domenica 29 gennaio 2017

Il defunto odiava i pettegolezzi, Serena Vitale

Carissim*,
il prossimo incontro sarà domani lunedì 30 gennaio con IL DEFUNTO ODIAVA I PETTEGOLEZZI, di Serena Vitale, presentato da Andrea.
Ci troveremo a casa mia
A presto
Silvia

La Gipsoteca Canoviana di Possagno Gianluca Frediani

André Chastel definì Carlo Scarpa sulle pagine di Le Monde «il più grande allestitore di mostre d’arte lì – ovvero in Italia – e forse in tutta Europa». Era il 1975 quando lo storico dell’arte francese dichiarò quale benefico rinnovamento aveva subito la museografia grazie a Scarpa. Tre anni dopo l’architetto veneziano morì a Sendai, in Giappone, a causa di un incidente. È sempre, quindi, necessario tornare a Scarpa, soprattutto quando nuove indagini raccontano, come quella di Gianluca Frediani, un capolavoro della sua abilità di museografo: La Gipsoteca Canoviana di Possagno (Electa, pp. 144, euro 42,00, fotografie di Alessandra Chemollo). Perché se c’è una definizione di cui l’architetto veneziano andò sempre orgoglioso era proprio quella di museografo, anzi «mezzo museografo». Prima, però, si considerava «un uomo molto umile, molto semplice», divenuto uno specialista perché il «mondo moderno ama gli specialisti», anche se per lui era meglio diffidarne.
Il semplice è il valore atmosferico della Gipsoteca (1955-’57), originato da un lungo processo che va dagli allestimenti di mostre alle biennali d’arte veneziane (dal 1948 al 1972, tranne due assenze) fino al progetto non realizzato per il Musée Picasso nell’Hôtel Salé di Parigi (1976), attraverso le superbe prove di Palermo (Palazzo Abatellis, 1953-’54), Verona, (Museo di Castelvecchio, 1956-’64), Venezia, (Gallerie dell’Accademia, 1945-’49; Fondazione Querini Stampalia, 1961-’63) e molte altre.
Philippe Duboÿ, architetto, storico e assistente di Scarpa nel progetto parigino, scrive nel suo bel saggio Carlo Scarpa. L’arte di esporre (pubblicato di recente da Johan & Levi) che la componente scarpiana della semplicità deriva da Le Corbusier – «la grande arte vive di mezzi poveri» –, quel Le Corbusier portato ad esempio nel numero monografico di «Art d’Aujourd’hui» (n.1, 1950) dal curatore Willem Sandberg nel suo saggio dedicato all’«organizzazione di un museo dell’arte d’oggi»: «Questo architetto che si definisce “un po’ bizantino” – scrive Duboÿ a proposito di Scarpa – traspone le nuove tradizioni proprie del Movimento Moderno in una messa in opera semplice dei materiali della tradizione artigianale veneziana».
Altrettanto semplice, quasi un manifesto, è la soluzione spaziale che Scarpa concepisce a Possagno quale ampliamento del museo preesistente di Francesco Lazzari (1834-’36) in occasione del bicentenario della nascita di Canova. Frediani, attraverso una lettura critica dei disegni (in special modo gli schizzi) e un’analisi diacronica circostanziata delle modificazioni del complesso canoviano (Casa e Gipsoteca), evidenzia con ragione che negli anni cinquanta l’architetto veneziano non è «ancora abbagliato dalle variegate influenze orientali». Il suo repertorio attinge ancora al rigore e alla purezza dei maestri della modernità architettonica – Le Corbusier e Wright prima di Hoffmann –, misurato dentro le multiformi suggestioni e idee provenienti dalla tradizione veneta. Il volume trapezoidale a punta che Scarpa colloca di fianco all’aula neoclassica ottocentesca del museo canoviano, connessi da uno «spazio di transizione» e ingresso, è il risultato di un processo difficile teso a ridurre tempi e costi, ma che permette di focalizzare le invenzioni scarpiane a pochi ma fondamentali ambienti. Dal basso verso l’alto: atrio, ex scuderie, «sala alta», «sala a siringa», vasca (immancabile).
All’inizio della fase progettuale c’è per Scarpa la sfida di come articolare un percorso di visita complesso tra il volume centrale della Gipsoteca (longitudinale) e i nuovi volumi dell’ampliamento (trasversale). Il modello tipologico gli sarà offerto dalla tradizione: Villa Lippomano a San Vendemiano (inizi XVII sec.) attribuita a Baldassare Longhena. È interessante come sullo schema planimetrico di questa villa del trevigiano Scarpa insista a far funzionare per similitudine la composizione dei suoi corpi aggiunti a quello centrale della Gipsoteca. Nel 1972, in una delle poche interviste Rai (ora in Duboÿ), Scarpa si rammaricava di trovarsi «sempre dei fatti costruiti» chiedendosi con un po’ di scherno come avrebbe fatto ogni volta a trasformarli in museo. Sapeva di avere «assorbito osmoticamente» fin troppo bene la lezione dei suoi maestri moderni e le tecniche antiche della sua terra, e ciò gli era sufficiente.
Solo Bruno Zevi colse un aspetto che l’architetto veneziano non pretese mai di rilevare poiché in rapporto così stretto e amicale con direttori di musei, storici dell’arte e soprintendenti. Alla domanda di quali qualità egli possedesse che non avessero altri architetti, Zevi disse che «Scarpa ama la pittura e la scultura», «caso quasi unico» in Italia. Con le parole dello storico romano possiamo affermare che in un «paese burocratizzato», come è rimasto il nostro, dobbiamo «gioire» che almeno per una volta «i meriti reali» siano prevalsi sui «titoli accademici», e che le opere di Scarpa-museografo, come il capolavoro della Gipsoteca Canoviana e i suoi straordinari allestimenti, siano lì a dimostrarlo.
[Maurizio Giuffrè 29/01/2017]

La donna dai capelli rossi, Orhan Pamuk

Un viluppo d’amore incestuoso, ricalcato sull’Edipo re di Sofocle, inghiotte uno dopo l’altro i personaggi dell’ultimo romanzo di Orhan Pamuk, La donna dai capelli rossi (traduzione di Barbara La Rosa Salim, Einaudi, pp. 266, euro 19.50) sciogliendo i nodi dell’intreccio solo in prossimità dell’epilogo, quando al lettore verrà rivelato come il libro che ha per le mani sia stato scritto, innanzi tutto, per argomentare la difesa al processo per parricidio di cui è imputato il personaggio di nome Enver, figlio di una clandestina notte d’amore. A consumarla, l’allora diciassettenne Cem, protagonista del romanzo e sua voce narrante, e la teatrante Gülcihan, quasi il doppio degli anni di lui, che scelse un giorno di farsi più seducente tingendosi i capelli di rosso, e che prima di concedersi da Cem era stata a lungo l’amante del padre di lui.
Satura di coincidenze e di consequenzialità strette come le maglie del destino, la trama degna di un feuilleton è scritta dal figlio assassino per ricostruire la cornice e la genesi del delitto, ma viene affidata alla voce narrante di suo padre, che all’epoca in cui tutto ebbe inizio, la metà degli anni ottanta, era un ragazzo intento a mettere da parte qualche soldo per l’università aiutando il suo mastro a scavare un pozzo.
Come già nel romanzo precedente, La stranezza che ho nelle testa, di cui era protagonista un povero venditore ambulante, le pagine migliori sono quelle in cui si realizza l’empatia di Pamuk con lo sforzo fisico richiesto da un umile lavoro: qui, l’immedesimazione nei gesti monotoni e illusoriamente ostinati che, giorno dopo giorno, accompagnano lo scavo nella speranza di scoprire una falda acquifera in fondo al pozzo. Ma appena una pausa vacanziera favorisce l’incontro del ragazzo con la donna dai capelli rossi, scocca la scintilla che accende in Pamuk il postmoderno messaggero d’amore e, come già nel Museo dell’innocenza, tutto il repertorio della seduzione viene dispiegato nel romanzo, fino a trovare legittimazione nella tragedia più fondativa dei nostri travagli psichici, L’Edipo re.
Ripercorriamo, insieme all’autore – in visita a Milano – alcuni passaggi del romanzo.
Lo sforzo estenuante sostenuto dal giovane protagonista Cem e dal suo mastro per arrivare a trovare l’acqua, ricorda il famoso detto turco che paragona il lavoro dello scrittore alla pretesa di «scavare un pozzo con un ago». Ci ha pensato mentre scriveva? Perché, in effetti, tutta questa ostinazione dei protagonisti nello scavare il pozzo, sembrerebbe avere, sì, una valenza realistica, ma anche alludere a altro…
Sì, ho pensato al detto turco, certamente, e ho costruito il romanzo in modo da farlo funzionare su due livelli, uno realistico e l’altro allegorico. I dettagli veritieri sono basati sul fatto che quando stavo per finire di scrivere Il libro nero, verso la fine del 1989, andai sull’isola di Heybeliada a un’ora da Istanbul, e lì, su un appezzamento di terra abbandonato, vidi due uomini che scavavano un pozzo. Io stavo sempre da solo in casa a scrivere, così poco a poco uno dei due cominciò a venire a chiedermi se avessi dell’acqua o se potesse attaccarsi alla elettricità, e via via nacque tra noi una qualche forma di amicizia. Man mano che il pozzo veniva scavato, i due uomini scomparivano alla vista, finché davanti ai miei occhi la piatta landa della terra tornò a essere deserta. Dopo circa un mese confessai di essere uno scrittore e chiesi ai due uomini di intervistarli e di registrare le loro storie. Dunque, il punto di partenza del libro è del tutto realistico, ma poi si è allargato a comprendere le questioni metafisiche che si affacciano alla mente di un adolescente, la descrizione della curiosità che anima il ragazzo e il suo venir meno, la rappresentazione del rapporto tra l’ingenuità di Cem e la saggezza del suo mastro. Mentre mi preparavo a strutturare il romanzo alternando significati reali e allegorici, pensavo per un verso a Padri e figli di Turgenev e per altro verso alle descrizioni di Freud.
Sulla scena del romanzo compaiono, per un breve lasso di tempo, due donne con i capelli rossi: una vanta il suo colore naturale, l’altra, che è la vera protagonista del libro, rivendica la scelta di ricorrere a una tintura. Non a caso, poche pagina più tardi, dirà che «la disputa tra originalità e contraffazione è una di quelle questioni per cui vanno matti i turchi». Quale ruolo hanno le due donne nella economia del romanzo e in quale relazione stanno con l’idea di questa contrapposizione tra vero e finto?
Intendevo sottolineare che il più delle volte, ciò che importa non è la autenticità dei fatti o la loro falsificazione, bensì l’intenzionalità che ha guidato i nostri gesti. È chiaro che i condizionamenti culturali incidono sulla interpretazione dei fatti, e sulla accentuazione di un aspetto o l’altro delle questioni. Nell’Europa del nord una donna con i capelli rossi viene di solito associata a un carattere rabbioso, alla facile perdita del controllo, mentre nella parte del mondo dove io abito non è certo frequente che questa tinta sia naturale e, allora, dietro la scelta di tingersi ecco che di nuovo ricompare l’associazione con tutta una serie di luoghi comuni che ne fanno un indice di malessere, di rabbia, di facili costumi. Erano queste costruzioni culturali, così determinanti, ciò che mi interessava mettere in risalto. La concezione medievale del personaggio si fonda sulla ripetitività di un carattere sempre uguale, unita al fatto di abbandonarsi fideisticamente nelle mani di dio; mentre, la modernità, soprattutto dopo l’esistenzalismo, prevede un personaggio artefice del senso che lo guida e dunque del suo destino. È chiaro che in quanto scrittore preferisco inventare caratteri capaci di attuare scelte, come lo è la donna che si tinge i capelli di rosso, nonostante tutto ciò che questo colore si porta dietro: non a caso ne ho fatto una teatrante. Ma alle spalle del mio romanzo c’è anche una motivazione politica: cominciai a scriverlo quando erano prossime le ultime elezioni, la situazione in Turchia andava incontro a una grande recrudescenza, aumentava il controllo e diminuiva la democrazia; ma nonostante questo, sempre più persone si preparavano a votare a favore di un leader molto autoritario. Sembrava fosse una sorta di mito, e analizzarlo è uno degli scopi che mi ha spinto a raccontare questa storia.
Lei ha scritto in un suo saggio che i romanzi sono narrazioni aperte ai sensi di colpa, alla paranoia, alla angoscia. Cosa intendeva?
Volevo dire che, in quanto lettore, amo i libri che chiedono di venire indagati, perché leggere vuol dire decodificare segni e simboli, andare alla ricerca di tutti i livelli di significato che il testo nasconde. E anche quando scrivo, ho nella testa e nel cuore questa disposizione paranoica, che mette in moto il processo investigativo. Certo, è più difficile ottenere un romanzo aperto alla paranoia se ci si dilunga in molte digressioni, che possono risultare depistanti: bisogna far capire bene al lettore quale elemento della narrazione possa essere recepito come arbitrario e quali siano i segnali da prendere in considerazione; ma nel caso di una novella contenuta, com’è La donna dai capelli rossi, mi è stato più facile concentrare la tensione psicologica dei personaggi, e evocare il senso di colpa che lei ricordava prima tra gli elementi da me segnalati come ingredienti di un romanzo. Qui, li ho messi in relazione con i miti contenuti nei classici greci e persiani, ai quali i personaggi si rifanno continuamente.
Diversamente da quanto avveniva quando cominciò a scrivere, per esempio nella «Casa del silenzio», dove l’unico personaggio a non parlare con voce propria era quello di una donna, negli ultimi romanzi lei va potenziato i suoi personaggi femminili, che esprimono il loro punto di vista in prima persona. Già nel suo libro precedente, «La stranezza che ho nelle testa», lei dotava Vediha, la sorella maggiore del protagonista, di una voce molto autorevole. Qui, il vero arbitro della vicenda è la donna dai capelli rossi che dà il titolo al libro. Sta sperimentando un nuovo punto di vista?
Sì, man mano che invecchio divento più femminista, e sto cercando di fare del mio meglio per raggiungere quella che è la mia massima ambizione: scrivere un romanzo esclusivamente dal punto di vista di un personaggio femminile, dove una donna parli per voce sola. Vorrei che il risultato fosse tale da indurre i miei detrattori a escludere che lo abbia scritto io. Se diranno: il romanzo può essere solo di una scrittrice donna, e Pamuk l’ha plagiata, mi faranno il più grande dei complimenti. Per ora, non ho raggiunto il mio obiettivo, perché ho sempre paura che, tra le parole che metto in bocca a una donna, qualcosa suoni falso.
In generale, le riesce meglio adottare la prima persona o la terza? Nei suoi romanzi sono presenti, spesso allo stesso tempo, entrambe le strategie narrative.
Dipende: spesso sono nel mezzo di una storia e mi ritrovo a pensare sia in prima persona che in terza. Quando succede comincio a tormentarmi perché la tentazione di cambiare il punto di vista è molto forte; ma poi è la natura della storia a dettermi la possibilità o meno di cambiare voce. Mettiamola così: ci sono volte in cui vorrei proprio essere una persona diversa, per esempio – appunto – una donna, e ce ne sono altre in cui mi limito a desiderare una presa di distanza dal personaggio che sto costruendo. Dopo tanti anni di lavoro, trovo che se un romanzo è lungo e corposo, come lo era La stranezza che ho nella testa, è meglio avere più punti di vista, più persone che parlano dicendo «io». E questo mi viene dall’esempio di Faulkner e di Joyce da una parte, ma anche di Akutagawa, il cui racconto «Nel bosco» è narrato da quattro voci diverse ed è all’origine di Rashomon, il grande film di Kurosawa.
Nelle mani dei suoi personaggi gli oggetti di uso quotidiano diventano contenitori di ricordi, capaci di fare precipitare i personaggi in una grande tristezza quando, maneggiandoli, pensano a chi li possedeva e ora non c’è più. Accadeva nel «Museo dell’innocenza», dove persino una forcina o il mozzicone di una sigaretta diventavano sacri; e succede anche in questa novella, quando dopo la scomparsa di Mahamut in fondo al pozzo, Cem resta a rigirarsi tra le mani le povere cose che entrambi condividevano. Si direbbe che lei facci degli oggetti elementi della narrazione carichi di un pathos speciale. È così?
Quel che mi interessa è vedere cosa resta delle cose quando sparisce l’essere umano, quando la scena è vuota. Allora, a me sembra che si crei una specie di aureola intorno agli oggetti, che io interpreto effettivamente come contenitori delle nostre storie, delle nostre vite.Così è per me, se penso al mio amato pettine che uso da anni, alla mia amata tazzina, o alla penna con cui scrivo i miei romanzi – eccola qui, insieme a quella che ho rubato all’albergo. Tutti gli oggetti che metto nei miei romanzi hanno, in effetti, una risonanza che va al di là della loro fisicità. Il loro ruolo è quello di amplificare l’esperienza dei personaggi e dirci qualcosa di chi li ha posseduti. Il protagonsita del Museo dell’innocenza era nel mezzo di una crisi sentimentale, e mi piaceva che l’intensità del suo malessere si cogliesse soprattutto dalla scelta di maneggiare alcuni degli oggetti appartenuti alla sua fidanzata e altri non toccarli affatto.

