mercoledì 30 novembre 2016

Johanna Nordbla, FemmineFolli.

Le prime banalissime domande appena viste delle foto su una rivista: ma non ha freddo? Non ha paura? Come le salta in mente? Poi le immagini ti catturano e sono suggestive e così strane: bei colori, il lago glaciale non è blu come lo immaginiamo, l’acqua sembra pesante, il corpo della nuotatrice fluttua come gli astronauti nelle capsule senza gravità, il ghiaccio è bianco ma di un bianco personale, ghiaccesco, non caratterizzato dagli standard delle palette di colori dei pittori. È tutto un mondo alla rovescia inimmaginabile, parallelo, definito e unico che nessuno vive né conosce. Tranne lei. Lei che si chiama Johanna Nordblad e detiene il record di prima donna a nuotare 50 metri sotto il ghiaccio vestita solo di muta e maschera. La grafica finlandese, anni fa, quasi perse una gamba in un orribile incidente in bicicletta e la terapia del ghiaccio contribuì a salvarla: così arrivò al misterioso mondo dell’apnea al gelo.

Quanto coraggio comporta la scelta di intraprendere questo desueto sport estremo? Qual è il margine tra la sfida e la gratitudine? Il superamento di sé stessi, la forza di volontà o solamente l’attrazione per un diverso mondo che diviene quasi esclusivo ai suoi occhi, alla sua pelle, alla sua percezione fisica? Un’avventura formidabile vissuta con disinvoltura, una concentrazione di nervi, istinto di sopravvivenza, smania di conoscenza e voglia di vivere: queste le cose che appaiono agli occhi di chi guarda, da fuori, dal calduccio del divano con la copertina sulle ginocchia e il gatto ronfante sopra. Cosa mai si prova ad inserire l’intero scheletro con ciccia annessa in un liquido ammantante della temperatura di quattro sotto zero minimo? Nessuno di noi vuole davvero scoprirlo. Qualcuno forse, un minimo sparuto numero di folli. Johanna è tra questa minoranza tra le minoranze, questa élite di temerari calorosi.
Un triangolo perfetto (l’occhio del Dio Sole?) squarciato tra stratificazioni di ghiaccio. Una oscurità luminosa. Una pinna a semicerchio si introduce cautamente nel liquido (amniotico?). Sotto, tra stalattiti alla rovescia, una sagomina umana di nero vestita, auto elettasi sirena, gattona carponi toccando la superficie statica impenetrabile confine col mondo di sopra. Non è un pesce comune né uno squalo né un balenottero in cerca della madre. È una donna. Folle? Ardimentosa? Alla ricerca di emozioni forti?
Self-confident di sicuro. Perché trovarsi dentro metri cubi di acqua più fredda di un cocktail ghiacciato sotto il sole delle Maldive non è esperienza da tutti, per tutti, mentre lei ride sicura nelle bolle gelate, alla vita una cintura di pesi che la tiene a fondo, una maschera da Diabolik, zigomi labbra e mento all’addiaccio. In apnea nuota per alcuni metri, visibile dal di fuori, sotto lo strato trasparente formato da livelli più sottili di glaciazione. La danza che compie assomiglia al teatro giapponese delle ombre: distinguiamo silhouette di un corpo fluttuante con braccia e mani e gambe in qualcosa di denso come gelatina, come se l’essere sotto zero fornisse all’acqua una consistenza all’apparenza più tangibile, meno eterea, quasi solida. Un corpo umano lì dentro assume, temporaneamente, caratteristiche da supereroe: ha i minuti contati, il countdown è innescato e non esiste nessuno che possa bloccarlo, non possono esistere paura, panico, errori: lì sotto c’è solo Johanna, i suoi polmoni e la sua voglia di mangiare con gli occhi, sentire con la testa, vibrare risuonando come un mantra dentro un silenzio privato e profondo, pacifico e millenario, eterno, disumano, altro. Ed è dentro questo mare (che mare non è) in cui le è dolce naufragare…
[ Fabiana Sargentini 30/11/2016]

