martedì 28 febbraio 2017

Oscar. colpo di scena finale, vince «Moonlight»


Improvvisa confusione sul palco, sguardi straniti, ringraziamenti interrotti a metà, repentino cambio di mano della statuetta – «non è uno scherzo!»-, Damien Chazelle che abbraccia Barry Jenkins, Warren Beatty che sorride imbarazzato, Faye Dunaway, confusissima, che cerca di svignarsela…Mentre a casa, nei vari Oscar party, la gente si stava già rimettendo il cappotto per andare a dormire dopo quasi quattro ore di diretta tv, il colpo di scena con cui si è concluso l’ottantanovesimo Academy Award è stato così sorprendente che il genio della suspense dell’ultimo minuto, M. Night Shyamalan, dice via Twitter di averlo scritto lui (li abbiamo proprio messi nel sacco #jimmykimmel!).
Altri hanno evocato lo scarto tra voto popolare e collegio elettorale che ha consegnato la Casa bianca a Donald Trump. Entro poche ore, Pricewaterhouse Coopers, l’accounting firm responsabile della gestione dei premi, aveva rilasciato un desolato comunicato di scuse, promettendo: «Un’inchiesta». Ma la gaffe storica per cui, davanti alle bocche letteralmente spalancate dei presenti in sala, causa uno scambio di buste, La La Land è stato per sette minuti il vincitore dell’Oscar di miglior film, per poi essere soppiantato da Moonlight, era già stata rimediata, in diretta, sul posto. In gran parte grazie alla classe e alla presenza di spirito dei vincitori e dei vinti (è stato il produttore di La La Land, Jordan Horowitz, a chiamare sul palco il gruppo di Moonlight mostrando alle telecamere il cartoncino che diceva «Best film: Moonlight»), di Beatty (che si è prestato di buon gioco a far da capro espiatorio) e del cool presentatore della serata, Jimmy Kimmel.
«Questo non mi sembrerebbe possibile nemmeno in un sogno. Ma al diavolo i sogni: è vero!», ha detto nel trambusto generale Barry Jenkins, il cui film ha vinto anche il premio di miglior sceneggiatura non originale e quello di miglior attore non protagonista, per Mahershala Ali. Dopo aver gentilmente sgombrato il palcoscenico per fargli posto, il team di La La Land se ne è andato a casa con sei Oscar (su quattordici nomination) – miglior regia per Damien Chazelle, miglior attrice protagonista Emma Stone, miglior fotografia, miglior canzone originale, miglior colonna sonora e miglior scenografia. A Casey Affleck la statuetta di miglior protagonista (peccato per Denzel Washington, che aveva le lacrime agli occhi, sia quando ha perso contro Affleck, sia quando ha visto vincere la sua co star in Barriere, Viola Davis) e a Kenneth Lonergan quella di miglior sceneggiatura originale. Il film è Manchester by the Sea, terzo «favorito» dell’anno. Tra i documentari, O.J: Made in America ha battuto Fuocoammare, di Rosi e I Am Not Your Negro di Raoul Peck. Nominati in più categorie, Arrival e Hacksaw Ridge hanno avuto premi tecnici – miglior sonoro, e miglior montaggio e mix sonoro.
Qualcuno dovrà poi spiegare come la foto della produttrice australiana Jan Chapman, che è viva e vegeta, abbia sostituito (nel segmento in memoriam) quella della costumista Janet Patterson, mancata l’ottobre scorso. Ma equivoci a parte – e comunque sono anche un po’ il bello della diretta – la cerimonia, prodotta da Michael de Luca, è stata una delle migliori degli ultimi anni. Set più moderni ed eleganti, tono più asciutto, meno liste di nomi che non dicono niente a nessuno nei ringraziamenti e sotteso, nell’abituale atmosfera di complicità e autocongratulazione in cui sguazza il rito annuale che celebra le punte dell’industria, anche un certo senso di urgenza e di disciplina.
Trasmesso in mondovisione in centinaia di paesi (nelle parole di Kimmel, «che adesso ci odiano tutti»), l’Oscar 2017 non poteva non tenere conto di un occupante della Casa bianca che ha attaccato Hollywood, i suoi valori e il suo immaginario, come il riflesso di un’élite sul viale del tramonto. «Dosare» Trump nell’interminabile cerimonia era una sfida. La soluzione light, poco sentenziosa, adottata da Kimmell, dall’Academy e dai premiati, è stata vincente. Prediche e pistolotti ridotti al minimo, o lasciati a uscite spontanee come quella di Gael Garcia Bernal che, presentando il vincitore di miglior film animato, Zootropia, è passato, in un volo pindarico, dagli animali del film, a definirsi: «un lavoratore migrante e un essere umano, contro tutti i muri che ci separano».
Efficace anche l’assenza di Asghar Farhadi, vincitore del miglior film straniero che, disertata la cerimonia in segno di protesta contro il travel band, ha invece mandato una lettera. Ma, eccettuati un paio di colpi ben messi a segno da Kimmel (che ha ringraziato il presidente perché: «Vi ricordate quando l’anno scorso si diceva che Hollywood è razzista?»), il nome di Trump è stato sostanzialmente assente dalla serata. Cosa che avrà sicuramente urtato il fragile ego di #45. L’idea era di risponder(gli) con il cinema.
[Giulia D'Agnolo Vallan 28/02/2017]

martedì 21 febbraio 2017

sabato 11 febbraio 2017

Piccolo Paese, Gaël Faye

Una storia che ha cominciato a raccontare dapprima attraverso il rap, con lo splendido Pili pili sur un croissant de beurre, un album uscito nel 2013 e a lungo in testa alle classifiche francesi,