Cremlino di zucchero, Vladimir Sorokin

Lavorano, in fabbrica e in redazione, bevono il tè e passeggiano per i boschi, secondo il più irreprensibile realismo socialista. Poi tutti, in ogni racconto, tirano fuori un pacchetto con un blocchettino di sostanza scura, la cui consistenza e odore sono abbastanza inequivoci. Si siedono e mangiano. Questa era la Norma dell’alienante quotidianità sovietica nella lettura di Vladimir Sorokin, angelo nero della letteratura clandestina e del postmoderno russo, scandalista per eccellenza, divoratore e dissettore della parola altrui, dotato da sempre di un fiuto rabdomantico per i mutamenti della società attraverso la lingua, e viceversa.
A distanza di trent’anni nulla è cambiato. Oggi, tra le pieghe di ognuno dei sedici racconti appena tradotti da Denise Silvestri con il titolo Cremlino di zucchero (Atmosphere, pp. 202, euro 16,00), fuori e dentro metafora, i pii e devoti sudditi di una nuova autocrazia suggono e sgranocchiano mura, torri e campanili di zucchero, ambitissimi frammenti dei modellini commestibili di cui ogni Natale il Sovrano fa dono sulla piazza Rossa. A riceverli sono i bambini – senza i quali non è data manipolazione della coscienza – ma poi è dagli adulti che vengono conservati per mesi, consumati ritualmente e spesso regalati: il cuore russo non si smentisce mai.
I sudditi continuano a essere proni, indifferenti, interamente assoggettati a un nuovo diktat ideologico, un diktat condito ora di patriottismo, religiosità superstiziosa e oscurantista, che ibridata con il culto della personalità dell’autocrate di turno ha già i connotati della teocrazia, pur conservando l’arbitrio violento delle polizie segrete nell’epoca sovietica, la persecuzione e schiavizzazione degli oppositori e soprattutto la demonizzazione dei nemici di sempre, l’America e l’Occidente, l’isolamento dai quali è garantito da misure ancora più radicali che in passato, per esempio la costruzione di una Grande Muraglia. Non fosse per quest’ultima e per le mise medievali degli aguzzini, la distopia di Sorokin si attaglierebbe perfettamente alla più stretta attualità. Immaginando a brevissima distanza (l’azione si svolge nel 2028 e il libro russo è del 2008) rivoluzioni e cataclismi che imprimono alla storia russa una radicale inversione di marcia, Sorokin non si fa beffe della verosimiglianza, piuttosto accentua il già avviato radicamento – ovvero l’eternità – delle devastanti implicazioni socio-culturali da cui muove la sua ipotesi futuribile.
Cremlino di zucchero è il secondo tassello di una trilogia dedicata al medioevo prossimo venturo, aperta nel 2006 da La giornata di un opricnik (uscito in italiano, sempre per Atmosphere, nel 2014), narrato in prima persona e con grande veemenza dal carnefice eponimo (dei pretoriani di Ivan il Terribile), e chiusa nel 2010 con La tormenta (in italiano per Bompiani nel 2016) dove, in uno stile del tutto ottocentesco, un eroe volitivo e altruista, anche lui d’antan, viene proiettato in una natura arcana e matrigna, dove può accadere che il pattino di una slitta trainata da cavallini miniaturizzati si conficchi nella narice di un gigante congelato, alto sei metri.
L’estremizzazione degli estremi è la coordinata culturale su cui più ostinatamente fa gioco Sorokin: pettini che svolazzano da soli tra i capelli e pellicce vivipare che inghiottono la neve trasformandola in calore accanto a palazzi riscaldati con le stufe a legna, ritagli di giornale al posto della carta igienica, file onnipresenti. A ogni angolo della città si incoraggia la morale con pubbliche fustigazioni, le donne girano con il capo coperto, le strade sono invase da orde di mendicanti, mentecatti, santi folli con cani elettrici e macchine intelligenti sul petto nudo. Tutti ugualmente prostrati agli strapotenti opricniki, sgherri tronfi e spietati che maramaldeggiano su supercar con teste di alani neri conficcate sul paraurti: ogni mattina nuove teste fresche. E se tutta la nomenclatura delle professioni e delle istituzioni rimanda alla Moscovia cinquecentesca, la tecnologia è sempre rigorosamente importata dalla Cina, a sanzione profetica di un vassallaggio commerciale, culturale e persino linguistico (che va ad accrescere il melting pot di sfrenati neologismi e arcaismi).
La scelta dell’epoca di Ivan il Terribile non è casuale: proprio là dove Mosca consolida rapacemente una nuova entità di stato, tagliando ogni nesso con le antiche tradizioni di democrazia partecipata, nascono la coscienza e l’identità nazionale e alloggia la memoria comune. Dell’immaginario collettivo russo nel corso dei secoli danno dunque conto, con una lingua plastica e prensile, che imita tutto quanto culturalmente riconoscibile, i racconti di Cremlino di zucchero: c’è il rito del bere variamente declinato; c’è il dolore come collante d’umanità per le congreghe di storpi erranti, per i forzati che costruiscono la Grande Muraglia, per gli orfani e le vedove dei nemici del Sovrano; c’è la sottomissione dell’operaia neoassunta che deve prestarsi nel magazzino dei Cremlini alle brame sessuali del caporeparto, con la consolazione di poter leccare di soppiatto il fatidico zucchero; c’è l’angoscia della campagna, regredita agli albori della servitù della gleba, dove i sentimenti soggiacciono all’atrofia, il tempo è pesante e sfilacciato; e c’è il piccolo uomo vittima del potere, incarnato da un nano che fa il saltimbanco a corte e cura la nostalgia per la sua nanetta imprigionata ubriacandosi con il robot-servitore che, dopo aver assistito impassibile agli oltraggi perpetrati al ritratto animato del Sovrano, lo porta a letto addormentato come un bambino.
Ogni racconto ha la sua veste stilistica, in uno spettro che va dal dramma naturalista alla letteratura erotica, ma più sorprendente ancora è il dedalo di narrazioni a cornice generato dal procedimento: la fiaba sovversiva che si materializza nell’aria durante l’interrogatorio, la spy-story alla «granderussa» nella cronaca delle riprese di un film, la salmodia ritmizzata d’insulti del nano al Sovrano, il Cremlino di cocaina (infinite le variazioni sul bianco!) che trasforma il sogno della Sovrana in delirio narcotico. Sterminata la rete di rimandi letterari e culturali, di autocitazioni (il racconto La coda è una virtuosistica replica del testo d’esordio di Sorokin) e duplicazioni simmetriche di motivi della trilogia. Tra queste, le visioni di gruppo sotto effetto degli allucinogeni si fanno emblema di un irreversibile pessimismo: se i carnefici della Giornata di un opricnik si erano mutati in un drago a sette teste per andare a fare razzia e stragi negli Stati Uniti, ora gli oppositori si trasformano in lupi per divorare la famiglia reale, e la più giovane fra loro sbrana anche il figlio piccolo del Sovrano, nelle cui tasche trova il Cremlino di zucchero, anch’esso ingurgitato.
La materia – una materia assoluta, primigenia, metafisicamente fisica – è da sempre al centro della poetica di Sorokin: dal Lardo azzurro che distilla l’essenza della creatività al Ghiaccio che racchiude occulte entità extraterestri. Adesso è l’intera società neoveteromoscovita, popolata di esseri leggeri, sodi, gonficci, di macchine morbide che si umanizzano, a mutarsi in un magma indiviso di passività, cecità, animalità. Al centro del libro c’è la visione di una bambina il giorno in cui il vero Cremlino è stato dipinto di bianco: pian piano l’entusiasmo e il turgore del sentimento travalicano, sgretolando la sintassi, la logica e la sanità mentale in un compulsivo delirio religioso.
In Russia Sorokin si ama o si odia. Non sono date mezze misure. In traduzione l’intensità materica della sua parola nuda e sempre segnata dall’impronta altrui è giocoforza smussata. Ma l’esito non si discosta poi molto dall’originale, anche grazie alle versioni di Denise Silvestri, traduttrice dell’intera trilogia, che pur non immuni da pecche – ma sorprenderebbe il contrario in un testo costantemente al limite della traducibilità – sono agili e spigliate e ci consegnano un organismo vivo, duttile e di inconfondibile singolarità.
[Mario Caramitti 29/01/2017]

