lunedì 24 ottobre 2016

Lo schiavista, Paul Beatty

Nato nel 1962, coetaneo di David Foster Wallace e di Jennifer Egan, poeta prestato alla narrativa – cui aveva già regalato tre libri di notevole livello (uno solo dei quali tradotto in italiano) – Paul Beatty è andato sempre più consolidandosi, nel corso degli anni e insieme a Colson Whitehead e John Edgar Wideman, come una delle voci più originali e convincenti della letteratura afroamericana contemporanea. Con il suo quarto romanzo, Lo schiavista, proposto – come già Slumberland – da Fazi (pp. 370, euro 18,50 euro), nella traduzione davvero eccellente di Silvia Castoldi, ha ottenuto una vera e propria consacrazione, conseguendo il National Book Critics Circle Award e entrando con autorevolezza nella rosa dei finalisti del Man Booker Prize.
Chi aveva ancora dubbi sui meriti dell’autore ha dovuto ricredersi: Beatty rappresenta l’esempio forse più luminoso della strada che la letteratura afroamericana ha saputo percorrere negli ultimi anni, liberandosi dall’obbligo del realismo e della denuncia sociale, che ne aveva fortemente limitato lo spettro d’azione, senza peraltro rinunciare a parlare – in modo forse ancor più forte e convincente, e ricorrendo alle armi della satira, del gioco linguistico, del pastiche, e di un umorismo sfrenato – delle questioni razziali e più in generale delle disuguaglianze che attanagliano un’America sempre più lontana dal suo sogno.
Se in Slumberland buona parte della trama si svolgeva in Europa, per la precisione a Berlino negli anni della caduta del muro, il setting dello schiavista è Dickens: una minuscola cittadina della Los Angeles Area fondata nel secondo ottocento come comunità agricola, per poi trasformarsi in un ghetto per neri e finire cancellata dalla gentrification. Ed è proprio per ribellarsi contro l’obliterazione della città in cui è nato che il protagonista, Bonbon Me – già segnato dall’uccisione del padre sociologo da parte della polizia – comincia la sua personale guerra contro il governo degli Stati Uniti: prima ridisegnando i confini di Dickens con la vernice bianca; poi cercando di reintrodurre la segregazione razziale – in fondo, non c’è niente di meglio dell’apartheid per restaurare un senso di comunità tra gli afroamericani – e ficcandosi così nel gigantesco pasticcio che lo porterà davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti (dove lo troviamo nel lungo, esilarante prologo del romanzo).
BonBon Me è un personaggio sui generis: se tenta di farsi strada nella vita non è nel nome di un desiderio di autoaffermazione razziale, ma tutt’al più assecondando la «frenesia edipica di compiacere il padre». Il suo rapporto con l’identità afroamericana viene formulato con la massima chiarezza in uno dei primi capitoli dello Schiavista: «Ora, se dipendesse solo da me, non potrebbe importarmene di meno di essere nero. A tutt’oggi quando mi arriva per posta il modulo dell’anagrafe, sotto la voce «Razza» barro la casella «Altro» e nello spazio accanto scrivo orgogliosamente «californiano».
Naturalmente due mesi dopo un impiegato dell’anagrafe si presenta a casa mia, mi dà un’occhiata e dice: «Razza di sporco negro. In quanto nero, cos’hai da dire a tua discolpa?». E in quanto nero, non ho mai niente da dire a mia discolpa. Quindi ho bisogno di un motto: se lo avessimo, alzerei il pugno, lo griderei forte e sbatterei la porta in faccia al governo. Ma non ce l’abbiamo. Perciò borbotto: «Mi scusi», e scarabocchio le mie iniziali accanto alla casella con la scritta “Nero, afroamericano, vigliacco”». Questo improbabile antieroe si fa portatore di un progetto paradossale, una sorta di antiutopia che, pure, ha una sua ragione profonda. Nel decimo capitolo dello Schiavista, BonBon mette in scena, sull’autobus guidato dall’ex amore della sua vita, Marpessa, la versione invertita di «quel giorno d’inverno nello Stato segregazionista dell’Alabama», in cui Rosa Parks si rifiutò di cedere il posto sull’autobus a un bianco. Incolla sotto i finestrini cartelli a caratteri bianchi e azzurri: «Posti riservati agli anziani, ai disabili e ai bianchi».