e ora con Piccolo Paese (Bompiani, pp. 224, euro 17) un intenso romanzo di formazione già vincitore del Prix Goncourt des Lycéens lo scorso anno.
Quella di Gaël Faye, nato in Burundi nel 1982 da madre ruandese e padre francese, fuggito nel 1995 allo scoppio della guerra civile in Rwanda, dove la famiglia materna, tutsi, ha subito lutti e sofferenze terribili, e cresciuto nella banlieue parigina dove ha scoperto la cultura hip-hop, collaborando con alcuni dei più noti musicisti della scena locale, è prima di tutto la storia di una ricerca. Il tentativo di preservare quel mondo interiore dell’infanzia, prima che il genocidio ruandese travolgesse ogni cosa, in cui bambini di ogni origine crescevano insieme. Un mondo che Faye ha trasformato nella metafora stessa della convivenza e dell’incontro e che, nel suo romanzo, pensato come una tappa successiva della scrittura musicale, ha il volto del piccolo Gaby, della sua famiglia e della sua banda di amici di strada nel quartiere benestante della città burundese di Bujumbura. Quello il punto di partenza attraverso il quale lo scrittore e musicista si è trasformato in un testimone attento della realtà francese e africana.
Lei è vissuto a lungo nella banlieue parigina delle Yvelines, come valuta ciò che sta accadendo in questi giorni nelle periferie e più in generale la deriva identitaria e xenofoba che sembra caratterizzare il paese?
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A monte di tutta questa situazione, credo ci sia prima di tutto il fatto che la Francia continui a non voler fare i conti con la crisi di ciò che oggi si definisce con il termine più politicamente corretto di «integrazione» ma che è stato a lungo indicato tout-court come una brutale «assimilazione». Vale a dire il processo per cui delle persone arrivate da altri paesi, spesso da nazioni che hanno fatto parte dell’impero coloniale o dell’area di influenza internazionale di Parigi, anche dopo che vivono da anni qui, hanno acquisito la cittadinanza, hanno messo radici stabili, hanno visto i loro figli e nipoti nascere, crescere e diventare grandi come francesi, sentono ancora di essere considerati come «altri»: degli stranieri a vita in quello che è diventato nel frattempo il loro stesso paese.
In questo senso, le forme più evidenti di discriminazione e razzismo celano una realtà ancor più estesa?
Gran parte della classe politica e di coloro che decidono delle regole generali della società, sembra non riuscire neppure a immaginare che si possa essere francese e musulmano, o essere nero e di origine africana ma nato e cresciuto a Parigi. E questo malgrado il volto autentico della Francia sia tale da ormai moltissimi anni. Il mito di un paese bianco e cristiano continua a trovare eco nel dibattito pubblico, senza contare le forze politiche come il Front National che vi fanno esplicito riferimento. Ed è proprio la costante tensione tra questo mito di un’identità bianca immutabile e la realtà quotidiana di un paese che è già meticcio e cosmopolita da lungo tempo a creare scontri, alimentando da un lato abusi e razzismo da parte degli uomini in divisa e dall’altro, come accaduto ad esempio per alcuni degli attentatori del Bataclan, una deriva verso il radicalismo religioso e il terrorismo.
Nella canzone «Petit Pays» lei spiega, come apprenderà a sue spese anche Gaby, il protagonista del suo romanzo, «sono franco-ruandese, una parte di me ha ucciso l’altra senza chiedermi il permesso». La scoperta di sé avviene nello sguardo dell’altro?
Il vero dramma di quando diventiamo grandi è che improvvisamente entriamo in un mondo nel quale qualcuno ha già deciso per noi. Il contesto sociale e storico in cui cresciamo può apparirci a lungo indefinito ma poi c’è un momento in cui assume una forma precisa, immodificabile. È un processo che può compiersi in modo più lento e progressivo oppure in modo drammatico, che è quanto è accaduto a me con la guerra in Ruanda e che nelle pagine del libro succede a Gaby. Lui vorrebbe restare bambino: ha capito che nell’ambiente in cui è cresciuto il fatto di diventare hutu, tutsi, francese, ruandese o burundese lo obbligherà a misurarsi, talvolta in modo drammatico e conflittuale, con la figura dell’«altro». Gaby vorrebbe continuare a far parte di quel tutto, senza barriere e nemici che è stata a lungo la sua infanzia.
Lei ha spiegato di aver preso la decisione di scrivere il romanzo dopo la strage del Bataclan, quando ha visto agire in Francia un meccanismo simile a ciò che ha vissuto all’epoca del genocidio in Ruanda…
Ciò che è accaduto in quella parte dell’Africa, oltre vent’anni fa, continua a interrogare l’intera umanità e non solo gli africani. Di fronte alla deriva identitaria che scuote la società francese, e più in generale quella europea, e che ha conosciuto una terribile accelerazione proprio in occasione di quell’attentato di due anni fa, mi sono detto che era venuto il momento di raccontare quella storia. Che non è solo la mia storia, ma ci riguarda tutti: i meccanismi che conducono al genocidio sono iscritti nella modernità, nella sua stessa costruzione sociale e culturale. In Ruanda una parte della popolazione è stata sterminata in virtù del fatto che era stata precedentemente etichettata come tutsi.
Questa definizione era tutt’altro che «naturale», erano stati i colonizzatori europei a dividere la popolazione locale in hutu e tutsi per controllarla meglio. Proprio quella vicenda ci mostra quanto possa essere pericoloso classificare gli esseri umani per categorie e gruppi immutabili. «Non ho chiesto io di essere tutsi ma mi uccidono in quanto tutsi», è la considerazione che accompagna le vicende che racconto nel libro. Ed è questo il motivo per cui Gaby rivendica la sua possibilità di non scegliere un’identità, se non quella meticcia, e di conservare intatta la sua libertà di essere umano, il suo libero arbitrio da opporre all’orrore.
La grande diffusione della cultura hip-hop, specie nelle banlieue, ha contribuito a definire in Francia uno spazio nuovo dove esprimere proprio un’identità meticcia?
Per certi versi si, ma non solo in Francia, direi a livello globale, in Europa come in Africa. Si tratta di una cultura che non chiede dei pre-requisiti. Pensiamo al rap, non c’è bisogno di saper cantare, suonare o essere intonati, tutto sta nella forza di ciò che si ha da esprimere. Credo però si debba evitare di trasformare anche il riferimento al meticciato come una sorta di appartenenza totale, visto che per chi vive questa condizione spesso si tratta di un handicap rispetto alla realtà circostante.
Cerco di muovermi sulla linea del contrappunto, come accade con la musica quando si combinano più melodie tra loro anche molto lontane, tenendo presente che c’è sempre un «centro». Solo così si può essere attori e testimoni delle diverse culture. In altre parole, aperti al mondo perché lo si vuole attraversare e conoscere davvero.

Alcuni link a video del rapper

(Petit Pays) www.youtube.com/watch?v=XTF2pwr8lYk
(Je pars)  www.youtube.com/watch?v=E2HWKGObM8Q
(Fils du hip-hop) www.youtube.com/watch?v=02O2lMSQMW4
[ Guido Caldiron 11/02/2017]

venerdì 10 febbraio 2017

Giardini di Consolazione, Parisa Reza

Fotografare un trentennio difficile e carico di speranze come quello attraversato dall’Iran tra gli anni Venti e Cinquanta del Novecento non è semplice. Con il suo romanzo d’esordio, Parisa Reza, scrittrice iraniana trapiantata a Parigi, sembra riuscire nell’impresa. Giardini di Consolazione (edizioni e/o, pp. 256, euro 17, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), già pubblicato in Francia due anni fa, ha vinto il prestigioso Prix Senghor, riconoscimento che il mondo della letteratura francofono assegna all’impegno nel creare dialoghi tra culture attraverso l’uso di una lingua comune.
NEL 1921, il colpo di stato in Iran mette al potere lo shah, Reza Khan. Il progetto politico del nuovo sovrano viene presto attuato, determinando una svolta significativa nel Paese: istruzione obbligatoria e proibizione del chador, per cominciare. L’arginamento del potere temporale dei religiosi messo in atto da Reza Khan viene perpetrato da Mossadeq, che tra il 1950 e il 1953 fa scoprire all’Iran una fase democratica. Periodo che si concluse brutalmente con un altro colpo di stato. Nel 1979, dopo la cacciata di un altro shah gli ayatollah prendono il potere.
Le vicende nazionali dell’Iran raccontate sono il teatro di un’epopea familiare; al centro vi sono Sardar e Talla – due contadini di un remoto villaggio dell’entroterra che abbandonano la loro oasi rurale per trasferirsi in città. Gettati in una realtà distante, faticano ad abituarsi. Al contrario, il loro unico figlio Bahram si integra nella nuova realtà: legge giornali, si interessa di politica, esce con ragazze delle quali può vedere il volto. Uno spaccato famigliare che racchiude tutte le speranze dell’epoca tradite dalla Storia.