venerdì 20 gennaio 2017

Hotel Rigopiano

Diminuisce di ora in ora, la speranza di trovare persone vive sotto l’immenso cumulo di macerie, rocce, detriti, alberi sradicati e neve, tanta neve, che i soccorritori hanno trovato al posto dell’Hotel Rigopiano, investito mercoledì alle 17 circa da una anomala e potentissima valanga provocata dalle recenti scosse di terremoto. Il silenzio dei cani delle unità cinofile raggela più delle temperature polari e delle forti raffiche di vento che spazzano questa splendida località ricca di boschi dove sorgeva il resort di lusso, a 1200 m di altitudine, sotto i monti Siella e Tremoggia del massiccio del Gran Sasso, per raggiungere la quale bisogna percorrere da Farindola (Pe) 12 km circa di strade tortuose e difficili anche d’estate.
E infatti, la colonna di soccorsi della Protezione civile – 135 uomini specializzati e 25 mezzi, compresi due elicotteri, del Soccorso alpino e speleologico, il Cnsas, di Vigili del fuoco, Guardia di finanza, Croce rossa, polizia e carabinieri – è riuscita a raggiungere il luogo della tragedia solo alle 14 di ieri, dietro la turbina dell’Anas che faticosamente e per oltre venti ore ha lavorato per aprire un varco tra i muri di neve che raggiungevano in alcuni punti i quattro metri di altezza. Fino a ieri sera, al momento di andare in stampa, i corpi estratti erano quattro, mentre mancherebbero ancora all’appello 24 ospiti dell’hotel, tra i quali quattro bambini, e sei dipendenti. Due soli al momento i superstiti, salvati all’alba di ieri dagli scialpinisti del Soccorso alpino abruzzese (Gdf e civile) che nella notte, fallito un primo tentativo della turbina dell’Anas (che percorre 700 metri l’ora ed era sottodimensionata rispetto alle esigenze, ed è dunque andata presto ko), hanno inforcato gli sci con le pelli di foca e hanno raggiunto la struttura attraversando le montagne, giù da Campo Imperatore.
La scena che si è aperta ai loro occhi, commossi, quando ancora l’alba era lontana e dopo ore di fatica e sofferenza bestiale, ricorda i racconti dei primi soccorritori nel terremoto di Avezzano, A.D. 1915.
«Mai vista così tanta neve, mai trovata una situazione così difficile», riferisce uno di loro. Secondo il resoconto di Walter Milan, referente stampa del Cnsas, che ieri pomeriggio era sul posto, «la valanga mostra un fronte lungo più di 300 metri, la struttura è completamente trasfigurata, spostata di diversi metri» rispetto alla sua posizione originaria, dall’impatto con la valanga che prima ha «raso al suolo anche un bosco nei pendii superiori». Materassi e suppellettili sbucano fuori tutt’attorno dalla coltre di macerie, detriti e neve, come si vede anche dalle prime immagini.
L’unico ambiente del resort a quattro stelle che si riesce a raggiungere è il piano della spa, collegato però al piano superiore dove si trovava la hall solo attraverso un ascensore, come racconta un habitué dell’hotel a Radio 24.
A dare l’allarme per primo, con un sms inviato alle 17,40, era stato Giampiero Parete, un cuoco 38enne di Pescara che si è salvato perché in quel momento si trovava nel parcheggio auto, insieme a Fabio Salzetta, manutentore dell’albergo, e da lì ha visto la montagna seppellire la struttura dentro la quale si trovano ancora sua moglie e i suoi due figli di 6 e 8 anni. «Quando è arrivata la valanga sono stato sommerso dalla neve ma sono riuscito ad uscire dalla coltre – ha raccontato Parete che ora è ricoverato all’ospedale di Pescara ma non è in pericolo di vita – Ho provato a rientrare in hotel ma ho rischiato di rimanere intrappolato, allora mi sono aggrappato ad un ramo e sono uscito. La macchina non era sepolta, lì dentro abbiamo atteso i soccorsi».
L’uomo ha chiesto aiuto al suo datore di lavoro, Quintino Marcella, ristoratore di Silvi Marina che ha raccontato di essersi «attivato subito», tentando «inutilmente» di dare l’allarme per ore, contattando «tutti i numeri possibili», compresa la prefettura dalla quale, riferisce Marcella, avrebbe ricevuto solo risposte rassicuranti. «Non mi hanno creduto», ha spiegato il ristoratore, raggiunto ieri dal manifesto, che versa ora in uno stato di profonda angoscia. «Giampiero e tutti gli altri ospiti dell’albergo avevano pagato ed avevano raggiunto la hall, pronti per ripartire non appena sarebbe arrivato lo spazzaneve. – è il racconto del signor Marcella – Gli avevano detto che sarebbe arrivato alle 15, ma l’arrivo è stato posticipato alle 19. Avevano preparato già le valigie, tutti i clienti volevano andare via».
Un ritardo inspiegabile, al momento. Da giorni la zona, come molta parte dell’Abruzzo, era battuta da bufere di neve e mercoledì mattina i gestori del Rigopiano (l’hotel, sorto in un vecchio casale di famiglia, è stato inaugurato nel 1972 e ristrutturato nel 2007, con annessa denuncia per abuso edilizio che però è stata ritenuta infondata dal processo che si è concluso a novembre 2016) avevano richiesto l’intervento dello spazzaneve. I soccorsi, secondo la Protezione civile, si sarebbero mossi da L’Aquila e da Pescara intorno alle 18. «Appena abbiamo saputo, non con certezza ma solo che poteva esserci una possibilità, abbiamo subito mandato una colonna mobile», ha fatto sapere la prefettura.
Ma un’ora dopo, a Cupoli, a 11 km dal Rigopiano, le avanguardie si sarebbero rese conto che sarebbe stato impossibile, con i mezzi a disposizione, affrontare quella bufera che accumulava «20 centimetri di neve ogni 500 metri». La rinuncia ai mezzi pesanti è parsa subito d’obbligo. Poi, intorno a mezzanotte, anche le campagnole con le quali i soccorritori avevano tentato di proseguire, si sono fermate. I telefoni cellulari non prendevano, quelli dei dipendenti dell’albergo che nel frattempo erano stati contattati non squillavano. A quel punto solo gli scialpinisti potevano tentare l’impresa di raggiungere l’hotel.
Il resto dei soccorsi si rimetterà in moto solo al mattino dopo. A Penne viene allestito il centro di coordinamento dei soccorsi. Ma la procura di Pescara ha già aperto un’inchiesta: si indaga, contro ignoti, per omicidio colposo.
[Eleonora Martini 20/012/20.17]