Passati in rassegna i mille episodi che, nel corso del Novecento, hanno fatto di Los Angeles l’epitome del razzismo americano (dall’internamento di massa dei nippoamericani, evocato recentemente da James Ellroy in Perfidia, agli urban riots del 1992, seguiti al brutale pestaggio di Rodney King da parte della polizia), BonBon chiarisce la sua visione della storia degli Stati Uniti: l’integrazione etnica – come del resto quella sociale – si è rivelata un autentico fallimento, e agli afroamericani non resta che l’autoghettizzazione come scelta e paradossale diritto.
In un paese sconvolto dalla recrudescenza del conflitto razziale già in corso quando Lo schiavista è stato scritto, e che diventa ogni giorno più evidente, Beatty torna a sfruttare, con maturità ormai piena, le armi e le tecniche di racconto a lui più congeniali: fonde la tradizione umoristica afroamericana e quella satirica che da Twain passa per Vonnegut e approda a Saunders. E costruisce un edificio narrativo denso di riferimenti storici e culturali, a volte quasi sovraccarico, ma che sa illuminare, con le1eggerezza profonda, i contrasti e gli abissi di una società in declino.
[Luca Briasco 23/ 10/2016]

Zero K, Don DeLillo

Una ostinata, quasi esibita vaghezza, sembra offrirsi nelle parole di Don DeLillo a bilanciare la adamantina precisione della sua scrittura, a volte apodittica altre volte indirizzata verso derive semantiche riscattate da significati nascosti nella sonorità di sillabe che sembrano affiorate dall’inconscio.
L’uomo del Bronx che abitava a sei o sette isolati da Lee Harveey Oswald, compirà ottant’anni fra un mese: la voce si è fatta leggermente più rauca, il timbro più basso, l’eventuale sorriso invece è lì, pronto a compensare la sua proverbiale ritrosia. Tutto lascia pensare che DeLillo sia particolarmente soddisfatto del suo ultimo lavoro, un romanzo coraggioso nello sfidare i limiti del plausibile: si intitola Zero K (traduzione di Federica Aceto, Einaudi, pp. 240, euro 19, recensito sul manifesto del 7 ottobre). Vi si racconta di un progetto chiamato Convergence il cui scopo è assicurare, a chi potrà comprarsela, una seconda vita tramite la sospensione criogenica del corpo, portato alla più bassa temperatura raggiungibile: quella che i fisici chiamano zero k. Sarà questione di «morire un po’ per vivere poi in eterno», dice Ross Lockhart, magnate della finanza distrutto dalla morte imminente della sua seconda moglie Artis, per la quale ha generosamente finanziato la tecnologia che le assicurerà una seconda vita. Ne illustra i chimerici vantaggi al figlio Jeff, voce narrante e coscienza critica del romanzo, che ha investito tutte le sue energie per emanciparsi dall’esempio del padre, la cui fortuna viene dalla speculazione sui profitti derivabili dai disastri naturali.
DeLillo è a Roma, ha in mano l’edizione americana del romanzo, ne estrae un foglietto sul quale ha registrato la data in cui ha cominciato a scriverlo: 6 luglio 2011, e quella in cui l’ha terminato: 4 aprile 2015. Ricapitoliamo insieme alcuni punti.
Questo suo ultimo romanzo rimette in gioco una serie di temi che lei aveva già affrontato in libri precedenti: la questione del tempo, la concezione dello spazio, la necessità di conoscere il nome degli oggetti perché possano acquisire statuto di realtà, la presenza dell’arte, e altre questioni ancora. Come descriverebbe l’evoluzione della sua scrittura nel corso degli anni?
