re di Eleusi, il segreto del grano per fare il pane, così come Dioniso diede a Icario quello del vino. Ma Atena, la dea guerriera, nata già in armi dalla testa del Padre Zeus, non volle essere da meno ed insegnò all’umanità come arare la terra con l’aratro per rendere il chicco di grano fecondo.
Atena dunque – dea della saggezza e patrona degli eroi guerrieri ma non della guerra, governata dall’ottuso e brutale Ares – domanda ad Efeso di forgiare il primo aratro. E così il fabbro divino inventa lo strumento col quale ella potrà donare agli agricoltori la prima e basilare tecnologia per dominare i prodotti della terra.
Ma, narra Servio nel suo Commentario dell’Eneide, che in Attica viveva un tempo una fanciulla di nome Murmix. Atena la teneva in grande amicizia perché era vergine come lei ed aveva una grande abilità manuale. Ma un giorno l’amicizia cedette il posto all’odio, come spesso accade nelle relazioni ineguali tra dei e uomini. Ecco perché: Murmix, che era al corrente dell’invenzione di Atena, l’aratro, ebbe l’audacia di rubarne il manico e si recò presso gli uomini dichiarando che esso era il pezzo mancante che avrebbe permesso loro di coltivare con perizia la terra.
La vendetta di Atena non si fece attendere: i Telchini si incaricarono di recuperare il manico e di fissarlo nuovamente all’aratro, mentre Murmix veniva trasformata in formica, condannata a vivere rubando di quando in quando un chicco di grano.
Atena deve dunque questo ruolo di «divinità tecnologica» ad Efeso ed ai suoi assistenti Nani ma, come sappiamo, in realtà deve loro molto di più: la sua stessa nascita.
La sua genesi, infatti, è tutta legata all’abilità di Efeso, anche se la relazione tra le due divinità non viene abbastanza illuminata di quella luce mitologica che, invece, tanto potrebbe ancora insegnarci. La dea è figlia di Zeus e della sua prima moglie Metis, una Titanide nata da Oceano e Teti. Metis è la divinità dell’intelligenza accorta, dell’astuzia, della capacità di valutare a colpo d’occhio una situazione, della strategia bellica. Sul piano umano l’eroe della metis è indubbiamente Ulisse, non a caso sempre protetto ed aiutato da Atena.
E così quando Metis resta in cinta di Zeus egli, ci racconta Esiodo nella sua Teogonia, semplicemente la inghiotte, perché?
Ebbene il futuro re degli dei sapeva bene che la stessa sorte che lui aveva inflitto al padre Crono poteva toccare a lui se gli fosse nato un erede abbastanza intelligente, astuto e indipendente da prendere il suo posto. Decide così di assimilare la dea dell’astuzia e di partorirne personalmente la figlia, legandola così a sé. Atena, infatti, sarà sempre legatissima al padre, arrivando a disprezzare le donne comuni ed anche le altre divinità femminili.
Ma chi farà “partorire” Zeus? Sarà appunto Efeso, forgiando prima di tutto una particolare ascia di bronzo e poi utilizzandola a colpo sicuro per spaccare in due la testa del cronide per farne uscire la figlia. Anche in questa occasione chirurgico ostetrica, saranno i suoi Nani a cercare i metalli nelle viscere della terra per creare uno strumento così potente, si badi bene, da fessurare il cranio del re degli dei.
Se pensiamo, allora, non solo a quanta abilità tecnica ci vuole per un manufatto del genere, ma a quanta potenza magica, superiore finanche alla forza divina, per farlo funzionare, capiamo che le figure “minori” che si muovono sullo sfondo delle narrazioni spesso rappresentano in realtà le Potenza archetipiche che rendono perenne la mitologia stessa.
Avrebbe trionfato Achille, pur nella sua fine tragica, come eroe indiscusso dell’Iliade, senza le famose armi? Cosa sarebbe stata la mitica figura se la madre Teti non fosse andata da Efeso a chiedergli di forgiarle? E senza i Nani dove avrebbe preso il metallo la particolare tonalità lucente che lo ha reso terribile, se questi non avessero infuso in esso la loro sapienza magica?
Si dice che le armi di Achille gettassero uno «sguardo penetrante» sui nemici; ebbene chi ha dato questo sguardo alle bronzee ermi del pelide se non i Telchini che possedevano il potere dello sguardo incantatore?