Behind the Mountains, Ragnar Axelsson

Il ghiaccio è malato: parole che colpiscono Ragnar Axelsson (detto anche Rax), quando per la prima volta – oltre vent’anni fa – le sente pronunciare da un vecchio nella città più a nord del Circolo Polare Artico. Da quel momento, quella che è una fascinazione per il paesaggio artico quasi irreale e le persone che lo abitano (prevalentemente Inuit) diventa una missione per Rax (Kopavogur, Islanda, 1958).
Conosciuto per le straordinarie fotografie che parlano di sfida, sopravvivenza, orgoglio e anche di un silenzio millenario – tra i suoi libri più noti Faces of the North (2004), Last Days of the Arctic (2010) e Behind the Mountains (2013) – Axelsson ha scelto di continuare a documentare negli anni il destino del grande Nord per sensibilizzare l’umanità sui problemi che investono tutti: dalle repentine trasformazioni economiche e sociali a quelle climatiche. Tematiche affrontate in occasione della mostra Artico. Ultima frontiera (a cura di Denis Curti) alla Casa dei Tre Oci di Venezia (fino al 2 aprile) in cui il lavoro dell’allievo di Ingibjörg Kaldal e di Mary Ellen Mark è affiancato dai reportage dell’italiano Paolo Solari Bozzi e del fotografo-biologo danese Carsten Egevang.
Passione o ossessione? È dal 1987 che l’Artico è il soggetto delle sue fotografie…
In realtà ho cominciato prima, ma dall’87 ho iniziato a fotografarlo sistematicamente. Ci torno ogni anno per almeno due settimane ma posso restare anche quattro o cinque. Dipende dal luogo di destinazione. In principio, mi hanno portato lì le vecchie storie dei grandi esploratori che avevo letto. Stavo anche imparando a volare. Il mio primo viaggio in Groenlandia è stato su un’aeroambulanza. Ero copilota, ci occupavamo del soccorso di persone in pericolo. Andammo a recuperare un paziente che si era fatto male, ma per due o tre ore non riuscimmo a trovarlo perché era ubriaco. Quello che avevo visto non mi era piaciuto; più tardi, trovai i miei grandi eroi nei cacciatori Inuit che vivono nel ghiaccio da così tanto tempo.
Qual era il confine tra la sua immaginazione e la realtà?
Volevo conoscere chi viveva in un posto del genere, così diverso da quello in cui vive chiunque di noi. La realtà? Faceva freddissimo. Allora non pensavo certo al cambiamento climatico o cose del genere: in ogni momento mi congelavo. Ho verificato le difficoltà che dovevano affrontare le persone del luogo per poter vivere in quelle condizioni, cacciando da centinaia di anni per sopravvivere. È una lotta. Ora i tempi sono cambiati, ma la loro era una vita affascinante, così lontana dall’immaginazion e destinata a svanire: le nuove generazioni si rifiutano di cacciare. Vogliono confrontarsi con uno stile di vita diverso.
Nelle sue foto vediamo anche le donne. Hanno un ruolo particolare in quella società?
All’inizio non le riuscivo a fotografare. Diversamente dai cacciatori non trascorrono molto tempo fuori. Stanno spesso in casa e non amano farsi fotografare. Con gli uomini, poi, è più facile, perché non si pongono il problema se vengono bene o se hanno il vestito giusto. Ora, però, mi sto occupando di più delle donne in Groenlandia e in tutto il resto dell’Artico. Anche loro sono delle eroine.
Come fotoreporter del quotidiano «Morgunblaðið» – per cui lei lavora dal 1976 – è abituato a fotografare a colori, ma per il progetto dell’Artico ha sempre utilizzato il bianco e nero…
Da ragazzo sono cresciuto leggendo e guardando riviste come Life, Stern, Paris Match, dove le immagini erano in banco e nero. Ho iniziato anche a fare pratica nella camera oscura di mio padre, che fotografava parecchio. La fotografia in bianco e nero è stato un passaggio naturale. Tutte le immagini del mondo sono a colori, ma il bianco e nero lascia spazio per l’immaginazione. Poi, soprattutto quando si è in Groenlandia, in mezzo alla neve, il bianco è l’unico colore. A volte, c’è anche l’azzurro. Il bianco e nero in camera oscura permette di aggiungere qualcosa dei propri sentimenti.
Viaggiare nell’Artico comporta delle difficoltà. Le è mai capitato di sentirsi in pericolo, di sperimentare la paura?
Come fotoreporter ho vissuto momenti difficili. Quando ci si trova in paesi come la Groenlandia, o anche l’Islanda, si combatte contro il tempo atmosferico, contro il freddo. Non c’è altro che il ghiaccio e questo può venire giù. O improvvisamente può alzarsi la bufera. È una questione di minuti, dieci minuti e la tempesta si abbatte su di te. Non penso mai al pericolo, ma il rischio è palpabile. Del resto se ci pensassi, non mi muoverei più. Con l’età che avanza, si diventa più accorti. A 25 o 30 anni, la vita è infinita. Ma credo che se si è positivi, nel giusto stato d’animo, si affrontano meglio le situazioni. Un cacciatore, una volta, mi ha detto che il sole sorride a chi esce felice, senza preoccupazioni. Credo sia così per qualsiasi cosa della vita. Almeno per me lo è.
La potenza della natura è al centro delle sue fotografie, ma allo stesso tempo ne viene sottolineata la vulnerabilità con i drammatici grandi cambiamenti climatici…
Sì, sta succedendo velocemente. All’inizio non ne ero consapevole. Un vecchio che ho incontrato a Thule, la città più a nord del Circolo Polare Artico, quando passavo davanti a lui – ci passai ogni giorno, nei cinque che sono stato lì – annusando l’aria mi indirizzava frasi che non capivo, finché non ho chiesto a un amico di tradurre le sue parole. «C’è qualcosa di sbagliato – diceva – Non dovrebbe essere così. Il grande ghiaccio è malato». Cominciai a pensare a quelle parole, perché venivano da qualcuno che sapeva cose che altri non potevano conoscere. Mi chiedevo cosa realmente stesse accadendo. Quella è stata la mia prima considerazione sul cambiamento climatico e tutto, poi, si è succeduto repentinamente. Sulla parete, qui accanto, ci sono due immagini con un iceberg, che ho scattato nel fiordo di Sermilik, dallo stesso punto ma a una distanza di vent’anni l’una dall’altra – nel 1995 e nel 2015 – nello stesso periodo dell’anno. Immagini che mostrano quanto sia spaventoso quello che sta succedendo: nella seconda, infatti, il ghiaccio è quasi del tutto sparito. Ecco perché ho deciso di continuare a fotografare l’Artico, pubblicare libri e fare mostre. È diventata una missione per le generazioni future. I ghiacciai si stanno sciogliendo e tra duecento anni non ci saranno più.
C’è una ricetta culinaria islandese – l’Hakarl con lo squalo fermentato – molto simile al Kiviaq degli Inuit: foca farcita di gabbiani e altri uccelli marini lasciati a decomporre…
In Groenlandia la foca viene riempita con gli uccelli e poi interrata. È terribile! (ride). Non l’ho mai assaggiata, però ho mangiato lo squalo. Il Kiviaq è un piatto tradizionale che appartiene al passato legato alla sopravvivenza, perché era un modo per mettere da parte del cibo quando non si era in grado di cacciare. È tipico del nord, dell’area di Thule, in altre zone non è diffuso.
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SCHEDA

«Artico. Ultima frontiera. Fotografie di Paolo Solari Bozzi, Ragnar Axelsson, Carsten Egevang (a cura di Denis Curti), realizzata in collaborazione con Fondazione di Venezia e Civita Tre Venezie alla Casa dei Tre Oci di Venezia (fino al 2 aprile) è un racconto sincero e corale attraverso 120 scatti in bianco e nero che conducono nel lungo silenzio d’inverno, sospeso nella dimensione atemporale della neve e del ghiaccio che si anima con lo scatto di un cane, la velocità di una slitta, la mano di un cacciatore, il verso delle foche, l’odore del bue muschiato. Ma la mostra è, soprattutto, un grido d’allarme, come ricordano i documentari che accompagnano l’esposizione – «Chasing Ice» (2013) di Jeff Orlowski, «Sila and the Gatekeepers of the Arctic» (2015) di Corina Gamma e «The Last Ice Hunters» (2016) di Jure Breceljnik & Rožle Bregar
[Manuela De Leonardis 20801/2017]

Mi è capitato, a cura di Aldo Colonnello


Nato ad Andreis, un piccolissimo paese friulano vicino a Pordenone, nel 1949, Federico Tavan è morto nella stessa Andreis nel 2013 dopo aver vissuto una vita difficile, fatta di ricoveri periodici dentro strutture psichiatriche – a partire dall’adolescenza – e di povertà, salvo usufruire negli ultimi anni dei benefici della legge Bacchelli. Era un poeta, Federico Tavan (a volte scriveva in italiano, più spesso in dialetto): un irregolare, nel senso che non rispettava precise logiche formali e non conosceva l’ortodossia del verso, e tuttavia possedeva una propria musicalità e un proprio stile.
LE SUE POESIE erano spesso personali, muovevano cioè dalle sue condizioni materiali di vita, come fossero – o potessero diventare – un osservatorio speciale sul mondo. Il mondo contro cui spesso si scagliava, con una rabbia e una indignazione simili a quelle di certe poesie politiche di Pasolini, di cui non a caso invocava il ritorno «in questo tempo» perché sentiva «il bisogno fisico/ di qualcuno che ritorni/ a sporcare». Nessun cliché o percorso scontato, certo si deve fare attenzione ad anteporre l’eccentricità alla sua scrittura. Tavan era infatti un poeta a prescindere dal suo disagio mentale, capace di fissare immagini fortissime pur nella loro scarna immediatezza.

DI LUI CI RESTANO alcune raccolte, alle quali ora si aggiunge la sua preziosa autobiografia, Mi è capitato (pp. 88, euro 15), appena pubblicata a cura di Aldo Colonnello e con la prefazione di Paolo Medeossi dalla casa editrice Forum di Udine (in collaborazione con il Circolo culturale Menocchio). E si tratta di un’opera cui può essere attribuito a sua volta carattere poetico a tutti gli effetti, al di là dei dati di verità che contiene.
Ciò che viene raccontato è una parabola biografica parziale, comincia dall’infanzia ma si interrompe nel 1968 – pur essendo stata scritta nel 1982.
All’interno di questo circoscritto spazio temporale Tavan riesce a dire tutto, anche cose tremende, e a farlo in poche pagine: la «vecchia, molto cattiva» che in paese chiamavano tutti strega e che, prima che Tavan nascesse, a sua madre incinta aveva preannunciato la nascita di un «mostro», di «qualche cosa che non è nostro», quasi prefigurandone le future difficoltà di vita, la nonna che parlava sempre, il padre che non si apriva mai, la solitudine fin da bambino, a scuola, poi il collegio, i rapporti con le donne, i ricoveri.
EPPURE, nonostante le vicissitudini dolorose, il tono è sempre lieve. L’immagine che ne emerge corrisponde bene a quella che di Tavan, con parole molto belle, aveva fornito Danilo De Marco (le cui foto peraltro arricchiscono il libro, insieme a quelle di Mario Dondero e di Paolo Medeossi): un uomo indifeso, che proprio grazie a questo era capace di dire, di essere e di fare quello che spesso non è capace di dire, essere o fare chi erge invece barriere fra sé e il mondo.
[Niccolò Nisivoccia 20/01/2017]

domenica 15 gennaio 2017

Il male oscuro, Giuseppe Berto


Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera. Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi avrebbe pubblicato di lì a poco.
Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda lui stesso in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto – e fu allora che «venne la nevrosi».
Il male oscuro è appunto il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene oggi l’espressione male oscuro sia usata indistintamente per definire la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il capolavoro), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al padre e ripeterne i gesti.
Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro. La verità non è quella che il libro dice, bensì quella di cui è fatto; la sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive «io» nel romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo: proprio dalla Cognizione è prelevata, del resto, l’espressione «male oscuro». (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le somiglianze tra i romanzi di Svevo e quello di Berto, a cominciare dal tema della morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario enunciativo, cioè la psicoanalisi come istigazione alla scrittura di un memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia Augusta, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo».
Proprio il confronto con La coscienza di Zeno, tuttavia, aiuta a capire quale diversa disposizione nei confronti della verità narrativa assuma il protagonista di Berto. La «distanza tra Svevo e Berto, verificata direttamente sulla pagina, appare incolmabile»: a osservarlo, giustamente, è Emanuele Trevi nel saggio che correda ora, insieme a una postfazione di Gadda (da «Terzo Programma», 1965), la nuova edizione del romanzo: Giuseppe Berto, Il male oscuro (Neri Pozza, pp. 512, euro 18,00).
Per il narratore del Male oscuro, raccontare non significa camminare sul bordo di un vuoto, facendo della reticenza e della bugia un sistema retorico, una chiave per accedere ai sensi impliciti. Nel Male oscuro, il vuoto viene saturato da un’unica eloquente diceria: la pagina, perciò, non è più un velo, come quello che Zeno stende tra sé e il passato, ma è una tela ossessivamente riempita di caratteri, in cui i motivi essenziali si ripetono, appena intervallati dalle virgole. Queste, d’altra parte, anziché organizzare il discorso, gremiscono una pagina già fitta come un quadro di art brut.
La verità non è, perciò, questione di controllo ed equilibrio, ma di esplicitazione ed eloquenza. Un horror vacui verbale, non meno sintomatico della menzogna, in cui si realizza lo stile psicoanalitico di Berto. Si può paragonare (non assimilare) questo modo narrativo con il flusso di coscienza; ma è più utile riflettere sulla poetica implicata da una simile scrittura, cioè sulla posizione che, attraverso lo stile, questa scrittura e il suo autore occupano nel campo letterario a loro contemporaneo. È lo stesso romanzo a dare le coordinate, accennando alla cura «di cui ora molti parlano alquanto superficialmente, come del resto fanno anche certi romanzieri nostrani per i quali il tocco psicoanalitico è dato dal particolare che Antonio da piccolo tirava la coda al gatto».
Gli scrittori dal «tocco psicoanalitico» usano la materia per alludere senza dire, costruendo il racconto intorno a un nucleo, a un nodo pulsionale o traumatico taciuto, o meglio non commentato. Berto all’opposto fa di quel nodo il tema di una continua affabulazione disperatamente polemica e umoristica, che procede avanti e indietro nel tempo come una lancetta mossa ad arbitrio sul quadrante.
Se il male è oscuro, Berto sfida l’oscurità come tecnica della narrazione e prospettiva della conoscenza. È una sfida sofferta e, nella vicenda del protagonista, perduta. Le diverse istanze – la scrittura, la paura del male e la cura, l’eros misogino – non si conciliano e anzi producono lacerazioni sempre più profonde, perdita affettiva, sconfitta professionale. Fino al conclusivo isolamento, che sfata il clima di un’epoca, gli ideali di progresso, la meccanica dell’ascesa sociale. L’aspirazione alla gloria letteraria resta insoddisfatta, l’ambizione di rivaleggiare con quelli che il protagonista chiama i «radicali» – gli intellettuali di successo, i Moravia, i Tecchi, i Bellonci – viene frustrata. Ma la frustrazione diventa una risorsa del racconto, permettendo al narratore di dipingere con la tinta del suo amaro umorismo la società culturale romana – gli scrittori di riferimento, i produttori, gli sceneggiatori «ai tavolini di Canova o Rosati a piazza del Popolo, o al caffè Greco o ai caffè di via Veneto» – e di prendere contropelo quel tratto di Novecento spesso idealizzato con nostalgia un po’ elitaria.
In quella frustrazione, si sconta certo anche la convinta militanza giovanile dell’autore dalla parte sbagliata. Ma il sentimento è elevato a stile e assunto come espressione idiosincratica del mondo: nel Male oscuro, osserva Gadda, il racconto di una nevrosi s’incrocia con quello di una psicosi, i «cittadini e cittadine della Città folle vengono colti e ritratti nei loro giudizi sbagliati, nei loro movimenti sbagliati».
Il male oscuro è un libro di peculiare importanza e di miglior tenuta rispetto ad altre opere emblematiche o programmaticamente sperimentali uscite negli stessi anni. Per almeno due motivi. Il primo è la rappresentazione di «un tempo in cui tutto va per via di amicizie e raccomandazioni», che somiglia al tempo in cui viviamo, tentati in pari misura – come l’eroe fallito di Berto – dalla rivolta e dalla rinuncia; oppressi e attratti da estinti modelli paterni, imbarazzati dal futuro (come il protagonista dinanzi alla figlia ormai cresciuta). Il secondo motivo è la scrittura, che resta leggibile anche nell’oltranza dello stile; una scrittura fatta per raccontare la realtà di tutti, attraverso il sentire patologico di un individuo che parla sempre di sé – è vero – ma che lo fa reagendo alle ossessioni di un’intera società.
[Niccolò Scaffai 15/01/2017]