lunedì 28 novembre 2016

Matteo ha perso il lavoro, Gonçalo M. Tavares

Dopo Lor signori, sorprendente rassegna di «caratteri» strambi messi alla prova dalle molteplici e incontrollabili contingenze dell’essere al mondo (Il signor Calvino, il signor Kraus, il signor Walser, il signor Valéry), l’editore nottetempo torna a pubblicare di Gonçalo M. Tavares un altro libro, uscito in portoghese nel 2010, che si inscrive nella stessa vena filosofica (condita da un obliquo e inquietante humour) del ciclo del Barrio in cui si muovevano i «signori»: Matteo ha perso il lavoro (pp. 230, euro 16,00, tradotto con l’abituale acume da Marika Marianello) è un nuovo catalogo di stranezze, un altro ironico esercizio di combinatoria narrativa.
La sua struttura è tripartita. Nella prima sezione seguiamo le disavventure misteriose di una serie di personaggi evocati solo per cognome: Aaronson ogni mattina percorre senza sosta, e senza apparente motivo, il perimetro di una rotonda stradale; Cohen è perseguitato da tic osceni di ogni tipo che si calmano soltanto con la scrittura, l’unica pratica che non lo faccia vergognare del proprio corpo; il maestro Diamond insegna in una scuola gradualmente invasa dall’immondizia, che tracima dalle finestre, e la sua forza di resistenza farà dei suoi ventidue piccoli alunni i ventidue custodi del senso, gli uomini che in futuro impediranno al mondo di soccombere. Goldstein, cieco e ossessionato dalla tavola periodica di Mendeleev, la farà tatuare in Braille sulla schiena del giovane prostituto Gottlieb. E così via, secondo una inflessibile trama di collegamenti e salti imprevisti. Fino ad arrivare a Matteo, titolare di una storia più lunga che comprende tutta la seconda sezione, e l’unico chiamato per nome. Matteo dovrà adeguarsi a un lavoro molto particolare che minerà le sue certezze e la sua stessa personalità. Perché la non accettazione della realtà comporta che il rifiuto gettato via dalla porta rientri dalla finestra della mente: voler salvare tutto, infatti, significa perdere tutto. Chiude il testo una postfazione dell’autore che si rivela essere il vero fulcro del libro, dove le tante forze in campo troveranno uno scioglimento provvisorio.
I cognomi dei personaggi di Tavares, di sapore vagamente familiare anche se provenienti da lingue diverse, potrebbero essere intercambiabili: ogni protagonista è identificato non dal nome che porta ma dalla sua speciale forma di bizzarria. Ai diversi quadri narrativi legati alla sfilata dei personaggi si inframmezzano fotografie di Diogo Castro Guimarães e Luis Maria Baptista, che rappresentano bambole, volti di pupazzi, hollow men modulari pronti a divenire figure della fungibilità universale in cui siamo immersi tutti.
Ogni nome in grassetto, che si sussegue in ordine alfabetico facendo germinare una nuova historiette da un dettaglio feriale della precedente, è un’ennesima funzione di una possibile pazzia. Una pazzia quotidiana, serena, raccontata in modo piano e imperturbabile. E giocata anche con la «narrativizzazione», o la trasformazione in apologo, di locuzioni, metafore e modi di dire («avere la scimmia», «perdersi nel labirinto», «spazzatura»).
L’osservazione di Agamben
In un esergo finale sta l’osservazione di Giorgio Agamben sul processo romano e sulla delatio nominis (la denuncia del nome dell’accusato) che ne rappresentava l’inizio. Un altro click scatta nella mente del lettore. Ma certo, ogni nome di quei personaggi è un dito puntato, ad avvertirlo che anche qui si parla di lui.
Lo scrittore fa l’appello delle loro sparse possibilità di esistenza ma l’appello è incompleto: grazie al disordine e all’impredicibilità del mondo, la serie alfabetica non si conclude, e anche al suo interno, quasi di soppiatto, si verifica un clandestino salto all’indietro.
Tavares sta sempre dietro le sue invenzioni con un sorriso indefinibile, e il lettore è una cavia felice finché dà corda alle sue allusioni enigmatiche. Si capisce, allora, come il fulcro del gioco sia stavolta la fiducia nell’ordine, così come la fiducia nelle ventidue lettere dell’alfabeto che filtrando una realtà disordinata la rendono comunicabile.
La preda di cui vanno alla caccia questi contes philosophiques sarà dunque ancora una volta la logica e il caos che la circonda, l’esattezza e il suo sabotaggio. «Quel che disturba è l’esattezza: la morte». L’ordine preciso dei tic e delle convenzioni collettive può essere stravolto da un semplice «no», come quello di Kashine, che porta «lo scompiglio nel mondo attraverso l’inequivocabile».
La postfazione, con cui Tavares si autointerpreta, è un luogo tutt’altro che marginale: è in verità il momento in cui davvero si annidano le acquisizioni di maggior peso in questa esperienza di scrittura. «Esitare è sempre stato un progetto di vita per qualcuno. Essere in grado di continuare a esitare a oltranza, ecco la difficoltà». O ancora: «Il problema è sempre questo: sei tu a essere in possesso delle domande – la mia libertà è, dunque, nulla. Posso solo rispondere. La comune idiozia è: pensare di essere liberi perché si può rispondere, perché si può scegliere. La grande differenza è questa; sei obbligato a scegliere».
Come in altre occasioni sfuggenti e audaci della sua opera, Tavares crea una macchina per pensare deragliando dalle logiche binarie, seguendo terze vie: qui lo scopo palese, e infine falso, è la descrizione della pazzia; lo scopo autentico (e latente) è una meditazione sull’imperfezione. Su cosa significa essere umani e doversi muovere in un mondo caotico sentendosi immotivatamente «al sicuro pur nel più aspro pericolo».
[Fabio Pedone 27/11/2016]