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TITOLO SIGNIFICATIVO, Giardini di consolazione «ha a che fare con l’origine della parola paradiso», ci spiega Parisa Reza, «il termine persiano pardis vuol dire giardino. Il popolo iraniano conosce bene invasioni, attacchi militari e sconfitte: in quei giardini persiani, famosissimi in tutto il mondo, le persone trovavano rifugio e conforto alle proprie delusioni. In fondo, sono come le fenici: risorgono dalle proprie ceneri».
Che significato assume la migrazione di Talla e suo marito dall’asfittico villaggio di Qamsar fino alla moderna e progredita Teheran?
Inizialmente, volevo raccontare l’incontro tra modernità e tradizione. Solo quando avevo concluso la fase di scrittura e mi sono ritrovata a leggere le mie pagine, mi sono resa conto che l’esodo della famiglia aveva assunto un significato simbolico: lasciando il loro villaggio, isolato paradiso montano, Talla e Sardar si ritrovano catapultati sulla terra degli uomini, con le loro passioni e i loro tormenti.
Ha scelto un’epoca poco raccontata. Perché?
Considero quella fase storica dell’Iran come un passaggio fondamentale nella storia moderna iraniana. Gli anni in cui è ambientato l’inizio del romanzo sono quelli in cui dall’Occidente arrivò la modernità. Allora in Iran tutto sembra possibile. Dopo la seconda guerra mondiale, soffiava un vento di libertà, i partiti politici erano fiorenti, ed era il Parlamento ad esercitare il potere politico. Con il colpo di stato – che chiude il libro – si conclude il periodo più democratico del Paese. La repressione che seguì, si tradusse in una diarchia religiosa e politica.
Il capovolgimento che si verificò coinvolse, non solo l’Iran e il suo destino, ma anche gli equilibri geopolitici di tutto il Medioriente dalla fine del XX secolo.
Nel romanzo si nota una dicotomia molto forte: la coppia Sardar-Talla è semi analfabeta e vive ai margini della modernità; Bahram è invece brillante e partecipa alla vita pubblica. È lo specchio di quel tempo?
Sì. Bahram fa parte della prima generazione di iraniani ad aver beneficiato della scuola obbligatoria e gratuita; in qualche modo, rappresenta la futura élite del Paese. A quel tempo, il re voleva costruire un Iran moderno, fatto di intellettuali che fossero in grado di tagliare i ponti con le proprie radici e che conoscessero lo stile di vita Occidentale. Al tempo stesso, una fetta persistente di società continuava a viveva nel limbo dell’analfabetismo.
Il suo libro parla anche di aspettative deluse: aspettative deluse che potrebbero coinvolgere molti iraniani se l’accordo sul nucleare firmato con gli Usa di Barack Obama dovesse saltare a causa delle discutibili manovre del nuovo presidente Trump. Cosa pensa del divieto d’ingresso imposto ai cittadini di 7 paesi a maggioranza musulmana, tra cui l’Iran?
Considero la misura restrittiva di Trump una mossa discriminante e anacronistica. Inutile dire che aumenterà le tensioni e l’odio tra i due popoli. In pochi giorni, il decreto di Trump è riuscito a creare numerosi problemi, che vanno ben al di là dei blocchi o degli arresti avvenuti negli aeroporti statunitensi. Iracheni, Yemeniti, Iraniani – persone molto lontane dall’America e con le quali un occidentale non si sente affatto identificato – sono state private della libertà fondamentale su cui una democrazia come quella americana è stata fondata: la libertà. Nonostante tutto questo, continuo a credere in un’altra America: l’America che resiste.
Un’America che resiste come l’Iran degli anni difficili. Cosa ha rappresentato Mohammad Mossadeq per il suo Paese?
È stata una delle più grandi figure del XX secolo. Provi a immaginare cosa significò opporsi all’Impero Britannico e vincere la battaglia per la nazionalizzazione del petrolio iraniano.
Come pensa che cambierà l’Iran, vista la situazione internazionale che si sta definendo?
Se i vertici politici mondiali non scateneranno una guerra, che nella situazione attuale non è da escludere, sono fiduciosa nell’evoluzione iraniana. Il paese ha sperimentato la tesi ultralaica di Pahlavi e la sua antitesi. A 40 anni di distanza, l’Iran di oggi sta cercando di sintetizzare tutti i passaggi, elaborando i propri lutti, per costruire il suo futuro. Tuttavia, la sua marcia è molto lenta, ma va nella direzione giusta: quella dell’accettazione di sé e degli altri.
[Francesca del Vecchio 10/02/2017]

I figli dei nazisti, Tania Crasnianski

Il nazismo come storia famigliare dove si mescolano, al coinvolgimento dei padri nell’orrore, i caldi ricordi dell’infanzia e le complicità degli affetti. È una materia quanto mai complessa e talvolta contraddittoria che tiene insieme la memoria pubblica e i molti silenzi della vita privata quella che affronta Tania Crasnianski nel suo I figli dei nazisti, traduzione di Francesco Peri, (Bompiani pp. 268, euro 18,00), un’indagine che ripercorre le traiettorie esistenziali di alcuni dei discendenti dei maggiori dignitari del Terzo Reich.
La ricerca si snoda attraverso otto biografie di figlie e figli dei fedelissimi di Hitler, tra cui quelli di Himmler, Göring e Mengele, nati tra il 1927 e il 1944, il cui nome è legato in modo indelebile a quel terribile passato. Una ricostruzione dettagliata delle loro vicende che descrive anche uno spaccato della vita dell’élite nazista, con i suoi riti e i suoi cliché, i contrasti interni e le gelosie, la presenza costante del Führer, spesso padrino di questo o quel pargolo dei suoi più stretti collaboratori e complici, le case da sogno su laghi e monti, ma anche le crisi familiari celate e negate pubblicamente, i weekend sul massiccio dell’Obersalzberg intorno allo chalet della guida dello stato nazionalsocialista.
LA DOMANDA cui sembra cercare di rispondere Crasnianski, avvocata che lavora tra la Germania e gli Stati Uniti e ha conosciuto nella sua stessa famiglia le divisioni e i drammi della guerra, vantando origini sia russe che franco-tedesche, riguarda il modo in cui costoro hanno potuto elaborare le vicende di cui i loro padri sono stati protagonisti. «Perfino mio nonno, ex militare di carriere nell’aeronautica tedesca – confida infatti l’autrice -, si è sempre rifiutato di condividere con me quella fase della sua storia». Allevati in un clima protetto, spesso separato dal resto della società, anche se intriso profondamente dell’ideologia nazista, i figli dei gerarchi non hanno dovuto fare i conti con la realtà del paese che alla fine del conflitto, quando la caduta del Reich ha costretto i loro padri alla fuga o all’arresto e molto spesso a pesanti condanne o alla morte.
La ricerca della verità, o meglio di una consapevolezza dolorosa quanto al ruolo giocato dai propri cari nella guerra e ancor più nella Shoah è poi avvenuto nel contesto di un paese dove una rapida denazificazione ha lasciato il campo ad un tranquillizzante oblio. Così, «di fronte alla congiura del silenzio ordita da una Germania che nel secondo dopoguerra stava tentando di riedificarsi, i discendenti dei nazisti hanno dovuto intraprendere un lavoro tutt’altro che facile sulle proprie persone per riuscire a costruirsi come individui».
IN QUESTO SENSO, la «memoria del sangue» ha seguito diversi percorsi. Se gran parte dei protagonisti ha scelto di non cambiare il proprio nome, «forse perché il cognome che portano è come una presenza che li possiede», suggerisce Crasnianski, le scelte assunte in età adulta indicano i molti modi in cui ci si può porre come soggetti di fronte al potere che il passato esercita sulle nostre vite.
C’È INFATTI CHI, come Gudrun Himmler, figlia del capo delle SS, o Edda Göring, figlia del Maresciallo del Reich, o ancora Wolf Rüdiger Hess, figlio di Rudolf Hess, e Brigitte Höss, figlia del comandante di Auschwitz, non solo non ha mai smesso di rivendicare l’innocenza del genitore, mettendo talvolta in dubbio la stessa vastità del progetto del genocidio ebraico, ma ha continuato a celebrarne con grande affetto la figura fino a cercare di ripercorrerne, in alcuni casi, le orme. In particolare Gudrun Himmler, è diventata un’icona del movimento neonazista cui ha aderito fin dagli anni Cinquanta, impegnandosi in prima persona nella Stille Hilfe, l’associazione che ha sostenuto molti criminali di guerra.
Ma anche chi, come Rolf Mengele, figlio del medico di Auschwitz, ha invece deciso di cambiare il proprio cognome per non tramandare ai figli la vergogna e si è impegnato nei movimenti antifascisti, o chi come Niklas Frank, figlio di Hans Frank, il «macellaio di Cracovia», del padre non vuole nemmeno più sentir parlare. Altri ancora hanno scelto la via della fede. Martin Adolf Bormann junior, figlio di uno dei capi del partito nazista è diventato sacerdote già nel 1958.
MOLTI DI LORO, solo attraverso un lungo processo interiore sono riusciti a separare l’immagine affettuosa di un padre premuroso da quella del lucido criminale responsabile della morte di milioni di persone. Per molti versi il processo inverso che i «buoni padri di famiglia nazisti» avevano compiuto per trasformarsi in zelanti burocrati dell’Olocausto.
[Guido Caldiron 10/02/2017]