martedì 10 gennaio 2017

La realtà assediata, Ricardo Piglia

Come Borges, scrittore che studiò e interpretò in maniera molto acuta, Ricardo Piglia fu prima ancora che l’autore di una produzione narrativa tra le più brillanti degli ultimi trent’anni, un grande lettore, con una capacità di ricerca e una visione di sintesi di cui è traccia evidente la sua opera critica, fondamentale per le lettere latinoamericane, e apprezzabile anche in italiano in L’ultimo lettore (2005).
Proprio il suo acume critico ha permesso a Piglia di disegnare un panorama della letteratura argentina in cui alcune tradizionali contrapposizioni storiche, tematiche e formali si sono risolte in una prospettiva nuova, che vede Borges, Arlt, Macedonio Fernández, Gombrowicz e Walsh come parte di una complessa e contraddittoria tradizione, che comprende pure generi considerati minori, come il romanzo poliziesco, il tango o il fumetto. La generazione più giovane si distaccò da quella prospettiva anche tramite polemiche cui Piglia non si è mai sottratto, ma ormai di quel disegno non si poteva più fare a meno, e la parabola della cultura argentina è servita poi come punto di riferimento per tutta la produzione artistica ispanoamericana.
ANCHE IN TUTTA l’opera narrativa di Piglia – cinque romanzi e altrettante raccolte di racconti, genere in cui è stato maestro indiscusso e che varrebbe la pena scoprire pure in Italia – la maestria del lettore deve innestarsi su una scrittura sempre poliedrica, in cui ogni romanzo è nello stesso tempo molti altri testi, dove narratori multipli si inseguono, e si accumulano una miriade di racconti intercalati secondo una tradizione ispanica di radice cervantina, ripresa in chiave postmoderna.
Fin dal primo romanzo, Respirazione artificiale, del 1980, la questione della trama e quella dell’identità – temi centrali nell’opera di Piglia – vengono posti da un’angolatura del tutto innovativa. Nell’incipit, una domanda radicale: «C’è una storia?», poi le diverse voci che si intrecciano nella narrazione cercano di rispondere indagando le vicende singole dei protagonisti all’interno della Storia del paese, in modo da produrre una domanda a cui non è possibile dare una risposta univoca, bensì solo azzardare ipotesi, smontare illusioni. Quando il romanzo venne pubblicato, la risposta ufficiale la dava un governo militare tra i più feroci della storia argentina, e Piglia fu capace di descrivere quegli orrori attraverso la lente di una lettura problematica e interrogativa della narrativa nazionale.
L’intreccio tra letteratura e storia avrebbe poi impegnato Piglia in un progetto che rimane come testimonianza della sua passione per l’incrocio fra la ricerca intellettuale e la sua diffusione per un pubblico più ampio: nel 1993 pubblicò infatti La Argentina en pedazos, antologia di versioni a fumetti di una serie di classici argentini, legati dal tema della violenza, affidati ai migliori disegnatori della grande scuola argentina: nelle brevi introduzioni di Piglia, la sua raffinata riflessione critica diventa patrimonio collettivo e, en passant, anticipa la gran voga futura delle graphic novel.
Nel secondo romanzo, La città assente, che seguì a ben dodici anni dall’esordio, i temi della storia, della violenza, della repressione politica si collegano a quello della produzione stessa dell’intreccio, dato che al centro del romanzo – strutturato in una serie di frammenti – c’è una «macchina per narrare», ricordo di una delle invenzioni di Macedonio Fernández, che si propone come la fabbrica di una narrativa non solo frutto dell’esperienza individuale, ma prodotto di una collettività che, attraverso queste storie spezzettate, cerca di costruire una memoria suscettibile di continui rinnovamenti, attuati tramite un linguaggio avvolgente e di grande impatto.
NEL FRAMMENTO intitolato «L’isola», la macchina per narrare risponde al potere che vuole chiudere il Museo della memoria con un’operazione di resistenza, che riproduce i ricordi svuotandoli però di ogni contenuto legato a un territorio, per riportarli a una comunità che risulta esserne la vera depositaria.
A partire dal terzo romanzo, Soldi bruciati (1997), la narrativa di Piglia si orienta decisamente al poliziesco, genere di cui dirigeva due collane. Qui, la scrittura breve e velocissima parte quasi come una sorta di cronaca di una rapina, anche in questo caso ricostruita da diversi punti di vista, per trasformarsi poi nella descrizione di un vero e proprio assedio della polizia ai rapinatori che si sono rifugiati in un appartamento.
L’intensità della narrazione cresce progressivamente, e assume i toni di un’epica dei perdenti contemporanei, quei banditi caduti in una spirale maledetta, che scelgono la via della violenza come unica strada segnata da un destino inesorabile.
Anche nel quarto romanzo, Bersaglio notturno (2010) non è difficile riconoscere il legame con il genere poliziesco, ma qui la corposità della storia permette l’inclusione di molte tra le ossessioni tipiche della narrativa di Piglia: i giochi prospettici, la molteplicità dei caratteri, una serie di vicende intercalate e parallele, oltre all’apparizione di un personaggio – quello di Emilio Renzi – che si trasformerà nel suo vero alter ego.
Ritornano poi personaggi al limite della pazzia, o macchine in grado di creare mondi immaginari, e il romanzo poliziesco mostra come l’enigma non si possa risolvere, il colpevole essendo niente altro che un capro espiatorio. Così, il genere si trasforma e diventa «romanzo paranoico», in cui la narrazione si apre sempre a nuovi sviluppi possibili, dentro e fuori il testo vero e proprio, ad esempio nella proliferazione quasi incontrollabile delle note a pié di pagina, che sviluppano quasi un metaracconto parallelo, una vertiginosa mise en abyme.
L’ULTIMO LIBRO pubblicato da Piglia, Per Ida Brown (2013) è anch’esso fatto da molti romanzi in uno: ci ritroviamo Emilio Renzi, trapiantato in un’università statunitense per una serie di conferenze su W.H. Hudson, autore inglese vissuto a lungo in Argentina, che rappresenta per lui il caso esemplare degli «scrittori legati a una doppia appartenenza, legati a due lingue e a due tradizioni».
Nel romanzo tutto sembra partire dalla letteratura – i motivi autobiografici, le riflessioni sui più diversi autori e sui testi, poi di nuovo l’impossibilità di sviluppo cui va incontro il genere poliziesco; tuttavia, l’ambientazione nel microuniverso di uno dei campus americani, «pensati per lasciare fuori l’esperienza e le passioni, ma in cui si muovono forti ondate di collera sotterranea: la terribile violenza degli uomini educati», trasforma il romanzo in una potente metafora della società contemporanea, e non solo di quella statunitense.
Del resto, l’attenzione insistita sulla trama poliziesca non risponde, nel caso di Ricardo Piglia, a un cedimento nei confronti di un genere popolare e di successo; l’autore argentino lo mette in discussione, lo scompone, e proprio grazie ad esso costruisce il suo dialogo con una cultura di massa da cui non vuole prescindere: lo avevano già fatto Walsh, Puig, Saer, scrittori che lavorarono su generi considerati popolari, e su cui Piglia ha riflettuto in maniera magistrale.
QUESTA STESSA RICERCA di dialogo ha guidato anche il suo impegno in senso più ampiamente culturale, come sceneggiatore per il cinema, o per la televisione, per la quale adattò due romanzi di Roberto Arlt in due serie trasmesse dalla televisione argentina nel 2015, oppure nella direzione della collana La serie del recienvenido, dedicata a classici moderni argentini, riscattati dalla furia della dimenticanza prodotta dall’industria editoriale contemporanea.
L’ultimo progetto di Piglia, quello da lui definito come il più importante della sua vita, fu la pubblicazione dei suoi diari e coincise, in parte, con la diagnosi e la successiva battaglia contro la Sla, la malattia di cui è morto. Due di questi volumi sono già stati pubblicati, mentre l’ultimo è atteso per quest’anno: scritti a cominciare dall’età di quindici anni, i diari coprono tutti i molteplici interessi dello scrittore argentino, e non offrono solo uno sguardo indiscreto sul laboratorio dell’autore.
Attribuendoli al suo alter ego Emilio Renzi, Piglia compie l’ultimo gesto di borgesiano distacco dalla propria opera, e così consegna al lettore «l’altro Piglia», l’unico che ci resterà attraverso le sue pagine, che appartengono ormai «al linguaggio o alla tradizione»
[Stefano Tedeschi 10/01/2017]

sabato 7 gennaio 2017

Terremoto, neve e gelo sull’Appennino.