V. S.Naipaul

Non le risorse dell’immaginazione, con il gusto di inventare intrecci, personaggi e contesti sui quali proiettare, magari, le proprie ossessioni, sembrano alimentare i libri di V. S. Naipaul, bensì una sorta di tropismo della mente che lo orienta a captare i dettagli di quanto osserva, e tra tutti eleggere quelli che meglio si sintonizzano con la sua malinconia di fondo, non di rado venata da una rabbia che prende la strada dell’ipercriticismo, al quale non sfugge l’analisi della sua persona, ripetutamente investita da un cupo dissenso.
Poi, quando i taccuini sono saturi di appunti e una scintilla arriva ad accenderli, a volte si apre la strada del romanzo; ma è la estrema flessibilità di questa forma della narrativa, la sua ribellione a ogni velleità di stabilirle dei confini, a autorizzare l’iscrizione dei resoconti dei viaggi o degli approdi di V.S. Naipaul sotto l’etichetta «romanzo».
Somiglia più a un diario intimo, infatti, l’ultimo libro che Adelphi ha appena aggiunto al progetto di ritraduzione delle opere di Naipaul, L’enigma dell’arrivo, già pubblicato da Mondadori nel 1988, e ora ritradotto da Marco e Dida Paggi (pp. 412, euro 24,00), che si presenta appunto come un «Romanzo in cinque parti», sebbene sia più vicino a un memoir, arbitrario nella sua scelta di non seguire il tempo cronologico bensì quello dei ricordi, così come si avviluppano intorno a associazioni contingenti di pensieri.
Solo sul finire del libro apprendiamo da quale pretesto partì l’idea di scriverlo: nell’agosto del 1984, inviato dalla «New York Review of Books» a seguire la Convention repubblicana di Dallas, quello che era già l’autore affermato di alcuni mirabili romanzi – fra i quali l’insuperato Alla curva del fiume, del 1979 – se ne tornò deluso dalla scenografia dell’evento e non trovò nulla da scrivere che sfuggisse a quanto era già stato predisposto perché i giornalisti ne facessero uso.
Tuttavia, una volta tornato nel Wiltshire, i contorni di ciò che aveva osservato cominciarono a imporsi alla sua scrittura e Naipaul sperimentò l’eccitazione di «trovare esperienza là dove credevo che non ce ne fosse»: fu questo il movente dal quale si originò la possibilità di recuperare alla sua narrativa il ricordo dei lunghi anni seguiti all’approdo in Inghilterra, nel 1950.
Da Port of Spain, capitale dell’isola di Trinidad dove i suoi antenati originari delle pianure del Gange si erano trasferiti nel 1845, il diciottenne Naipaul aveva fatto tappa a Porto Rico, poi a New York e finalmente in nave aveva raggiunto Southampton, sottopondosi a un lungo viaggio che gli fornì preziosi materiali di scrittura, poi rielaborati nella squallida pensione londinese di Earls Court dove era infine approdato, o nella misera stanzuccia dove aveva passato qualche tempo a Oxford. Anche una volta arrivato in Inghilterra, l’aspirante scrittore tendeva tuttavia a riprodurre i confini angusti in cui si era svolta la sua vita a Trinidad, lasciata bruscamente – avrebbe scritto poi – «quasi in un accesso di isteria». Lì aveva vissuto circondato dalla pubblicità di prodotti occidentali che non esistevano più, aveva studiato il cinema francese e quello russo senza mai averne visto un film, aveva sognato di ricongiungersi alla grandezza dell’impero britannico che le piazze monumentali di Londra ora gli offrivano come un orizzonte tramontato, suggerendogli di essere arrivato nell’epoca sbagliata, troppo tardi per partecipare di una grandezza ormai irrecuperabile.