mercoledì 8 febbraio 2017

Che sia benedetta, Fiorella Mannoia

«Io penso che la vita sia perfetta. Siamo noi a sporcarla». Fiorella Mannoia ha presentato ieri sera sul palco dell’Ariston una canzone bellissima, Che sia benedetta. Un inno alla vita, una sorta di memoria della realtà su quello che è il vero senso del nostro stare al mondo, sulla giustizia e la meraviglia dell’esistenza. La vita è perfetta: «E noi la sporchiamo con le ingiustizie sociali, con i rancori, con le invidie, con l’avidità e la sete di denaro e di potere. La natura, da sola, è meravigliosa e completa. In fondo non ci vorrebbe niente a vivere in pace con noi stessi e con il resto del mondo».
È la sua quinta partecipazione a Sanremo a trent’anni esatti da Quello che le donne non dicono: «Appena Amara, che è l’autrice del brano, me l’ha fatto ascoltare, ne sono rimasta completamente stregata. Era una canzone troppo forte, troppo intensa per essere inserita in un disco e basta, meritava una platea più ampia e in Italia l’unica è Sanremo. Qui devi venire quando hai qualcosa da raccontare. Ogni volta ho partecipato perché profondamente convinta del pezzo e, anche se non ho vinto, non mi sono mai sbagliata». Le sue canzoni sono trans generazionali, cantate a squarciagola da mamme, figlie e pure nonne.
Fiorella  è una donna molto bella e un’artista coraggiosa, da sempre schierata a sostegno della difesa delle donne: «Sulle quali andrebbe fatto un discorso complesso e una grande azione di educazione a più livelli, dobbiamo ancora lavorare molto su noi stesse e la tendenza a scusare e difendere chi ci sottomette e ci umilia» oltre che di altri temi fondamentali della società. «Io credo semplicemente di comportarmi da cittadina. Mi è sempre piaciuto stare nella realtà che mi circonda attivamente, responsabilmente. Anche da ragazzina mi occupavo di politica. Oggi il livello di corruzione è ai massimi livelli e la politica non solo non c’è ma è decostruente. Basta guardare agli Usa e a Trump, dove non arriva la politica arriva la protesta carica di rabbia».
Combattente, il suo ultimo album, tornerà venerdì nei negozi in edizione speciale, con il brano e la cover festivaliera (Sempre per sempre di De Gregori), gli altri successi sanremesi cantati dal vivo durante il tour e una versione de La Cura di Battiato. Più le dicono che vincerà e più le viene l’ansia quindi cerca di rimanere distaccata. Cosa che non le riesce quando si parla di ingiustizie sociali: «Non tollero questo giocare a Risiko sulle nostre spalle! Non sopporto questa schiavitù legalizzata con gli schiavi che si mettono addirittura in catene da soli».
Che sia benedetta è un brano adulto, spirituale «Come ogni riflessione sulla vita. Ho un’età per cui è giusto che canti delle cose che vivo e che siano adeguate alla mia esperienza».
È anche un brano laico: «Perché non riesco, purtroppo, ad avere una fede così granitica che mi porti ad avere la certezza che ci sia davvero qualcosa o qualcuno sopra di noi. Allo stesso tempo non riesco ad essere completamente atea, come ad esempio lo era mio padre. Lo era così tanto che faceva gli stessi proseliti, in merito, di chi cerca di convincerti a credere. Io mi sento agnostica ma continuo a cercare dentro di me questa dimensione. Non mi interessa darle un nome o un sesso». A volte, basta cantarla.
[Francesca Angeleri 08/02/2017]