Tutto ciò deve farci riflettere su come la mitologia possa essere riletta, perché la nostra interpretazione è ancora decisamente superficiale, legata agli effetti ma lontana dall’indagare gli archetipi che li hanno determinati.
Bellerofonte e Pegaso
Un altro eroe che non avrebbe potuto compiere la sua impresa senza i Telchini è Bellerofonte. Sappiamo che il suo scopo era combattere ed annientare la Chimera, il mitico animale dalle diverse nature.
«Era il mostro di origine divina, leone la testa, il petto capra, e drago la coda; e dalla bocca orrende vampe vomitava di foco: e nondimeno, col favor degli Dei, l’eroe la spense» (Iliade, VI, 180-184).
Sappiamo che il mostro devastava il territorio di Patara e che il re di Licia Lobate ordinò a Bellerofonte di ucciderlo.
Ora solo l’aiuto di una animale possente ed indomabile poteva aiutare l’eroe nell’impresa: il cavallo alato Pegaso. Nato dal sangue della Gorgona Medusa, il cui capo era stato mozzato da Perseo, il mitico destriero non si faceva imbrigliare da nessuno.
E allora, ancora una volta, entrano in gioco i Telchini, i Nani magici che diventeranno poi i protettori di Biancaneve. Sono loro, infatti, a fornire ad Atena il morso dorato che permetterà a Bellerofonte di governare la sua cavalcatura e portare a compimento l’impresa.
Senza il magico morso da loro forgiato nessuno avrebbe potuto costringere il cavallo alato ad essere cavalcato e guidato.
E qui entra in gioco un altro particolare della storia di questi Nani assistenti di Efeso, e cioè il loro aspetto fisico. Abbiamo detto che sono naniformi e che somigliano anche in parte al loro padrone, che notoriamente aveva i piedi storti per via della caduta dall’Olimpo. Ma la deformità, specie se mitologica, ha sempre un significato emblematico ed a volte ambivalente; in questo caso la capacità dei Telchini di poter frequentare gli abissi marini in quanto metamorfici e dunque, all’occorrenza, dotati di pinne e chele.
Qui il parallelo tra i Nani di Biancaneve, Efeso ed i Telchini si arricchisce di interessanti particolari. Ad un certo punto della favola raccolta dai Fratelli Grimm, in una delle sue tante versioni, si descrivono i Nani come uniti ai loro strumenti di lavoro da un legame particolare, quasi simbiotico, come se questi fossero «prolungamenti dei loro stessi arti».
Ebbene i Telchini – ci dice H. Herter che nel suo splendido libro monografico Telchinen riporta l’opinione di Diodoro siculo e di Nonno di Panopoli nelle Dionisiache – hanno alla bisogna sia pinne per immergersi in mare, come le foche, o addirittura vere e proprie chele come i granchi, che consentono loro sia di scendere nelle profondità marine sia di estrarne materiale che si trova solo nelle caverne subacquee. Queste loro caratteristiche, dunque, al di là della deformità, come i Sette Nani di Biancaneve, li rendono però speciali e specificamente adatti a compiere lavori altrimenti impossibili.
Non dimentichiamoci che anche Efeso era descritto con i «piedi da granchio» cioè storti kullopodÍon.
Come ci ricorda M. Detienne nel suo Le astuzie dell’intelligenza nella Grecia antica, i granchi venivano stimati in grandissima considerazione, specie a Rodi, dato che essi venivano ritenuti quelli che ancoravano l‘isola al fondale marino. A Lemno, invece, altra isola, l’epiteto karkÍnon indicava sia la chela del granchio sia le tenaglie del fabbro, chiudendo così in cerchio analogico tra i Telchini ed Efeso.
Altro particolare mitologico interessante, diremmo quasi lamarckiano, cioè dove è l’organo a fare la funzione, i piedi del fabbro erano adattissimi, per questa loro deformazione granchiforme, a muoversi di lato così da consentirgli di passare da un mantice all’altro velocemente. Anche in tedesco esiste l’espressione krebsgang, usata da Hegel, che significa appunto camminare di lato come un granchio.
Le scarpe della matrigna
Ma torniamo, infine alla nostra Biancaneve. La sua bara trasparente, ad un certo punto, si aprirà dopo una caduta, senza rompersi, e la bella ragazza verrà liberata dalla mela avvelenata che le era rimasta nella gola. Ancora una volta l’abilità dei Nani si rivela fondamentale anche perché, non lo dimentichiamo, l’avevano già salvata altre due volte, sempre mercé le loro arti magiche.