Così, i suoi vagabondaggi londinesi erano «ciechi e senza gioia», mentre la disillusione gli inibiva la fantasia e «la capacità di sognare». Ma, intanto, si andava compiendo nella mente di Naipaul il viaggio «dal non vedere al vedere», e insieme a una più raffinata capacità di osservazione cresceva la consapevolezza di quanto ottuse fossero state le sue ratifiche dell’esistente quando ancora viveva sull’isola caraibica, dove i soprusi erano legge, e persino i bambini venivano frustati; ma – scrive – «Nessuno nasce ribelle. La ribellione va appresa».
Man mano che si allontana da Trinidad dove «nulla aveva sapore e anche la luce aveva una qualità ostile alla vita», Naipaul sperimenta uno stupefacente sdoppiamento della sua personalità: da una parte il futuro scrittore, una persona istruita, con un alto concetto della missione cui intende dedicarsi, dall’altra l’uomo «profondamente ignorante», pieno di pregiudizi sulle comunità dell’isola dalla quale era partito, che – fra l’altro – non essendo mai entrato in un ristorante «trovava ripugnante l’idea di dover mangiare del cibo cucinato da mani estranee».
Dopo avere vagheggiato per anni una nuova vita in Inghilterra, ora Naipaul misurava le conseguenze della sua «insicurezza coloniale», l’angoscia del distacco da quanto aveva già scritto e la riluttanza a affrontare un nuovo «travaglio». Disfece quanto aveva costruito, vendette la casa londinese e ripartì.
Troppo angoscioso per esprimersi «con lacrime e rabbia», il dolore di questa disfatta si presentò a Naipaul «nel sogno ricorrente della testa che esplodeva». Ma l’Inghilterra aveva in serbo per lui una seconda chance: vi tornò nel 1970 e si andò a insediare nel cottage di una villa situata nelle campagne intorno a Salisbury, nel Wiltshire, dove restò undici «anni felici», nonostante i vissuti di rovina e di abbandono, insieme al perdurante sentimento di trovarsi fuori posto, trovassero un riverbero non casuale nella decadenza di ciò che lo circondava: una tenuta trascurata e malamente appesa al suo passato edoardiano, dove Jack, il padrone del cottage, esibiva una intimità inquietante con il ciarpame accumulato da quasi un secolo.
Pagine e pagine vengono impiegate per descrivere, senza alcuna tentazione lirica (questa la buona notizia) un giardino che va in malora, foglie che si posano, chiavi che si smarriscono, paesaggi che mutano con la potatura, cancelli fuori squadra, chiavistelli abbandonati, senza svelare (e questa è la cattiva notizia) nulla di significativo. Nella villa vanno e vengono avventori i cui destini si incrociano con le persone che ora ci lavorano: i Phillips, una coppia di custodi austeri e soddisfatti del loro lavoro, la cui ambiguità colpisce l’osservazione sospettosa di Naipaul, e poi il giardiniere Pitton, non facile alla parola, dotato di «straordinaria compostezza», e soprattutto di una bella moglie di cui Naipaul sottolinea la stupidità, e che gratifica dello stesso apprezzamento che riserverebbe a un bel capo di bestiame.
[Francesca Borrelli 27/11/2016]