martedì 7 febbraio 2017

Vite periferiche, Enzo Scandurra


Enzo Scandurra, aveva già dato prova del suo talento narrativo con un libro su Roma, Vite periferiche (2012). Un testo che combinava originalmente descrizioni e riflessioni su quartieri e spaccati urbani della capitale con frammenti intensi e sorprendenti di racconti vita. Ora ritorna più decisamente sul versante letterario con una sorta di diario pubblico, che mescola sapientemente autobiografia con la storia della sua generazione, rivissuta attraverso alcuni flashback particolarmente significativi.
FUORI SQUADRA (Castelvecchi, pp. 118, euro 17,50), il titolo del nuovo lavoro, è anche la chiave di tutta la storia, una espressione che rinvia alla condizione di disadattamento e di spiazzamento vissuta dal protagonista per tutta una vita. L’immagine, spiega l’autore, ha origine dal compito di disegno nella facoltà di Ingegneria che imponeva agli allievi di squadrare il foglio prima di elaborarvi all’interno il disegno proposto dal docente. Ma l’espressione «il tempo è fuori squadra» è sulla bocca di Amleto, allorché scopre l’uccisione del padre ad opera dello zio. Il tempo fuori squadra è il corso naturale delle cose uscito dai cardini, precipitato in un disordine imprevisto.
«ESPRESSIONE quella di Amleto – scrive Scandurra – adeguata allo stato d’animo che provavo quasi quotidianamente di fronte al processo di imbarbarimento del presente: che tutto il mondo procedesse in un vortice di autodistruzione senza che nessuna autorevole voce gridasse alla vergogna, allo scandalo planetario». In questo «diario», tuttavia, il fuori squadra è innanzitutto una condizione psicologica del protagonista, una costante esistenziale che costituisce la traccia profonda di confessione e di verità messa sotto gli occhi del lettore. È la sensazione persistente di disagio, un sentirsi fuori posto, che ha origini nell’infanzia, vissuta in un quartiere periferico di Roma e che continua nell’adolescenza e nella prima giovinezza, quando i rapporti con gli amici si sentono sbagliati, estranei alla propria sensibilità e vocazione. Un fuori posto che ha un avvio istituzionale, destinato a influenzare la futura vita professionale e dunque tutta la vita: l’iscrizione all’Istituto tecnico industriale. Per un adolescente che amava le letture solitarie di Proust, Kafka, Dostoevskij instradarsi a quel tipo di studi per volontà paterna era qualcosa di più che fare uscire di squadra il proprio tempo.
UNA CONDIZIONE di estraneità e disadattamento continuata anche con l’iscrizione e la frequenza a Ingegneria, che, pur affrontata con successo e coronata infine con la docenza, era vissuta come una impresa estranea al fondo più genuino del proprio sentire e della propria vocazione. È con gli ultimi decenni che il fuori squadra privato si fonde con quello pubblico, con un sentirsi fuori posto rispetto alla comune storia del mondo che abbiamo sotto gli occhi.
Il libro non è un racconto lineare, c’è un andirivieni temporale che tuttavia non impedisce al lettore di seguire una storia coerente. Anche perché esso si compone, quasi cinematograficamente, per quadri. Sono rievocazioni molto vivide di persone, luoghi, eventi: la conoscenza fortuita di Pasolini nel suo quartiere e poi a Fiumicino, il processo a Braibanti, momenti del ’68 e il volantinaggio davanti alle fabbriche, gli amori della giovinezza, un ritratto per drammatico di Carla Ravaioli, i funerali di Ingrao. Tutti fatti, persone, vicende che Scandurra – con la naturalezza dell’urbanista insopprimibile che è in lui – riesce sempre a raccontare negli scorci sontuosi o degradati (palazzi, vie, piazze) di quella scena senza uguali che è la città di Roma.
QUESTI QUADRI non costituiscono, tuttavia, un mosaico in disordine. Non solo perché sono tenuti insieme dal «fuori squadra», da questo sentimento costante di inadeguatezza che dà il colore a buona parte delle esperienze raccontate. C’è un altro filo rosso che tiene insieme le vicende disparate della biografia: è l’ombra della malattia, l’onnipresenza del cancro.
È con questo evento che ha inizio l’autobiografia di Scandurra, raccontata con doloroso coraggio nella sua portata di mutilazioni e di sofferenze, negli stati d’animo della paura e dell’angoscia. In queste, pagine scritte come in una estraniata confessione, c’è in fondo la ragione di tutto il libro. La minaccia della morte costringe a guardarsi indietro e intorno, a fare bilanci, a valutare il senso di un percorso personale dentro la grande storia che abbiamo attraversato.
E in questo bilancio non c’è nessun autocompiacimento introspettivo e nessuna autoassoluzione, c’è il racconto di un continuo sforzo di entrare nel quadro, di mettersi in sintoia con gli altri e con il proprio tempo.
Perciò, malgrado l’incombere costante della malattia, a emergere nel libro è in fondo la strenua volontà di farla rientrare negli accidenti temporanei di un percorso, all’interno di una tensione più generale, che è la mai dismessa lotta per dare il proprio contributo solidale, un qualche frammento di senso alla propria e alla nostra comune storia.
[Piero Bevilacqua 7/02/2017]

Dietro l’arazzo, Lenny McGee

Secondo Brendan Behan i critici sono come gli eunuchi: gli piacerebbe farlo, non possono, e dunque si limitano a guardare. Qualche malizioso potrebbe estendere la similitudine anche ai traduttori. Ma i traduttori non si limitano a guardare. Essi fanno eccome: ricreano, sostituiscono; in soldoni, come voleva Umberto Eco, fanno «quasi la stessa cosa» ma facendone proprio un’altra. La situazione si complica quando si ha un romanzo che parla di traduzione, e con al centro un traduttore al quale non piace solo guardare, ma che si cimenta persino nella vita dell’uomo d’azione, per dirla alla Novalis.
È stato pubblicato di recente per la piccola grande casa editrice Coazinzola Press, un libro ancora inedito in originale, e che quindi vede la sua prima mondiale in italiano: Dietro l’arazzo (pp. 483, euro 22) dell’irlandese Lenny McGee, tradotto dalla penna raffinata di Riccardo Duranti.
IL ROMANZO AMBISCE a riesumare dagli abissi della Storia le vicende del primo formidabile traduttore inglese del Don Chisciotte, Thomas Shelton, anch’egli irlandese, personaggio di cui si sa pochissimo. Le vicende appassionanti di quest’uomo di lettere e d’azione lo vedono coinvolto in una modernissima rete di comunicazione intra-europea che fa uso di corrieri, intenti a fare la spola tra le maggiori città. Ma Thomas non è solo al centro del palcoscenico, lo accompagna la donna della vita, Eva, figlia di un certo Don Miguel che fa lo scrittore.
I LORO SPOSTAMENTI li portano persino a Londra, dove fanno la conoscenza di un certo Will, che fa il drammaturgo, e incrociano persino un italiano, Giovanni/John, che fa il traduttore (il lettore attento lo ritroverà anche ne La cena de le ceneri di Giordano Bruno). Il tutto è parzialmente inserito nella cornice storica dei rapporti tra Inghilterra e Irlanda a cavallo tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo. Nello specifico si fa riferimento alle pulsioni anti-inglesi fomentate da famosi dignitari tra cui Tyrone, e alla possibilità di un intervento dell’esercito spagnolo in soccorso degli irlandesi. Per quest’ultimo aspetto, si rimanda alla lettura dell’Enrico V a firma del noto Will di cui sopra.
ALTRO ASPETTO di interesse in questo romanzo corale, la cui forza non è data tanto, o non solo dalle vicende e dagli ammiccamenti alla storia ma dalla stessa struttura (un misto di dialoghi e monologhi), è la cornice contemporanea: un intessersi di email alla narrazione vera e propria di vicende del passato. Gli scritti riguardanti Shelton e la sua donna vengono infatti rinvenuti da studiosi che si propongono di riportarli alla luce, e così di vendicare i due personaggi da secoli di oblio.
DIETRO L’ARAZZO è un libro che aiuta anche a capire altro, oltre al funzionamento della macchina-romanzo. Nelle prime pagine il protagonista riflette sul metodo di un suo «maestro» e chiarisce sottotraccia uno degli obiettivi di questo libro illuminante, ossia farci comprendere che quasi tutto è traduzione, ogni moto umano o sociale; e questo perché comporta cambiamenti e riflessioni critiche su quel canovaccio di connessioni chiamato esistenza: «Tutto quel che dice si collega con qualcos’altro e porta verso altre idee attraverso lampi intuitivi, subitanee scoperte, improvvisi cambi di prospettiva.
INSISTE SEMPRE che la traduzione sia una pianta con salde radici nella nuova lingua e non un fiore reciso e destinato ad appassire dopo poco tempo perché se un’opera è davvero grande, è come un organismo vivente e allora cresce, accumula saggezza, si riproduce».
[Enrico Terrinoni 07/02/2017]