Ma il ruolo metallurgico, ed a questo punto anche vendicativo dei Nani-Telchini, non finisce certo con il risveglio di Biancaneve. Ed infatti sappiamo come finisce la fiaba, almeno nelle versioni originali raccolte dai Grimm: la matrigna cattiva è costretta ad indossare per il ballo del matrimonio un paio di scarpe arroventate che la costringono a ballare sino a che non cadrà morta in terra… indovinate un poco chi le ha forgiate?
[ Raffaele K. Salinari 04/03/2017]

mercoledì 1 marzo 2017

Il mare traverso, Antonio Rolli

Ci vuole un po’ per mettere a fuoco quel richiamo distante ma preciso che evoca lo smilzo e denso libro di Antonio Rolli Il mare traverso (Besa Editore, pp. 81, euro 12). Quando lo si coglie, si rischia lo stupore scoprendo che non è un altro libro ma un disco, Creuza de mà, capolavoro di Fabrizio De Andrè e Mauro Pagani. Proprio come in quell’insuperato cd, nel libro di Rolli si respira dalla prima all’ultima riga l’atmosfera del Mediterraneo: i suoi colori, la sua gente, in questo caso quella del Salento, e persino i suoi sapori ma ancora prima la cultura meticcia e incrociata che del Mediterraneo è l’anima.
MARE CHE È COME LA VITA ma sul quale grava l’ombra della morte, dei barconi rovesciati, dei migranti annegati, dei trafficanti di carne umana che ci si riempiono il portafogli e dei mercanti di terrore che ci fanno il pieno di voti. In questa storia che somiglia a un apologo Rolli, giornalista già collaboratore del manifesto ora alla sua prima prova come scrittore, parla di entrambi, il mare di morte e quello da cui viene la vita. Come il suo protagonista, l’autore è consapevole di quanto oggi prevalgano i nuvoloni carichi di disgrazia, ma sceglie di denunciare quel che manca al mondo di oggi per una via opposta a quella abituale. Invece che soffermarsi sulla miseria del presente, sull’egoismo e la chiusura, sulla paura che produce paura e induce odio, volge la narrazione in positivo: svela il meglio per inchiodare il peggio.
Il meglio, in questo caso, è Giuseppe, un libraio del Salento che ama le pagine stampate quanto le onde e sa che tra gli uni e le altre non passa troppa differenza. Quando Francesca, una ragazza come tante ma a differenza di tante innamorata di un profugo siriano cieco, Nisrim, gli chiede di mettere in mare il suo peschereccio per accompagnarla a prendere l’innamorato a Creta, Giuseppe non esita. Anche se presagisce che il viaggio sarà più pericoloso di quanto non prometta, che non dovrà mettere in gioco solo qualche ora di viaggio imprevisto in acque di cui conosce ogni segreto.
NISRIM si è preparato un viaggio se non di tutto riposo almeno tale da ridurre al minimo i pericoli. Niente barconi per lui, nessuna traversata ad alto rischio di annegamento. Ma il destino ci si mette di mezzo e per complicare le cose sceglie le forme di Hanan, una bimba che si ritrova sola nella barca destinata a seguire una rotta inversa a quella immaginata da Nisrim: quella più pericolosa. I destini del libraio salentino, del profugo siriano e della piccola curda si incroceranno così in modo ben diverso da quello immaginato da Francesca nel pieno di un terribile tempesta.
Rolli non è tanto ingenuo da fingere che fare le cose giuste sia gratuito. Sa che ci vuole coraggio e che il prezzo della generosità può essere salato. Ma sa anche che quel che se ne ricava vale anche di più. Giuseppe, come Nisrim, viaggiano controcorrente rispetto all’egoismo del mondo non solo per senso del dovere e generosità d’animo ma perché sono consapevoli che senza generosità e coraggio la vita si riduce a miserevole sopravvivenza. Il rischio vale la candela.
Nel passaggio più emblematico del romanzo, in una scena surreale che non sarebbe dispiaciuta a Jorge Amado, i profughi, abbandonati ai flutti dai trafficanti in fuga imbracciano tutti gli strumenti e improvvisano un concerto contro gli elementi scatenati che li assediano, per contrappore fede nella vita alla morte che li circonda.
[1/03/2017 Andrea Colombo]