La neve sull’Appennino, in sé, è un fenomeno naturale, almeno d’inverno. Ma nelle zone terremotate basta davvero molto poco per trasformare qualche disagio in un’emergenza, l’ennesima. Da giovedì sul centro Italia ha cominciato a soffiare un vento gelido che, in breve, ha portato con sé anche la neve, dalla costa alle montagne, tra ghiaccio sulle strade e la colonnina di mercurio che raramente supera quota zero durante la giornata. Qualche miglioramento è previsto per la giornata di domani: le temperature resteranno rigide, ma almeno dovrebbe smettere di nevicare.
La situazione era prevista: sin dalla prima scossa – quella del 24 agosto, che ha demolito Amatrice, Arquata del Tronto e Accumoli – si è subito cominciato a dire che bisognava muoversi a sistemare i superstiti, perché l’inverno ci mette un attimo ad arrivare e i problemi aumentano così in maniera esponenziale.
Dei novemila assistiti dalla Protezione Civile, in 3.200 sono rimasti vicini ai propri paesi distrutti e ora sommersi dalla neve: situazione complessa, ma le strutture installate per l’accoglienza sono tutte munite di riscaldamento e dunque si resiste. In Umbria, dove alcune decine di persone ancora dormono in tenda o in roulotte in attesa delle sospirate casette di legno, la situazione si è fatta complicata soprattutto nella zona di San Pellegrino (nei pressi di Gualdo Tadino), dove la temperatura è calata anche a meno quindici gradi e il campo d’accoglienza è stato ricoperto dalla neve. La Protezione Civile ha provveduto comunque a sgomberare le vie di accesso e a offrire assistenza a chi ne aveva bisogno.
Forti disagi anche sulla parte marchigiana della Valnerina: qui, nella giornata di giovedì, la rottura di un mezzo spargisale ha lasciato sostanzialmente isolati Visso e Castelsantangelo e altri comuni più piccoli.
«È stata una giornata da dimenticare – questo il racconto del sindaco di Visso Giuliano Pazzaglini –, soprattutto a causa delle carenze del piano neve dell’Anas: molti automobilisti sono rimasti bloccati perché i mezzi pesanti non ce la facevano a procedere ed erano costretti a mettersi di traverso sulla carreggiata. Quando la strada era gestita dalla Provincia di Macerata non ricordo criticità come queste».
Il problema riguarda soprattutto chi è stato alloggiato lontano dal proprio paese e deve tornarci ogni giorno per lavorare, macinando chilometri di strada. La difficile situazione della viabilità ha costretto diverse aziende a lavorare in maniera ridotta: ennesimo rallentamento in un processo di ritorno alla normalità che già sta procedendo a passo di lumaca.
L’Epifania ha comunque regalato anche una buona notizia al paese: nonostante l’ondata di maltempo sono state portate in salvo quasi tutte le pergamene rimaste sotto le macerie della sala del consiglio comunale, perché si continua a lavorare anche sulle macerie imbiancate. «Per noi è un patrimonio importantissimo», spiega ancora Pazzaglini.
Altri disagi, in compenso, vengono segnalati da Coldiretti, che lamenta l’enorme difficoltà che gli allevatori di bestiame sono costretti ad affrontare in queste condizioni proibitive. «Con le temperature a picco e l’aumentare dei disagi per le aziende – si legge in una nota – è importante l’arrivo e il completamento delle strutture previste dal decreto varato dal governo, risolvendo anche i problemi dell’allaccio di energia e acqua, così da permettere la continuità dell’attività di allevamento e, con essa, la ripresa dell’economia che in queste zone significa soprattutto cibo e turismo».
Anche Amatrice è stata ricoperta da una coltre di neve da svariati centimetri: i vigili del fuoco continuano a lavorare senza interruzione all’interno della zona rossa, con qualche interruzione per uscire fuori e mettere in sicurezza la rete viaria, che è risultata percorribile senza eccessivi problemi anche durante le ore di bufera.
Intanto la terra continua a tremare, in uno sciame di assestamento che va avanti ormai da mesi senza sosta: decine di scosse, la più forte delle quali è arrivata a 3.3 gradi sulla scala Richter, giovedì mattina, con epicentro in provincia di Macerata. Il terremoto è stato avvertito quasi ovunque nel già provato fazzoletto di terra tra le Marche, l’Umbria e il Lazio. Ormai però nessuno sembra farci più caso.
[Mario Di Vito 07/01/2017]

Il nome dell'isola, Fabio Greco

Ambientato nell’Isola delle Pazze, – frammento del Salento che esiste davvero, – il protagonista del primo romanzo del giovane Fabio Greco, Il nome dell’isola (Autori riuniti, pp. 125, euro 14), si chiama Masello ed è uno scultore di cartapesta. Il suo principale committente è Don Polonio, in perenne ritardo nei pagamenti.
Un giorno Don Polonio arriva a bottega e chiede a Masello una nuova statua della Madonna dell’Aiuto perchè la vecchia si è rotta. Dopo mesi di lavoro, in cui si arriva addirittura a selezionare il tipo di testi scritti da macerare per avere una cartapesta migliore, – facendo sapiente ironia sull’attuale letteratura giornalistica e di intrattenimento delle patrie lettere, – la nuova Madonna appare in chiesa. Ma crea perplessità tra i fedeli. È troppo in carne, troppo gioiosa e sorridente, rispetto alle pie Madonne della tradizione.
LO STESSO si potrebbe dire di questo spettacolare romanzo d’esordio, che esibisce come suo vero personaggio principale una lingua madre sontuosa e magmatica, gaddiana, a tratti quasi dantesca, che prende per mano il lettore e lo strattona in incursioni mirabolanti, come nel finale, con una bara che non passa dalla porta di casa e navigherà di mano in mano sui tetti del paese: un altro piccolo capolavoro comico e descrittivo.
Fabio Greco è nato a Saronno nel 1977. Ha vissuto nel Salento, ma oggi abita e lavora come biologo in Essex, Inghilterra. Finalista alla XXVII edizione del premio Italo Calvino, questo suo primo romanzo ci racconta di un Salento inedito, certamente meno patinato di quello a cui ci ha abituato il recente cinema italiano. Qui il Sud Italia è tutto sospeso tra allucinazione e realtà, tragedia e commedia. E il virtuosismo linguistico non è mai fine a se stesso. Al contrario, nel libro sono tanti gli episodi e, soprattutto, i personaggi memorabili. Due su tutti. Entrambi femminili. La vecchia Amanda che vede nell’improvvisa morìa di meduse sulla spiaggia un inequivocabile segno di malasorte e, non a caso, definisce il mare «puttano». E Mariabbondanza, di cui Masello si invaghisce, una venere giunonica che va a pescare da sola, una valchiria di un’opulenza che stride con la sterile povertà di un meridione sospeso tra neoneorealismo, iper-realismo e surrealismo. Il primo libro di Fabio Greco è un piccolo e raro gioiello letterario.

venerdì 6 gennaio 2017

E' morto Tulli De Mauro Il grande linguista italiano

Esistono due discipline imparentate tra loro che spesso, come accade in ogni famiglia degna di questo nome, si guardano in cagnesco. La prima è la linguistica, scienza rigorosa che punta a una descrizione fine dei più diversi fatti di parola: la sintassi e la grammatica, la trasformazione fonetica o i problemi generati dal lessico di qualunque lingua umana. La seconda, una strana creatura dal nome «filosofia del linguaggio», sembra librarsi, eterea, nel cielo della speculazione teorica. Non di rado questa diffidenza produce una cecità al quadrato. La linguistica rischia di perdersi nel dettaglio, senza riuscire a fornire uno sguardo di insieme circa il significato antropologico di quel fenomeno, umano e multiforme, che chiamiamo «parlare».
DI CONTRO, LA FILOSOFIA del linguaggio mainstream si ritrova sull’orlo di una crisi di nervi perché cede volentieri alla tentazione di fare filosofia a partire da una lingua, la propria: stranamente le forme più diverse che il linguaggio assume nella vita umana non collimano con le idiosincrasie del parlante di Oxford o della Stanford University.
Tullio De Mauro è stata una figura decisiva del Novecento italiano poiché ha puntato a un profondo rinnovamento teorico proprio a partire dall’incontro tra linguistica e filosofia. Ha lavorato con metodo a smantellare la caricatura che contrapporrebbe il linguista pignolo al filosofo evanescente. Ricerche divenute oramai classiche come la Storia linguistica dell’Italia unita (1963) o il Grande dizionario italiano dell’uso (Utet, 1999-2007) rischiano di mettere in ombra una parte decisiva della sua produzione intellettuale.
Tramite la traduzione (con note di commento teorico e ricostruzioni storico-biografiche tuttora imprescindibili) del Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1967), De Mauro ha offerto agli studiosi di tutto il mondo il profilo di un pensatore decisivo per la riflessione sul linguaggio del Novecento. Il titolo dell’opera non deve ingannare. Si tratta di un testo fondamentale non solo per le scienze del linguaggio. Saussure insiste, infatti, nel far vedere perché le lingue siano dei fenomeni storici.
Negli scritti del Saussure esplorato da De Mauro diventa evidente come le lingue siano per molti versi il cardine delle trasformazioni storiche umane e degli assetti istituzionali. Il tempo delle lingue non è il tempo della deriva dei continenti, né quello delle mutazioni genetiche. È il tempo propriamente umano nel quale reale e possibile si intrecciano in modo inscindibile: nel futuro anteriore di chi pensa a come sarà il mondo dopo averlo ribaltato; nel congiuntivo delle Slinding Doors che animano la vita di ciascuno («se quel giorno fossi tornato prima…»), nel presente storico di chi parla del passato come se quel momento fosse qui e ora.
Non importa si parli del ruolo della televisione nella diffusione nazionale di una lingua standard, dei problemi presenti nel Tractatus di Wittgenstein o nel rapporto di somiglianze e differenze tra la comunicazione delle api e il linguaggio umano.
La dimensione storica rimane al centro di una produzione teorica multiforme ma null’affatto sfocata. Senza cedimenti al pensiero debole degli anni Ottanta, questo filosofo-linguista continua a far battere la lingua dove il dente ancora duole. Si provi, oggi, a parlare della storia come categoria decisiva per la filosofia del linguaggio e si farà la fine di un centrifugato di verdure: sbarellati tra riduzionismo evoluzionista (gli umani parlano perché conviene), rigidità del logico (l’italiano è brutta approssimazione di un sistema formale) e le suggestioni post-coloniali di chi si perde nella sfumature dello slang, sempre anglofono, di Baltimora.
SENZA CONCEDERE NULLA al relativismo di chi sostiene che in fondo il significato non esiste e tutto è interpretazione, De Mauro insiste su un punto antropologico fondamentale. Non si pensa e poi si parla; non si sente e poi si cerca di mettere in parole sentimenti poiché la facoltà biologica del linguaggio è la lente focale in grado di dare definizione ai nostri pensieri, alle nostre pulsioni e alle nostre azioni. Se si tiene a mente questo nodo, il lavoro di ricerca teorica e di insegnamento accademico di De Mauro mostra con chiarezza la coesione che lo ha animato.
La facoltà è biologica, non c’è dubbio, ma senza storia essa è nulla: ben che vada, può condurre allo sgambettio quadrumane di un piccolo d’uomo allevato dai lupi. Le parole, infatti, non sono il prodotto secondario di pensieri precedenti, ma una forma tipica della cognizione umana: lavorare a vocabolari o lessici di frequenza significa spalancare le porte a veri e propri laboratori viventi. Significa guardare dal vivo il modo nel quale pensa, soffre e desidera un gruppo di parlanti in carne e ossa.
Uno dei testi internazionalmente più noti, Introduzione alla semantica (1965), insiste proprio su questo punto. L’obiettivo è la costruzione di una piccola genealogia del Novecento nella quale individuare alcuni riferimenti decisivi per chi concepisce il linguaggio come forma cardine delle istituzioni e della vita umana: «primato della prassi», queste sono le parole con le quali si conclude un libro che mette in fila il linguista Saussure con i filosofi Benedetto Croce e Ludwig Wittgenstein. Per la medesima ragione, ancora negli anni Novanta, durante i corsi universitari alla Sapienza che De Mauro organizza con alcuni compagni di viaggio della cosiddetta «scuola linguistica romana» era possibile fare gli incontri più diversi.
DALLA LETTURA SISTEMATICA de La diversità delle lingue di Humboldt si passava a un seminario sui sistemi di comunicazione dei delfini. Il giovedì mattina il laboratorio per una scrittura comprensibile e chiara (il contrario della mitologica «scrittura creativa») era seguito dalla lettura delle Ricerche filosofiche, dalla discussione della semiotica di Louis T. Hjelmslev, della linguistica di Antonino Pagliaro o del libro Pensiero e linguaggio del sovietico Lev S. Vygotsky. E non vi era nulla di cui stupirsi.
[Marco Mazzeco 06/01/2017]