domenica 5 febbraio 2017

Amori londinesi, Charles Dickens

C’è stato un tempo in cui Charles Dickens, prima di inaugurare la sua carriera di romanziere col Circolo Pickwick, scriveva per i giornali di Londra sotto lo pseudonimo di «Boz». Il risultato di questa attività di reporter non doveva sembrare del tutto trascurabile, dal momento che lo stesso Dickens decise di servirsene per consolidare l’astro nascente della propria fama. Mentre già cominciava a riscuotere i primi strepitosi successi, non solo con Pickwick, ma anche grazie a Oliver Twist e Nicholas Nickleby, lo scrittore si impegnò infatti a raccogliere gli svariati «bozzetti» giornalistici che costituivano i primi «tentativi» della sua «professione», riproponendoli a più riprese, fra il 1836 e il 1839, nei due volumi degli Sketches by Boz.
A richiamare l’attenzione su questa fase di apprendistato, finora ignorata dall’editoria italiana, interviene oggi Amori londinesi (Mattioli 1885, pp. 238, euro > 16,90) ultimo volume di una trilogia che incorpora anche I Londinesi e Il grande romanzo di Londra. Assieme alla prima traduzione inedita degli Sketches, la trilogia ci propone subito una piccola sfida: bisogna riconoscere che i materiali finalmente messi a nostra disposizione si rifiutano di essere trattati come un repertorio di motivi sviluppati in seguito da Dickens, su più vasta scala, nei romanzi di nostra conoscenza. Poiché «Boz» ci invita a prendere in considerazione i restrittivi vincoli di spazio a cui sono soggetti i suoi «schizzi», incommensurabili al romanzo, dovremo limitarci a intendere questi testi di varia natura come un atto inaugurale. I bozzetti ci appariranno, a questi patti, come la prima occasione in cui Dickens si presenta sulla scena, seppure sotto mentite spoglie, per reclamare a gran voce i diritti i e poteri di un mago incantatore determinato a esibire sortilegi di prodigiosa affabulazione.
Non lasciamoci innanzitutto depistare dal travestimento di Boz, che fin dal Grande romanzo di Londra si presenta nei panni dell’inviato speciale. Non appena il suo sguardo di «osservatore» girovago si posa su un anfratto qualsiasi della città, il reporter in perlustrazione cede il passo allo stregone illusionista, che dopo essersi issato su un ideale palcoscenico si appresta a evocare l’incantesimo della vita quotidiana. In questo modo, sull’immaginario telone bianco allestito alle spalle di Boz, vediamo rinascere sobborghi, piazze e bassifondi, destinati a poco a poco a popolarsi di «tipi» caratteristici della low e della middle-class altrimenti banditi dai territori della letteratura romanzesca.
Sono proprio le epifanie di queste figure «tipiche», ancora sprovviste di una storia, eppure animate da un frenetico andirivieni di dialoghi e situazioni, che ci spingono a chiederci come Boz riesca a generare la magia di una verosimiglianza tanto portentosa.
Essenziale al successo dell’operazione risulta, fin da ora, l’attitudine teatrale che Dickens riesumerà anche quando negli anni successivi salirà sul podio in prima persona, durante le pubbliche letture delle sue opere più amate. È vero però che la teatralità, nel caso di Boz, rappresenta una risorsa preziosa e al tempo stesso un infido alleato. La mania di protagonismo, da una parte, consente infatti al giornalista di balzare agli occhi del pubblico e di manovrarlo come un regista incontrastato nello spettacolo illusionistico dei bozzetti; dall’altra, l’incontenibile esuberanza del narratore sulla scena lo conduce a esporsi troppo agli sguardi, alla stregua di un prestigiatore che non sa celare fino in fondo i trucchi della propria arte.
Non è difficile accorgersi che per fomentare l’illusione Boz ricorre di preferenza al «presente storico», uno dei più importanti «costituenti» – secondo Harald Weinrich – della narrativa «eccitante», molto più efficace del passato remoto nella simulazione di scene in presa diretta. Insistenti risultano poi gli inviti a partecipare ai sopralluoghi dell’incantatore e a concentrare gli sguardi sui dettagli da lui stabiliti, per poi «immaginare» il fondale dei suoi scenari. È come se fossimo istigati, pagina dopo pagina, a seguire le istruzioni di un ipnotista che ci costringe a cadere nella trance di una finzione meticolosamente organizzata.
Ossessivo, a questo proposito, diventa il desiderio di suddividere in categorie precise la popolazione dell’universo immaginato, che finisce per costituire, come in una lanterna magica, il riflesso ingigantito di una realtà sociale condivisa e verificabile dagli ascoltatori. La mania del catalogo si fa talmente invasiva, soprattutto negli Amori londinesi, da spingerci stavolta a domandare da quali fonti Boz potesse attingere tanta sapienza e a quale scopo si ingegnasse a riversarla sui suoi primi lettori.
Sarebbe riduttivo attribuire al bozzettista una vocazione di denuncia sociologica, così come risulterebbe fuorviante scorgere dietro la sua maschera la fisionomia del romanziere o dello storico. Perché Boz comprende e al tempo stesso riesce a superare tutte queste figure. E se per un verso sembra condividere alcuni dei loro protocolli, per l’altro si affretta a specificare che i suoi schizzi racchiudono maggior vita rispetto alle documentazioni degli storici, mentre si divertono a scimmiottare le convenzionali trovate dei romanzieri. Semmai, Boz può essere equiparato a uno sciamano dei tempi moderni, a cui basta un oggetto dimenticato in una vetrina di cianfrusaglie per evocare l’universo sepolto dietro le loro superfici.
Il suo sapere dipende – come osservava Curtius a proposito di Balzac – da una «seconda vista» che segue le piste della «intuizione divinatoria». E non è raro avere l’impressione che nel corso delle sue performance Boz si ritrovi a contatto coi fantasmi, in procinto di scatenare forze dell’occulto in una singolare seduta spiritica. Anche per questo, a detta di Chesterton, tanto i personaggi di Dickens quanto le figure dei suoi bozzetti sembrano godere di una «divina pre-esistenza», che li porta ad esistere «prima ancora che lo stesso Dickens ne abbia sentito parlare». Il risultato, in ogni caso, coincide con qualcosa di inclassificabile, eccessivo e debordante, che finisce per travolgere ogni ostacolo sul suo percorso. Lo testimoniano meglio di tutti i racconti del secondo volume dei Londinesi, dove lo scioglimento precipita sui lettori all’improvviso e senza preparazione, quasi a scorciare una narrazione altrimenti pronta a moltiplicarsi fino ad esplodere.
Non è allora un caso se il soprannome Boz deriva – secondo quanto Dickens testimonia nella prefazione a Pickwick – dalla storpiatura di «Moses»: la sua parola e il suo atteggiamento appartengono a qualcuno che è deciso ad «aprire le acque», a farsi strada a ogni costo, ad abbattere i confini e le barriere di genere. Anche a prezzo di sarcasmi, buffonerie clownesche, smargiassate da imbonitore che spesso si incuneano nelle pagine della «trilogia» conducendole alla farsa, senza riuscire a nascondere le trame di un progetto utilitaristico.
Esemplare, in questo senso, è l’ultimo volume degli Amori londinesi, che in aperta ostilità con la «diabolica» misoginia di un libello in circolazione si impegna a passare in rassegna i tratti fisiognomici, i tic e le pecche caratteriali di ogni categoria del genere maschile.
Al pubblico delle sue lettrici, Boz offre una galleria di identikit, assemblati e messi in situazione attraverso una sorta di manuale assertivo e derisorio, con cui orientarsi nella scelta del perfetto pretendente. Solo al termine della kermesse il narratore si decide a proporsi come il «giovane» fidanzato ideale, svelandosi come rivale diretto di tutti quei partiti che la sua scrittura si è affrettata a distruggere e mettere in ridicolo. Ma allora, il piano di Boz può essere considerato altrettanto «diabolico» di quello del suo misogino predecessore: dietro una nobile vocazione sociologica, gli Amori londinesi non fanno che nascondere una trappola utilitaristica e premeditata, allo scopo di puntare i riflettori della narrazione sul loro artefice.
Allo stesso modo, l’ombra del sospetto finisce per gravitare su tutti gli altri bozzetti della raccolta. Con questi schizzi, Dickens non ha voluto soltanto educare i lettori alla dirompente esuberanza dei suoi futuri romanzi: ha cercato anche di sondare la resistenza dei suoi ascoltatori, di assicurarseli e di pilotare il loro gusto, dirigendo le luci della ribalta sulla propria figura. In attesa di varcare la terra del romanzo, lo scrittore usa Moses – e Boz – per spianarsi il cammino.
[Ivan Tassim 08/02/2017]