venerdì 25 novembre 2016

«Finirò in ospedale perché mio marito mi picchia», parola di bambina

Cosa vuoi fare da grande? È una classica domanda che si rivolge spesso a bambine e bambini, rimanendo in attesa della loro risposta, curiosa, spontanea e soprattutto carica di futuro. Ecco perché è bello ascoltarli. Devono aver pensato a questo anche alla Rai che pochi giorni fa ha diffuso lo spot realizzato per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. La tv pubblica ha infatti creduto bene di scegliere bambine e bambini che, lungo un video di 26 secondi, dicono cosa vogliano fare da grandi.
C’è la veterinaria, il poliziotto, il maestro di sci, la stilista e via discorrendo. Ma ecco che il piano americano si allarga, lento, fino a inquadrare l’ultima bambina che, mentre chi la guarda comincia ad aguzzare il pathos e l’attenzione, candidamente dice «quando sarò grande finirò in ospedale, perché mio marito mi picchia». Fa uno strano effetto vedere una creatura piccola raccontare il proprio futuro attraverso un’immagine di violenza e di maltrattamenti a cui sarà promessa nell’età matura. Perché aprendo lo scrigno della propria fantasia non è quello il futuro che ci si può attendere né che si auguravano, probabilmente, le tante bambine che poi, da donne, sono state percosse e in molti casi uccise (dall’inizio dell’anno sono 123 i femminicidi).
Le polemiche non si sono fatte attendere e da due giorni, in particolare ieri, stanno infuriando sui social. In disaccordo sul senso e sul segno dello spot, chiedono in molti e molte il suo ritiro immediato, poiché non farebbe altro che veicolare una narrazione distorta e scorretta di cosa sia la violenza – in particolare quella contro le donne che, al netto di tutte le ambigue somiglianze, è una violenza connotata con una certa esattezza.
Cominciando da Lea Melandri che ieri si è espressa duramente sulla qualità e il senso politico di un’operazione simile e a chiare lettere ha scritto: «A chi commenta Non c’è limite, rispondo: Il limite dobbiamo porlo noi». Nel pomeriggio di ieri è arrivato anche il comunicato stampa di «Non Una Di Meno» che, mentre prepara la manifestazione di domani a Roma, dirige alla presidente Rai Monica Maggioni: «La violenza sulle donne non è un destino, non è una condanna, non è inevitabile» dichiarano le organizzatrici Di.Re Rete nazionale dei Centri Antiviolenza, Udi e Io decido, e proseguono «I Centri Antiviolenza e il movimento delle donne lottano da trent’anni per affermare l’inviolabilità del corpo femminile fin dall’infanzia, per fare in modo che sempre più donne si sottraggano alla violenza e che le generazioni future crescano libere e sicure». Altrettanto netta la posizione della Cpo Fnsi, la Cpo Usigrai e la Cpo Rai che in una nota scrivono: «Non è così che si aiutano le donne! La campagna di comunicazione della Rai per il 25 novembre, giornata per il contrasto della violenza di genere, trasmette un messaggio devastante: il futuro delle bambine è farsi ammazzare».
Su Change.org, le attiviste di Rebel Network hanno lanciato una petizione che in poche ore ha ottenuto notevole diffusione e adesione: «La violenza sulle donne», si legge nel testo, «è un problema culturale che si vince crescendo nel rispetto reciproco e nella condivisione delle differenze. Crediamo nelle buone intenzioni della Rai, ma non sono sufficienti quando il risultato le tradisce».
[Alessandra Pigliaru 25/11/2016]