martedì 3 gennaio 2017

Habemus Corpus


Fra i molti itinerari che ci si può costruire nei giorni di festa, che sono tali perché privi di incombenze e orari, uno dei miei preferiti è l’ozio apparente, quella condizione che, vista da fuori, dà l’impressione di estremo sfaccendamento mentre, in realtà, si lavora tantissimo.Per diventare dei veri oziosi apparenti servono pratica, curiosità, fiducia nella pagina bianca anche metaforicamente parlando, tempo e il luogo adatto. L’ozio apparente ha infatti bisogno di un alto tasso di solitudine che non è l’isolamento totale dal mondo, ma la capacità, e possibilità, di stranirsi dal contorno con i pensieri. Se si vive in una comunità familiare o amicale chiassosa, si parte svantaggiati perché serve tapparsi le orecchie e non sempre è facile riuscirci.
Ai bambini di solito l’ozio apparente viene benissimo ed è una condizione che i grandi chiamano, con sommo disprezzo o sufficienza,«Andare in oca». Lo sguardo si fissa in un punto senza realtà vederlo, si entra in una specie di trance, il corpo si immobilizza mentre i pensieri cavalcano. Quando l’ozio apparente funziona, fa riscoprire, o scoprire, il piacere di inventarsi la giornata rimescolando azioni e orari. È meno semplice di quanto si creda, anche perché le insidie sono tante. Ci sono i sensi di colpa, i pensieri sulle incombenze che incombono, la disabitudine a spettinare le regole, il cellulare che ci riporta continuamente al presente, le notizie che arrivano da questo sbrindellato e massacrato mondo.

In questo passaggio di anno, mentre da una parte si festeggiava con i fuochi d’artificio e da altre si continuava a sparare, il mio ozio apparente mi ha portato sulla strada di Franz Kafka e Jonathan Swift. Leggendo Come non educare i figli. Lettere sulla famiglia e altre mostruosità scritte da Kafka alla sorella Elli, alla fidanzata Felice e al padre (L’Orma Editore), mi sono imbattuta nell’elogio di Swift e della teoria sull’educazione dei figli che lo scrittore irlandese racconta ne I viaggi di Gulliver a Lilliput.

Nel tentativo di convincere la sorella a mandare il primogenito Felix in una scuola pionieristica a Hellerau, Kafka fa suo il pensiero sulla natura ‘animale’ della famiglia messo in pratica a Lilliput. Secondo Swift, e i lilliputiani: «Dato che l’unione dei sessi si fonda sulla grande legge della Natura per propagare e continuare la specie, sostengono che uomini e donne si uniscano né più né meno che come gli altri animali, seguendo l’effetto della concupiscenza; l’affetto per i figli deriva dallo stesso principio naturale. Per questo non sfiora loro il cervello che un figlio debba sentirsi in obbligo verso il padre per averlo generato o verso la madre per averlo messo al mondo; la nascita, se si considerano le miserie della vita, non è, in sé, né un beneficio né un atto di volontà dei genitori, in tutt’altre faccende affaccendati nei loro convegni amorosi.
Per questi e simili ragionamenti, è loro opinione che i genitori siano gli ultimi a cui si debba affidare l’educazione dei figli». Kafka perfeziona quel pensiero aggiungendo che: «Dipendendo solo da se stessa, ogni famiglia non può uscire da sé e unicamente da sé non può creare un nuovo uomo; quando tenta di farlo tramite l’educazione famigliare commette una sorta di incesto spirituale». E ancora, sottolinea come sia impossibile ottenere un equilibrio giusto all’interno di questo animale-famiglia: «Per la disparità delle sue parti, ossia l’enorme superiorità della coppia di genitori sui figli, una superiorità che si protrae per anni». Consiglio di rileggere I viaggi di Gulliver. La presentano come una fiaba per bambini, in realtà farebbe un gran bene a molti adulti.
[Mariangela Mianiti 3/01/2017]

lunedì 2 gennaio 2017

Nii Ayikwei Parkes, Tail of the Blue Bird

Poeta, slam performer, editore, melomane. Nii Ayikwei Parkes si destreggia tra una doppia cultura ghanese e inglese, un padre jazzista e consulente industriale, che lo lasciava da bimbo solo sulle piazze dei paesini rurali, dove ascoltava storie e racconti tradizionali. Padroneggia quattro lingue, tra cui i dialetti Twi e Fante e l’inglese, ma usa il pidgin (lingua vernacolare dell’Africa Occidentale) come lingua a sé. L’humour è la caratteristica della sua scrittura acuta e palpitante come un rap. Dopo aver preferito la scrittura (alle botte), studiato scienze e girato in lungo e largo l’Inghilterra con le sue performance di slam poetry, si mette alla prova con la finzione e Tail of the Blue Bird, il suo primo romanzo, finalista al Commonwealth Book Prize, uscirà a breve in Italia per Stampa Alternativa. L’abbiamo incontrato nella primavera scorsa nel suo rifugio italiano, nello splendido castello-residenza di Civitella Ranieri per artisti internazionali, dove scrittori, scultori, pittori, poeti, e coreografi, trovano il silenzio e la fantasia delle contaminazioni con gli altri per creare.
Come e quando hai iniziato a scrivere?
Sono un sognatore, adoro le storie e raccontarle, in mezzo alla gente. Sono cresciuto in Ghana, dove da bambino trascorrevo il tempo a giocare a calcio, ma a differenza degli altri ragazzi, dopo la partita tornavo a casa e leggevo fino al calare del sole. Sono cresciuto a calcio e racconti. Avevo un carattere terribile, ero manesco, facevo di continuo a pugni a scuola. Mio padre ha allora fatto un patto con me, costringendomi a scrivere sui ragazzi che mi davano noia; se dopo averli descritti, continuavo a voler litigare, allora avrebbe scelto la mia parte. Ed è cosi che ho iniziato a scrivere! Ho scoperto che mi piaceva di più scrivere che fare a botte. A dieci anni circa, ho fatto leggere qualcosa a mio padre che mi ha detto: «è poesia»! Era la prima volta che potevo nominare quello che combinavo.
Qual è stata la tua formazione in Ghana?
Durante le medie, un compagno di classe che usciva contemporaneamente con tre ragazze, si era accorto che avevamo la stessa calligrafia, mi chiese di scrivere bigliettini d’amore per le sue tresche. Man mano mi sono messo a scriverne pure il contenuto, e in cambio di soldi sono finito per scrivere le lettere d’amore dei miei coetani! Poi ho scritto alcuni poesie per l’Università, durante un breve soggiorno Erasmus in Francia, e a Manchester. Con la morte di mio padre, non sentivo più nulla, scrivere mi rendeva vivo. Di ritorno in Ghana, ho iniziato a lavorare come scienziato per una grande multinazionale, ma mi annoiavo, mi perturbava la mancanza di etica, quindi dopo il lavoro scrivevo ore per sentirmi meglio. Alcuni editori inglesi hanno risposto alle mie prime poesie, ho deciso di emigrare in Gran Bretagna; lì ho svolto tutti i mestieri per sopravvivere, poetry slam, numerose performance che mi permettevano di andare in giro. Poi Courttia Newland mi chiese una short-fiction e me la ha rimandata indietro completamente bocciata: per sfida decisi di padroneggiare quel genere.
Il personaggio di Kayo in «Tail of the Blue Bird» sembra autobiografico. Come vivi questa dualità tra cultura ghanese e cultura coloniale?
Non ho mai vissuto quel conflitto, che esiste in tanti paesi con un passato coloniale e dove due culture vivono una accanto all’altra. Ho avuto genitori educati al livello universitario, da sempre siamo stati immersi in questa doppia cultura. Il personaggio di Kayo però impersonifica il dilemma della mia generazione in Africa Occidentale, che avendo conosciuto in primis il modello di educazione coloniale, ha avuto problemi nell’incontro con la cultura tradizionale. Ma è un conflitto interessante, se non scegli una parte o respingi l’altra, hai una possibilità di maggiore compassione e empatia verso il mondo.
Cosa simbolizza la coda dell’uccello azzurro che la donna insegue all’inizio del tuo racconto?
Nasco come poeta e la mia scrittura è ricca di metafore. L’uccello azzurro è un bee-eater un uccello che mangia le mosche, che consuma quello che ferisce gli altri. La storia inizia con questa immagine di una donna che insegue l’uccello. Senza di lui, non ci sarebbe la storia, è l’eterna questione filosofica dell’origine. E poi è una piuma, blu come l’inchiostro: ci sono tanti livelli di analogia con la scrittura. Devo divertirmi io per primo mentre scrivo.
E chi è il vecchio Yao Poku, quel vecchio del paese che conosce le regole invisibili del mondo rurale?
Il vecchio Yao Poku rappresenta una verità nella verità. La storia del paese è ispirata ad un fatto di cronaca, la scoperta alcuni anni fa di una comunità indigena totalmente isolata in Amazzonia, poi annessa al Brasile, pensavo a questi indigeni che di colpo sarebbero diventati soggetti di un passato portoghese senza conoscere la propria storia. La colonizzazione si diffondeva spesso solo in superficie, sulle coste e non nell’interno dei paesi colonizzati. L’idea di essere parte di un tutto senza veramente esserne parte, mi ha ispirato la storia del villaggio di Sonokrom. Yao Poku è la voce di quel paese, che ha le proprie regole, non rigetta il cambiamento ma l’imposizione dall’esterno, come invece vogliono fare i poliziotti e la scientifica.
Con quale effetto voluto usi il Pidgin?
Per riflettere la città, le strade di Accra, rendere il suono della città. Passiamo costantamente da una lingua all’altra, qualche volta usiamo fino a quattro lingue diverse: il pidgin fa parte delle nostre esistenze. Se scrivi romanzi e devi essere fedele alla realtà, o se ci vuoi conoscere devi leggere pidgin. La scrittura poi è in primis musica, guida la scelta delle parole; di sicuro la mia mente è diversa da quella di uno educato a Oxford e che parla solo academic English!
Si sente un ritmo molto particolare nella tua scrittura, ascolti musica mentre scrivi?
Si sempre. Questi giorni mentre scrivo una storia ambientata su un’isola nei Caraibi, ascolto rumba e salsa cubana. Per la mia prima fiction Tail of a blue bird, ascoltavo il musicista Egya Koo Nimo, che suona la chitarra tradizionale sopranominata «Palm wine guitar». Faccio anche molto uso di immagini. Sul muro del mio studio campeggia la foto inventata dell’isola imaginaria. Ho anche insegnato durante il mio servizio militare in un paese del profondo Nord Ghana. Tutto quello che evoca è riusato.
Cosa pensi della creolizzazione?
Succede, semplicemente, come nella vita. La lingua si trasforma prendendo in prestito parole da altre lingue. Ho solo messo giù questa lingua, il pidgin, che è molto vitale e evolve costantamente. Quando torni in Ghana ci vuole sempre un momento di adattamento, perché nuove parole sono comparse e le devi imparare. É fantastico, svela la trasformazione costante. È gioia, la vita è breve, la gioia può essere minuscola come scoprire una nuova parola.
Ti riconosci nella definizione di «Afropolitan» coniata da Taiye Selasi?
È un concetto interessante ma errato, anche se non ho alcuna forma di rifiuto emotivo del concetto. Sottintenderebbe che se sei africano non sei cosmopolita. In realtà l’Africa è cosmopolita dalle origini e ha il suo proprio melting pot. Accra per esempio è una città di mercanti, traders, somali, ucraini, cinesi, indiani, un mio antenato era persino scozzese. Prima della colonizzazione potorghese e olandese la cultura ashanti, regnava da una una costa all’altra fino al MedioOriente. Per me quindi è superfluo aggiungere la parola «afro» a «cosmopolita» e se si vuole limitare il cosmopolitismo all’Ovest è un loro problema. La mia realtà è diversa. Sono cosmopolita non perché «emigrato» ma perché sono di Accra!
Il razzismo è di ritorno al livello globale, cosa ne pensi?
È diffuso da politici che cercano capri espiatori. Dipende dalla idea che uno si fa della vita, se pensi che la devi controllare. Poi c’è un’escalation esasperata dovuta alla crisi economica. L’esito dipenderà da quanti esprimeranno violenza o meno.
L’odierna gestione della crisi migratoria non rivela un subdolo neoloconialismo?
Si è tremendo. Ma la nostra discussione è possibile solo perché c’è stato un colonialismo precedente gli accordi economici, come i Bank loans, che costringono i paesi africani a negoziare. Ogni volta che incontro migranti, mi dicono che vorrebbero migrare per cercare quello di cui hanno bisogno e poi tornare a casa (come d’altronde altri Europei che emigrano in Uk per lavoro). Ma se ostacoli i migranti africani e li combatti durante il viaggio, gli fai perdere troppo, il prezzo pagato è allora troppo alto, per tornare indietro con meno di quello che hanno perso. Allora li costringi a rimanere in Europa, li intrappoli. Quei politici contribuiscono alla stessa situazione che vorrebbero combattere.
Come mai hai scelto la forma del giallo in «Tail of the blue bird»?
Nell’infanzia leggevo tanta pulp fiction, avventure, escapade, gang, sex. Più avanti, ho letto tanti gialli. Volevo scegliere questa cornice per rendere omaggio, a quel genere e alla mia città. Kayo non esisteva all’inizio. Ho cercato di non fare annoiare il lettore. Il giallo dà la struttura ma anche realismo su Accra, un senso di musica, cibo, ecc… io amo divertirmi. Devo ridere. In arte, l’humour è sottostimato come una delle qualità fra le forme artistiche. Mentre in realtà esso permette a delle idee di viaggiare sotto nella corrente: l’humour per me è vitale. Anche nella più cruda scena di morte, puoi scovarlo. Persino in un funerale, dovresti cercarlo nonostante la perdita di una persona cara. Se non ce l’hai nella vita, la depressione ti aspetta.
[Flore Murard Yovanovitch 31/12/2016]