L’idea che ho di me stesso è quella di uno scrittore che lavora sulle frasi, una dopo l’altra, pagina per pagina. Mai, nella mia carriera professionale, ho avuto in mente lo schema generale di un romanzo prima di cominciarlo, né saprei descrivere il passaggio da un libro all’altro. Dunque, l’evoluzione della mia scrittura non mi è chiara, né saprei nominare con esattezza più di quattro, forse cinque, fra i temi che si trovano in Zero K, semplicemente perché penso ai romanzi piuttosto in termini di parole. Certo, può capitare che mi venga l’idea per un personaggio e la butti giù, ma non succede spesso. Per quanto riguarda i temi presenti in Zero K, oltre a quelli che lei ha elencato parlerei della questione relativa alla fine della vita, o meglio alla sua estensione dopo la morte, ma – davvero – anche l’idea della sospensione criogenica dei corpi non so come mi sia venuta: semplicemente, un giorno era lì.
Anche in «ZeroK» torna la sua tendenza a trascendere i limiti dell’esperienza, a oltrepassare il dato empirico di ciò che il personaggio ha sotto gli occhi. Per esempio, subito dopo avere avuto un inaspettato rapporto sessuale con una escort, Jeff riflette: «Ascoltavo il nostro respiro e mi sono sorpreso a immaginare il paesaggio che ci circondava: lo rendevo pianeggiante, astratto, i margini sfumati del nostro egocentrismo». E ancora, quando racconta della visita alla struttura che ospita il progetto Convergence: «Ci hanno condotto in uno spazio che a un certo punto è diventato qualcosa di astratto, un evento teorico.»
Lei pensa a una fuga della mia scrittura nella metafisica, o in qualcosa di spirituale e, in effetti, è probabile che elementi del genere siano presenti nei miei romanzi. Per me che ne sono l’autore è difficile individuare questa tendenza a trascendere la realtà, perché laddove è presente compare in modo del tutto naturale, e il lettore la vede certamente meglio di quanto non lo veda io. È il linguaggio stesso, io credo, a innalzare verso una essenza spirituale e metafisica ciò che scrivo relativamente a quanto accade nella vita di tutti i giorni. Per ciò che riguarda Jeff, sembra stia cercando qualcosa nella vita che lo distingua in modo significativo, se non radicale, dal padre. Perché non può impedirsi di pensarlo se non associandolo alla sua sterminata ricchezza. Non a caso Jeff cerca lavori quasi astratti, si lascia andare alla deriva da un impiego all’altro, è sempre fuori contesto, perché questo risponde al tentativo deliberato di emanciparsi da qualsiasi influsso del suo ricchissimo genitore.
Diversamente dalla seconda, amatissima moglie di Ross, che usufruirà della crioconservazione del suo corpo, destinato a rinascere quando la tecnologia sarà in grado di guarirne le malattie, la prima moglie e madre di Jeff è stata abbandonata e dimenticata dall’ex marito, che non riesce nemmeno a pronunciarne il nome. Jeff, invece, torna spesso a pensarla e a ricordare la scena del suo capezzale, il giorno in cui morì. Anche il diverso destino delle due donne le serviva, probabilmente, a creare un contrasto al quale alimentare il suo romanzo…
In effetti è così. Durante la stesura di diversi passi che riguardavano il rapporto di Jeff con sua madre mi sono ritrovato a pensare che non avevo mai scritto sul legame tra una madre e un figlio, perlomeno non in questo stesso modo. E mi ha sorpreso quanto poco ci abbia messo Madeline a diventare un personaggio del romanzo: trovarle un nome mi ha impegnato per un bel po’ di tempo, ma una volta che l’ho individuato tutto ha cominciato a filare in fretta e ho capito velocemente di che natura fosse il rapporto tra i due: quanto Jeff contasse sulla madre come forza stabilizzatrice della sua vita. Almeno in senso lato, perché Madeline ha le sue piccole eccentricità, e mi ricordo distintamente quanto mi abbia divertito descriverla mentre organizza e riordina i suoi utensili nel cassetto della cucina. La rappresentazione di questi gesti semplici – ordinare nei cassetti forchette, coltelli, cucchiai – impegnava la mia immaginazione visuale e mi comunicava una sensazione fisica. Mi sono reso conto di quanto fosse importante, per me, vederla in una tridimensionalità che mi sembrava aleggiare sopra la mia mano, che scriveva sulla pagina.