mercoledì 23 novembre 2016

Rileggere Spivak

È davvero una buona notizia che la casa editrice Meltemi riprenda le pubblicazioni, dopo essere stata rilevata da Mimesis. Nel catalogo della «Melusina», come anche la si è sempre chiamata per via del suo bel logo, ci sono infatti volumi importanti, che ora potranno tornare a essere disponibili. In particolare, per via dell’impegno e dell’intelligenza di Luisa Capelli (direttrice editoriale e amministratrice unica di Meltemi dopo la prematura scomparsa di Marco Della Lena nel 2003), la casa editrice romana svolse un ruolo fondamentale nell’introdurre in Italia gli studi postcoloniali – proponendo testi classici, per esempio di Paul Gilroy, Dipesh Chakrabarty, Homi Bhabha, Achille Mbembe e Partha Chatterjee. La Critica della ragione postcoloniale di Gayatri Spivak (1999) uscì nel 2004, nell’impeccabile traduzione di Angela D’Ottavio, e ne discussi i temi di fondo in una recensione pubblicata su queste colonne (Il Manifesto, 1.02.2005).
Molte cose sono cambiate in questi dieci anni. In Italia il postcoloniale è entrato nel dibattito critico, attraverso molteplici iniziative – tra cui la rete inteRGRace – e i lavori di una nuova generazione di studiosi e studiose (faccio solo due esempi: Gaia Giuliani, autrice di studi importanti su James Mill e il colonialismo britannico, sulla «bianchezza» nella storia italiana e sulle nuove figure della paura, e Gabriele Proglio, di cui è appena uscito Libia. 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, Le Monnier).
NEL MONDO ANGLOFONO, dove sono nati, gli studi postcoloniali sono nel frattempo in qualche modo implosi, anche per via di una serie di critiche che in qualche modo Spivak anticipava nel suo volume del 1999. Ma questa «implosione» è stata felice, perché i temi e le categorie al centro del postcolonialismo si sono come diluiti all’interno di una serie di dibattiti critici (da quelli femministi all’analisi del capitalismo contemporaneo, dagli studi urbani alla teoria politica), influenzandoli in modo spesso molto produttivo.
E che dire di Gayatri Spivak? È difficile tenere il conto delle sue pubblicazioni dopo l’uscita della Critica. Ricordo solo – oltre alla nuova edizione della Grammatologia di Derrida, da lei tradotta nel 1976 (ne ha parlato sul Manifesto Federico Zeppino lo scorso 23 giugno) – il dialogo con Judith Butler sul grande movimento dei latinos negli USA (Che fine ha fatto lo stato-nazione?, anch’esso uscito da Meltemi nel 2009) e un bel libro sulla necessità di ripensare l’Asia in quello che da molte parti viene definito l’Asian Century (Other Asias, Wiley-Blackwell, 2008). Ma si dovrebbero menzionare molti altri testi e interventi di un’intellettuale che, amata incondizionatamente o detestata per l’«oscurità» del suo stile, continua comunque a essere protagonista dei dibattiti critici globali. Come quando lessi il libro per la prima volta, in ogni caso, è ancora oggi la sezione intitolata «Storia» in Critica della ragione postcoloniale a colpirmi maggiormente. Spivak rielabora qui i temi di un suo celebre intervento del 1988, Can the Subaltern Speak?, tenendo al contempo ben presente un altro suo saggio, del 1985: Deconstructing Historiography (lo si può leggere in traduzione italiana in Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, ombre corte, 2002).
SI TRATTA DI SAGGI che hanno fatto epoca, e che continuano a fare discutere. Basta sfogliare le pagine di un numero da poco uscito della rivista Cultural Studies (il 5 di quest’anno, intitolato «Relocating Subalternity» e ben curato da Jamila Mascat e Sara de Jong) per rendersi conto di quanto in profondità i due interventi appena richiamati condizionino il dibattito internazionale sulle categorie, di originario conio gramsciano, di «subalternità» e «subalterno». E si tratta di un dibattito che ha avuto echi molto importanti anche in Italia, come si può ben vedere per esempio dal volume Subalternità italiane, a cura di Valeria Deplano, Lorenzo Mari e Gabriele Proglio, o dal lavoro di «Orizzonti Meridiani» (Briganti o emigranti. Sud e movimenti tra conricerca e studi subalterni, ombre corte, 2014).