sabato 4 febbraio 2017

Prossime letture

Carissim*, 
dopo aver archiviato Majakovskji con il mese di gennaio, ci dedicheremo a nuovi orizzonti: il prossimo libro sarà ANIME BALTICHE, di Jan Brokken (Iperborea), proposto da Rossella. A seguire, il primo volume della TRILOGIA DELLA PIANURA di Kent Haruf, scelto da Monia.
Cominciate anche a meditare sulla Serata Cervantes (non che dobbiate leggere tutto il DON CHISCIOTTE, naturalmente!).
Al lavoro!
Silvia

venerdì 3 febbraio 2017

Breviario Mediterraneo, Predrag Matvejevic

L’ultima volta ho visto Predrag Matvejevic nel novembre scorso. Era in una clinica a Zagabria, sulla sedia a rotelle, ma ancora lucido e molto contento del nostro incontro. Teneva la mano della moglie Mira nella sua e parlava in italiano con il mio compagno. Cercavamo di ricordare i suoi anni romani. Era il mio testimone al matrimonio, ma soprattutto a Roma, all’università La Sapienza, aveva tenuto per quattordici anni la cattedra di letteratura jugoslava cercando di aiutare e indirizzare gli studenti che arrivavano dal nostro ex paese. Molti devono a lui l’inserimento e la comprensione della società italiana. Non era affatto apatico né si lamentava, bensì cosciente del suo ormai precario stato di salute. Aveva anche un aspetto migliore di quel che mi aspettavo conoscendo la sua situazione. In qualche modo a Zagabria, a casa sua, credo si sentisse sereno.
UNA VITA «TRA ESILIO E ASILO», come diceva, era stata la sua esistenza negli ultimi decenni subito dopo le prime avvisaglie del conflitto che avrebbe tolto dalla carta geografica il suo paese per sempre. Il paese dove lui si sentiva bene ovunque, a Zagabria come a Belgrado, a Ljubljana come a Sarajevo, e soprattutto nella sua nativa Mostar. A causa delle minacce quotidiane e delle lettere anonime nella cassetta postale, ha dovuto, dopo i colpi di rivoltella alla scritta con il suo nome, lasciare Zagabria dove era professore universitario per stabilirsi a Parigi nel 1991. Alla Sorbona ha insegnato Letterature comparate e scritto i suoi Il mondo ex e Le lettere dell’altra Europa. Si trasferisce a Roma tre anni dopo per rimanervi fino al 2008.
IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE di Predrag Matvejevic è sicuramente Breviario mediterraneo, oggi tradotto in più di venti lingue e vincitore di numerosi premi, definito dallo stesso autore «un saggio poetico» e «un diario di bordo» e che Claudio Magris saluterà come un «libro geniale, fulminante, inatteso». Viene pubblicato nel 2003 L’altra Venezia, scritto in Italia e vincitore del premio Strega; l’ultimo è Pane nostro, del 2010. Nel frattempo Matvejevic riceve anche diverse onorificenze tra cui quella di Ufficiale della legione d’onore francese, Cavaliere dell’Ordine della stella della solidarietà italiana insieme alla cittadinanza onoraria e il titolo di Cavaliere delle Arti e delle Lettere di Spagna.
Tuttavia è L’epistolario dell’altra Europa il lavoro che a mio avviso descrive meglio il coraggio e la parte sempre molto combattiva e ribelle di Predrag. Perché lui era un grande combattente, sempre in soccorso degli ultimi.
Nel 1993 scrive lettere a Milosevic e Tudjman consigliando a entrambi il suicidio per il bene dei loro popoli. Ma ancora prima si era rivolto a Tito consigliandogli di dimettersi e pensare a un successore per il bene del paese. Ovviamente, tutti messaggi e suggerimenti inascoltati. Erano una critica serrata, dolente e vissuta del socialismo reale, la radiografia di quella temperie politica. Come si evince dalle lettere scritte a Havel, Sacharov, Solzenicin, Brodski, Kundera, per citare solo alcuni dei suoi interlocutori; in quelle righe vi erano chiarimenti ma anche appoggio agli intellettuali dell’Est perseguitati dai regimi totalitari.
MATVEJEVIC CI TENEVA a dirsi jugoslavo (era figlio di padre russo e di madre croata bosniaca) e soffriva per la «balcanizzazione» del suo paese. Nella guerra cui abbiamo assistito, non parteggiava per nessuno anche se riconosceva la maggiore tragedia subita dai musulmani. Nei Signori della guerra metteva insieme i tre «distruttori»: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic, eppure non tralasciava neanche le influenze esterne e del Vaticano. Come chiedeva di non parlare sempre di «quanti» clandestini sono approdati e «quanti» devono andarsene ma di gettare uno sguardo anche sui loro «fagotti», sapere cosa portano da quei paesi da dove sono stati costretti ad andarsene.
LA SITUAZIONE ATTUALE dell’Europa (si identificava alla fine come intellettuale europeo) lo faceva sentire sconfitto. Ormai, diceva, l’identità è precipitato nella «particolarità», un particolarismo – inteso come valore – molto dannoso. «Anche il cannibalismo rappresenta una particolarità ma non per questo è un valore! Nei paesi dell’Est dal socialismo di Stato si è passati alla democratura, una democrazia solo di nome mentre l’Europa ormai si sta jugoslavizzando. Il Mediterraneo che doveva diventare un ponte ormai è un mare di morti. L’Unione Europea non ha creato l’Europa unita. E dappertutto si erigono i muri a difesa delle nostre mere nazionalità. Il nazionalismo ha vinto ovunque: in Ungheria come in Bulgaria, in Polonia come in Romania. Molti ancora non si rendono conto. Un po’ come ballare sul Titanic con l’iceberg in agguato che non vogliamo vedere», scrive ne La storia non è una merce di scambio.
«Sono nato in un paese senza frontiere e poi le frontiere si sono costruite» diceva Predrag Matvejevic. Speriamo che non se ne sollevino molte altre.
[Dunja Badnjevic 03/02/2017]