Lisetta Carmi


Il silenzio è prezioso. È un privilegio per Lisetta Carmi (Genova 1924), come la solitudine. Nella sua casa, nel centro storico di Cisternino – in cima a una ripida scalinata che lei sale e scende con agilità, malgrado il bastone e l’età – vive da sola. Mangia poco, ma legge tanto e risponde a tutte le lettere che le arrivano. Bisogna avvicinarsi e parlarle ad alta voce, perché non ci sente bene. Ma mettere l’apparecchio non le interessa affatto, anzi in fondo un po’ di sordità la preserva da tante inutili chiacchiere. Dopo anni ha dato le dimissioni dal comitato direttivo dell’ashram Bhole Baba (che ha fondato nel 1979) – «vado alle cerimonie e anche a parlare con i ragazzi, ma voglio essere libera. Voglio occuparmi solo della mia persona», afferma. In questi ultimi anni si è dedicata soprattutto allo studio della pittura calligrafica cinese e ai bambini: «Ho la coscienza che i bambini sanno tutto. Gli unici maestri sono loro, come dice Giuliano Scabia». Quanto all’archivio fotografico (è in una stanza al piano di sopra), ad occuparsene è Gian Battista Martini che ha curato anche la sua mostra nell’ambito della IV edizione di Castelnuovo Fotografia. Gli occhi azzurrissimi di Lisetta sono vivaci, come la sua lingua è ironica. Ci sediamo intorno al tavolino rotondo al centro del piccolo soggiorno su cui si apre la minuscola cucina, lo studio (a un gradino di distanza), la camera da letto e l’orgoglio della casa: il bagno. «L’ho voluto come in India – spiega – dove il water è separato dal lavandino».
C’è tutto un mondo in quel bagno, oltre agli ordinatissimi barattoli di creme, le foto d’epoca dei genitori, una statua di Budda, un bellissimo tappeto orientale, ma soprattutto – attraversando l’anti bagno – non si può non essere attratti dalla combinazione della statua della Madonna in una nicchia, sotto una bella di Babaji (il guru indiano che le ha dato il nome spirituale di Janki Rani) e, in cima alla libreria, il candelabro a sette braccia. È stato proprio Babaji a decodificare le cinque vite di Lisetta Carmi, nel disegno appeso ad una parete del salotto.



«Fotografavo per conoscermi»: questa è un’affermazione che ti appartiene….
Quando mi chiedono chi mi ha insegnato a fotografare, rispondo sempre la vita. Non ho mai fotografato per essere una brava fotografa. Non me ne fregava niente. Volevo capire. Capire gli altri e capire me stessa. Tutto lì. E, in diciotto anni – dal 1960 (realizza le prime fotografie con un’Agfa Silette acquistata in occasione del viaggio in Puglia, a San Nicandro Garganico, quando accompagna l’amico etnomusicologo Leo Levi che andava a registrare i canti ebraici di un gruppo legato a Donato Manduzio, ndr) al 1978 – ho fatto quello che altri fotografi facevano in cinquanta o sessant’anni, perché lavoravo diciotto ore al giorno. Stampavo tutto da me, preparavo le didascalie, scrivevo l’articolo. Ho sempre dato voce ai poveri. Sempre! Sono ebrea e so cosa vuol dire essere discriminati. Avevo 14 anni, quando mi hanno buttata fuori dalle scuole. Mi piaceva andare a scuola, mi divertivo con le mie amiche. Ero bravissima, poi di colpo è finito tutto. Eravamo in vacanza in Val Martello, nel nostro albergo c’era anche Ardito Desio. Lo conosci? Un porco! Ci metteva sul tavolo la rivista La difesa della razza per farci vedere cosa ci sarebbe successo. Infatti, quando tornammo a Genova, entrarono in vigore le leggi razziali. I miei fratelli Eugenio e Marcello in quindici giorni partirono per la Svizzera, ma io ero la femmina e dovevo rimanere a casa. Ero tutta triste, non ridevo più. Allora la mamma disse che avrebbero mandato anche me in Svizzera e scrisse una lettera al maestro di pianoforte Alfredo They, di cui ero la migliore allieva. Lui quando, la lesse, la strappò e disse che non se ne parlava neanche. Così non partii. Quando poi, nel 1943, con papà e mamma sono partita per la Svizzera passando il confine attraverso le montagne, con i tedeschi che potevano prenderci, portavo la mamma sottobraccio e dall’altra parte avevo i due volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach. Quando arrivammo lì e ci dissero che eravamo salvi, ricordo ancora che c’era una luna piccola nel cielo e la mamma la guardava, seduta su una valigia, e le venivano giù le lacrime dagli occhi. In Svizzera, dove siamo stati per un anno e mezzo, sono entrata subito al Conservatorio. Ma anche lì ho avuto delle esperienze molto tristi. Sembravo allegra, ridevo sempre, però ero molto sensibile. «Peccato che non m’hanno presa i tedeschi», dicevo a mio padre. «Ma che figlia matta, ci siamo salvati in Svizzera!», mi rispondeva lui. Sì, perché se mi avessero presa o sarei morta o avrei potuto aiutare gli altri.

Tra i tuoi amici c’era lo psicoanalista Elvio Fachinelli, autore di una nota nel tuo libro sui travestiti…
Quello dei travestiti è un lavoro bello e molto importante. Pensa che ho lavorato sei anni con i travestiti, mica un giorno! Un mio amico carissimo, Mauro Gasperini, mi disse che quella sera ci sarebbe stata una grande festa dei travestiti e mi chiese se ci volessi andare con lui. Gli dissi di sì, andai e feci un po’ di fotografie. Infatti, nel libro ci sono anche le fotografie della festa di capodanno 1965. Io non davo giudizi e loro si sono lasciati fotografare. Guardavo tutto per capire. A quel tempo mi sentivo un po’ donna e un po’ uomo. Mi chiedevo perché dovevo essere una donna. Quando ero piccola volevo essere un maschio, come i miei fratelli. Mi tagliavo i capelli. Alla fine del lavoro con i travestiti ho capito che non esistono gli uomini e le donne, esistono solo gli esseri umani. Uno ha il corpo da donna e l’altro da uomo, ma sono solo esseri umani. Dopo due o tre giorni tornai con le stampe delle loro fotografie che regalai ad ognuno. Così è cominciata questa amicizia. La polizia, se avesse potuto, mi avrebbe arrestato, ma ero di una famiglia molto perbene di Genova. Mio padre si vergognava tantissimo che andavo a fotografarli. La mamma no, era tutta entusiasta, mi diceva «che belle queste fotografie dei travestiti». Io allora ero andata via di casa e stavo vicino a Via del Campo, dove loro lavoravano. Hanno capito che li amavo,  la Morena (musa della canzone Via del Campo di De André, ndr) – una delle protagoniste – dopo tantissimi anni mi mandò a chiamare, perché voleva salutarmi prima di morire. Quando andai da lei mi mostrò il mio libro. «Vedi, ce l’ho ancora», mi disse. Ad ognuno avevo regalato una copia. La Gitana, invece, che da giovane era stata il ragazzo di De Pisis, era il capo di tutti. Era bellissima. Era lei che avrei voluto mettere in copertina, ma avevo qualche timore a chiederglielo. Ricordo che andammo in un bar, le parlai tanto del libro che stavo facendo e del desiderio che anche lei ci fosse. Fu lei stessa a dirmi che accettava purché la mettessi in copertina. Infatti, è lì!

In una fase successiva della vita, hai incontrato Babaji…
Babaji è con me, non mi abbandona mai, neanche un momento. È stato lui, in un modo molto misterioso, a chiamami. È il mio maestro, un’incarnazione divina sulla terra, anche se c’è stato solo 14 anni. La prima foto che gli ho fatto è una fotografia vivente, perché lui ha un occhio che ride e l’altro serio. Se sei buono ti sorride, se invece fai una cosa brutta ha una faccia molto severa. Dopo averlo conosciuto andavo tutti gli anni in India, a Herakhan, e ci stavo per due e tre mesi. Credo in una forza universale che non conosciamo e Babaji è questa forza universale. Era incredibile! Lui mi ha dato il compito di fare l’ashram e anche di portare mia mamma da Genova a Cisternino, in un trullo, quando aveva 95 anni. «Se lo dice Babaji, vengo», mi disse lei ed è venuta. Ha vissuto lì per cinque anni. Quando è morta l’ho portata in chiesa, con tutti i paesani che venivano ad abbracciarci. Eugenio, mio fratello, mi ha detto, «ma sei matta? Noi siamo ebrei!». A lui, poi, non piaceva troppo essere baciato e toccato dai paesani, ma a me ha fatto piacere.
La tua famiglia ti ha sempre accettata, anche nelle tue stranezze?
Eh sì, è logico. Il papà e la mamma erano molto intelligenti. Papà, anche quando eravamo piccoli, diceva «chi non lavora non mangia». Lui aveva cominciato a lavorare a 15 anni, faceva l’assicuratore. Era molto severo, ma anche molto buono. Ho avuto la fortuna di ereditare da lui tutta la parte pratica e da mia madre tutta quella spirituale. Però ero anche molto ribelle!
[Manuela De Leonardis 31/12/2016]