I nomi sono sempre stati importanti per lei. Avrà dunque un significato speciale il fatto che Ross Lockhart non si chiamasse davvero così. Jeff svela, a un certo punto, che il cognome del padre è falso: quale strategia narrativa le ha suggerito di rivelare questo particolare solo a uno stadio avanzato del romanzo?
È avvenuto in modo puramente intuitivo: a un certo punto mi sono detto, ecco il momento di fare questa rivelazione. Avevo già messo a fuoco ciò che avrebbe dovuto distinguere Ross dalla figura di Jeff; sapevo qualcosa di lui, e non soltanto circa la sua immane ricchezza, anche se di certo non lo avrei chiamato Lockhart se ne avessi fatto il custode di un condominio del Lower East Side. Si chiamava così, in realtà, un mio vecchissimo amico. Come spesso mi accade, è stato quando ho potuto dare un nome al personaggio che mi è sembrato di sapere già molto sul suo conto. Tocca alla madre dire a Jeff che il padre ha cambiato nome, ma glielo comunica solo a un certo punto della sua vita: perciò, poiché si tratta di una rivelazione tardiva, il personaggio la condividerà con i lettori solo tardivamente. È vero che i nomi sono da sempre molto importanti per me: per esempio, quando ho concepito il personaggio del figlio di Emma, la compagna di Jeff, ho saputo subito che si sarebbe chiamato Stak, che sarebbe stato un figlio adottivo, che in quel momento della vicenda avrebbe avuto quattordici anni, che sarebbe stato molto più alto della media dei suoi coetanei e avrebbe parlato in un modo un po’ curioso. Glielo dico per farle osservare quale contrasto ci sia tra lo sviluppo repentino di un personaggio come Stak e l’evolversi lento del carattere di Jeff, che diventa se stesso frase dopo frase. Essendo lui la voce narrante del romanzo, che è scritto in prima persona, Jeff diventa quel che è via via che accadde ciò che accade: è lui che parla, è lui che pensa, lo sviluppo del romanzo segue la gradualità dei suoi ragionamenti.
Anche in questo libro, come già in «Americana», il suo primo romanzo, torna il riferimento a Agostino. Questo filosofo resta, mi pare, il suo punto di riferimento: non solo per ciò che riguarda le ricorrenti riflessioni sul tempo, che si ritrovano pressoché in tutti i suoi romanzi, ma anche per ciò che riguarda il linguaggio. Tuttavia, sia Nick in «Underworld» sia Mr Tuttle in «Body Art» sia Jeff in «Zero K», sembra seguano piuttosto la lezione di Wittgenstein, per il quale cercare il nome di un oggetto implica già il fatto di essere all’interno del linguaggio. Manifestando continuamente la necessità di nominare le cose che ha intorno, Jeff esplicitamente allude al fatto che i limiti del suo mondo coincidono con i limiti del suo linguaggio.
Avendo letto sia Wittgenstein che, soprattutto, Agostino non posso negare che i miei romanzi ne siano stati subliminalmente influenzati; ma senza che ne fossi consapevole. Però è anche vero che a un certo punto di Zero K metto una frase di Agostino in bocca a uno dei gemelli che Jeff chiama «gli Stenmark» – due personaggi ricalcati su comici televisi americani degli anni cinquanta, ideati per far ridere. Nel momento in cui parla, però, questo gemello è dannatamente serio, persino cupo, ed è perciò che metto in bocca a lui una citazione da Agostino, che mi ronzava in testa da decenni: «All’uomo non potrà mai accadere niente di peggio nella morte, che una morte immortale». È sicuramente una affermazione di grande potenza; ma se la si legge attentamente ci si può trovare qualcosa di comico.