giovedì 2 febbraio 2017

Dorothy Height, l’eredità liberata

La dimensione globale delle battaglie transnazionali degli afroamericani, uomini e donne, viene indicata negli studi più recenti con le espressioni «black worldliness», «black globalism», «black global community». Soprattutto le afroamericane sono state protagoniste, nel secondo dopoguerra, di quella che viene definita una nuova «global race consciousness», la consapevolezza che fosse possibile rafforzare la battaglia globale contro il razzismo alleandosi con uomini e donne delle darker races.
Un percorso internazionalista che per le afroamericane veniva da lontano: dalla presenza all’esposizione universale di Chicago del 1983, al primo Congresso Panafricano a Londra nel 1900, alla creazione dell’«International Council of Women of the Darker Races» nel 1922, all’organizazione del Congresso panafricano di New York del 1927, fino alla partecipazione di Mary McLeod Bethune, – presidente del National Council on Negro Women – alla fondazione delle Nazioni Unite nel 1945, come consulente della delegazione statunitense. In questi diversi passaggi esse proposero una visione dei rapporti internazionali che ricomponeva diritti delle donne, creazione di una comunità globale delle darker races, anticolonialismo, pace, giustizia sociale e diritti umani.
Nel secondo dopoguerra fu soprattutto il National Council of Negro Women, nato nel 1935, a svolgere e moltiplicare le proprie attività internazionali sia con l’invio di rappresentanti in Europa, Indie Orientali e Cuba (il paese in cui il Council decise di avviare i progettati Summer Seminars in collaborazione con la Asociation Cultural Feminina), sia con l’accoglienza di rappresentanti di associazioni di donne da Filippine, Liberia, Messico, Costa Rica, Francia, Cina, Haiti, Gran Bretagna and Belgio nei suoi meeting annuali.
Un processo di internazionalizzazione che il Council voleva incrementare incoraggiando lo studio delle relazioni internazionali all’interno di gruppi afroamericani religiosi e civici, e intensificando l’adesione ad associazioni internazionali non soltanto nere. Del resto, che la blackness fosse soprattutto una dimensione politico-simbolica risulta chiaro guardando all’interesse del Council verso l’India e la sua resistenza al colonialismo, testimoniato dai rapporti tra Mary McLeod Bethune e la diplomatica indiana Vijaya Lakshmi Pandit Nerhu, sorella del primo ministro indiano e figura centrale della politica indiana prima e dopo l’indipendenza.
I movimenti panafricani e dei processi di decolonizzazione in atto furono al centro dell’attenzione delle afroamericane, protagoniste di una «new public diplomacy» che veicolava negli Stati Uniti le istanze dei nuovi paesi decolonizzati.
Dorothy Height, Shirley Graham Du Bois (moglie del leader afroamericano William Edward Burghardt Du Bois che nel 1963, poco prima della sua scomparsa, si era trasferito in Ghana), Dorothy Boulding Ferebee, sono solo alcune delle donne nere che parteciparono nel 1960 alla prima «Conference of African Women and Women of African Descent» ad Accra, in Ghana – repubblica indipendente da appena tre anni –, convocata su iniziativa del National Council of Ghana Women, l’organizzazione che aveva aggregato nel 1960 i gruppi di donne preesistenti.
Erano state in gran parte le donne, sia delle regioni rurali che delle aree urbane, a partecipare con forza alla battaglia per l’indipendenza e poi alla ricostruzione politica post-coloniale dentro e fuori il Convention People’s Party. Il loro impegno era provato dalla presenza di 10 donne in Parlamento, un risultato che, come disse pubblicamente Shirley Graham Du Bois, i paesi europei avevano raggiunto nell’arco di decenni.
La conferenza di Accra concentrò i suoi lavori su diritti economici, diritti alla salute, opportunità nell’ambito della vita pubblica, dell’istruzione e del lavoro, oltre che sulle strategie per stabilire legami più stretti tra i movimenti delle donne nere a livello globale.
Sarebbe stato lo stesso presidente del Ghana indipendente, Kwame Nkrumah, ad enfatizzare il ruolo delle donne nel suo discorso alla conferenza: «È venuto il tempo in cui i molti milioni di donne africane e di discendenza africana insorgano per unirsi alla crociata per la libertà dell’Africa». Se nel corso dell’incontro non mancarono tensioni nella delegazione statunitense tra chi voleva schierarsi apertamente con il blocco filosovietico e chi vi si opponeva, se le afroamericane rifiutarono l’approvazione di una risoluzione che condannava la segregazione razziale statunitense e l’apharteid sudafricano equiparandoli e pretesero due diverse mozioni, il raduno creò un legame che sarebbe durato nel tempo.
Dorothy Height, allora presidente del National Council of Negro Women, in quello stesso 1960 viaggiò per diversi mesi in Sierra Leone, Nigeria – dove lavorò alla creazione del Nigeria Council of Women – e Guinea, incoraggiando la formazione e lo sviluppo di gruppi e movimenti di donne africane. Molte furono le afroamericane a svolgere ruoli analoghi nel corso delle guerre di liberazione in Angola, Mozambico, Zimbabwe, Namibia, Algeria, Tanzania, Guinea, Nigeria e Sierra Leone, coniugando lavoro di base e azione politica a livello internazionale.
Al suo rientro dall’Africa, nel 1962, Height partecipò alla fondazione della American Negro Leadership Conference on Africa insieme a Martin Luther King (Southern Christian Leadership Conference), Roy Wilkins (National Association for the Advancemente of Colored People), e a molti altri leader afroamericani. Il focus della Conferenza fu non solo sui rapporti degli afroamericani con i movimenti di liberazione africani, ma sui modi per influenzare la politica estera statunitense nei confronti dell’Africa.
L’azione delle afroamericane – che spesso rivestirono ruoli di leadership nei movimenti anticoloniali – continuò in diverse forme nel tempo. Dorothy Boulding Ferebee sarebbe stata nominata dal presidente Lyndon Johnson, nel 1967, tra i cinque delegati ufficiali all’Assemblea della Word Health Organization e si sarebbe poi impegnata in programmi internazionali di cooperazione sanitaria; il National Council of Negro Women nel 1975 fondava al suo interno una sezione internazionale che si sarebbe occupata soprattutto del rapporto tra donne e sviluppo; Dorothy Height tornò in Africa nel 1977 per lavorare con la Black Women’s Federation del Sudafrica, e replicò periodicamente le sue visite.
Molti anni più tardi, nel marzo del 2012, il National Council of Negro Women annunciava la sua partnership con TransAfrica, New York University’s Women of Color Policy Network e International Black Women’s Public Policy Institute per collaborare all’organizzazione della Intercontinental Black Women’s Empowerment Conference da tenersi ad Accra nel luglio di quello stesso anno.
Alcuni dei temi affrontati sarebbero stati assai simili, seppur in un contesto fortemente mutato, a quelli espressi nel 1960: l’empowerment economico delle donne africane e afroamericane, il miglioramento delle condizioni sanitarie (con particolare riferimento al problema dell’Aids e della mortalità materna), il problema della tratta.
Quell’anno si festeggiava il centesimo anniversario della nascita di Dorothy Height e si onorava l’eredità di una afroamericana il cui interesse per le donne nere era andato ben oltre i confini degli Stati Uniti.
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GENERE E STORIA. DA OGGI FINO A SABATO IL CONVEGNO DELLA SIS

Spaziando dall’antichità all’età contemporanea, dall’Italia al Medio Oriente e America Latina, si apre oggi (per concludersi sabato) il settimo congresso annuale della Società Italiana delle Storiche dedicato a «Genere e storia». Importanti le prospettive di ricerca che si dipaneranno nei più di 220 interventi previsti – disposti in due sessioni plenarie, sei parallele, sette poster – vanno a mostrare come « le donne sono protagoniste della storia e la loro assenza dalle storiografie tradizionali è il frutto di scelte intellettuali e politiche che, ormai, non si possono che considerare desuete». Studiose e studiosi italiani e internazionali si incontreranno dunque per riflettere sul ruolo delle relazioni di potere che condizionano quelle tra individui e tra società. Le intersezioni e i punti di contatto tra storia e genere saranno molteplici: lavoro, migrazione, mascolinità, sessualità, religione, immaginario, biografie e femminismi, grazie a presenze quali Amy Erickson, Sylvie Duval, Monique Deveaux, Elisabetta Vezzosi, Adriana Valerio, Gabriele Proglio, Raffaella Baritono, Barbara Henry, Simona Feci, e ancora Elena Borghi, Elisabetta Serafini, Lucia Sorbera, Serena Tolino, Laura Guidi, Laura Savelli, Nadia Fusini.
Il programma completo si può consultare al sito www.societadellestoriche.it
[Elisabetta Vezzosi 02/02/2017]