Mi rendo conto di avere dato fin qui a questo articolo il tono di una rassegna bibliografica (molto lacunosa, per altro). Era in qualche modo inevitabile, per un volume che viene riproposto a più di dieci anni dalla sua prima pubblicazione. Ma è venuto il momento di domandarsi quali erano i problemi teorici (e politici) posti da Spivak nei suoi saggi degli anni Ottanta, e poi rielaborati in Critica della ragione postcoloniale.
Al centro della sua critica c’era il lavoro del collettivo dei Subaltern Studies (e del suo principale esponente, Ranajit Guha), che avevano avviato un lavoro di radicale revisione dei paradigmi storiografici prevalenti nel dibattito sul colonialismo britannico in India, in particolare con una serie di formidabili studi sulle rivolte contadine nell’Ottocento (va almeno citato il più importante, di Guha: Elementary Aspects of Peasant Insurgency in Colonial India, Oxford University Press, 1983).
SPIVAK si sentiva molto vicina ai Subaltern Studies. Ma ravvisava nei loro lavori un’«ingenua» fiducia nella possibilità di recuperare la «voce» autentica dei «subalterni» dall’interno degli archivi coloniali, e faceva giocare le provocazioni della decostruzione contro quello che le appariva un residuo di «umanesimo» ed «essenzialismo». Ne sono derivati infiniti dibattiti, che hanno molto influenzato lo stesso sviluppo successivo dei Subaltern Studies, conducendo – per dirla molto in breve – alla ridefinizione in termini «relazionali» della categoria di «subalternità».
Ora, il punto non è seguire Spivak in tutte le infinite pieghe della sua analisi decostruttiva: molte sono le critiche che sono state rivolte nel corso degli anni ai suoi interventi (e in particolare a Can the Subaltern Speak?), alcune senz’altro condivisibili. Ma occorre riconoscere che in particolare la sua critica al modo in cui molti intellettuali «radicali» rappresentano i «subalterni» coglie spesso nel segno (e la questione della rappresentanza/rappresentazione è al cuore di alcuni dei passaggi teoricamente più importanti e impegnati della Critica della ragione postcoloniale).
ASSUMENDO come bersaglio critico un celebre dialogo tra Deleuze e Foucault (due autori con cui Spivak ha a sua volta dialogato per tutta la vita), quel che viene messo in discussione dall’autrice di origini bengalesi è il dispositivo attraverso cui – specchiandosi nell’immagine del «subalterno» da lui stesso prodotta – l’intellettuale radicale (o il «militante») appaga un sostanziale narcisismo, cadendo preda della logica della rappresentazione nel momento stesso in cui pretende di criticare radicalmente la rappresentanza.
Non mancano risonanze nel nostro presente italiano ed europeo di questa critica – sia in immagini caricaturali della «militanza» che continuano a circolare, sia nei dibattiti sul «populismo» (e sarà bene ricordare che Dipesch Chakrabarty, in un articolo uscito nel secondo numero del 2004 della rivista «Studi culturali», ha paragonato la prima fase dei Subaltern Studies proprio al populismo russo del tardo Ottocento, per altro sottolineando sia l’importanza sia i limiti di quell’esperienza). Non credo tuttavia di essere molto lontano dallo «spirito» di Spivak, se aggiungo che – pur tenendo conto della sua e di altre critiche che sono state formulate dall’interno dei movimenti sociali, e in particolare femministi, degli ultimi decenni – il problema della militanza rimane fino in fondo un nostro problema, di cui dobbiamo riappropriarci.
SCRIVEVA Spivak nel 2011, nel suo contributo al primo numero di Tidal, il giornale di Occupy Wall Street: «oggi la forza lavoro globale è profondamente divisa di fronte a una globalizzazione che opera attraverso un sistema finanziario largamente autonomo da quella forza lavoro. È per via di questa divisione che è di nuovo venuto il momento di rivendicare e proclamare lo Sciopero Generale». Ecco, il nostro «Sciopero Generale» ha bisogno di una nuova militanza, che occorre inventare collettivamente tenendosi a distanza di sicurezza da retoriche tanto virilmente roboanti quanto in ultima istanza sacrificali.
[Sandro Mezzadra 23/11/2016]

martedì 15 novembre 2016

Il posto, Annie Ernaux

CARISSIM*, VI RICORDO CHE MERCOLEDI' 16 CI TROVIAMO DA IDA PER LEGGERE IL POSTO DI ANNIE ERNAUX.
L'INDIRIZZO E' VIA BOCCACCIO 24.
A PRESTO
SILVIA