Il progetto «Convergence» viene realizzato in una struttura che sembra sorgere dal deserto, fatta di lunghi corridoi sulle cui pareti scorrono dei video. Uno di questi, alla fine del romanzo, proietta immagini di guerra: a un certo punto, si vede Stak, il figlio di Emma, mentre viene colpito a morte in Ucraina. Più tardi, Emma racconterà la sorte di Stak a Jeff, e lui commenterà fra sé e sé: «Non le dico che ho visto come è successo». Dunque, questi video proiettano immagini che vengono dal futuro?
Il ruolo delle immagini in questo romanzo è di grandissima importanza, anche se – ancora una volta – esse sono il frutto di una intuizione, non di un piano prestabilito. Ha notato che quando Jeff si imbatte in questi video è sempre solo? La domanda è: le proiezioni sono là soltanto per lui? Glielo chiedo ma non voglio nemmeno tentare una risposta. Del resto, tutto è molto strano in questi edifici che ospitano Convergence: lunghi corridoi dove si aprono porte dietro le quali non c’è nulla, pareti dipinte con scene che rappresentano gli ambienti stessi… A un certo punto del romanzo viene detto che questi corridoi sono un’opera di Land Art. Finché Jeff non assiste al video finale, quello dove passano immagini di guerra, distruzione, morte, noi sapevamo solo che Stak era andato via di casa. Ma nel momento in cui Jeff lo vede cadere capiamo che, probabilmente, si era unito a una milizia informale attiva in un combattimento: sarà solo grazie a una coincidenza che Jeff lo vede morire? O c’è dietro un piano che sovraintende a tutto quanto? Jeff non lo sa, e io nemmeno. Semplicemente, ho seguito l’idea di immagini proiettate su uno schermo, qualcosa di preternaturale, che si muove al di là di un livello intelligibile.
Non pensa che questa scena abbia a che fare con un uso del tempo che aveva già sperimentato in altri romanzi? Alla fine di «Cosmopolis», per esempio, non soltanto la vicenda parallela di Benno Levin è narrata come una sorta di memoria di quel che avverrà, ma quando Eric Packer muore, vede se stesso come in una sorta di film girato al futuro anteriore.
Sì è vero, anche in Punto Omega, c’è un personaggio che è capace di vedere qualcosa che non si è ancora realizzato. L’idea del tempo rimanda a concetti filosofici di cui si sono occupati in molti, e ci sono scienziati che hanno approfondito questo fenomeno complesso arrivando a sostenere che noi non facciamo che raggiungere avvenimenti già accaduti: dunque, benché io faccia di queste idee un uso romanzesco, non sono una esclusiva della mia immaginazione.
Lei ha sempre assegnato all’incipit una grande importanza. «Zero K» comincia affermando: «Tutti vogliono possedere la fine del mondo». Perché ha usato un verbo che indica il possesso, e non per esempio, il vedere o il fare esperienza?
Perché quelle parole vengono dalle labbra di un uomo molto ricco, ed è così che Ross metterebbe le cose. Ma proviamo ad andare al di là del romanzo e consideriamo le domande che si sono posti molti fisici e climatologi: è pensabile che una catastrofe possa colpire questo pianeta in modo repentino, per effetto dell’impatto con un oggetto proveniente dallo spazio? Tutta la prima parte di Zero K ricade sotto il titolo «Nel tempo di Celjabinsk», dal nome della città sulla quale, nel febbraio del 2013, andò a frantumarsi un meteorite: era l’epoca nella quale stavo pensando a come costruire il romanzo. Dunque, è da lì che mi è venuta l’idea. Aggiungo che non pochi scrittori vorrebbero possedere la fine del mondo.
Alla moglie di Ross Lockhart è dedicato un capitolo fatto di brevi frasi sconnesse, una sorta di monologo interiore in cui Artis Martineau, questo il nome della donna, ha ormai subito il processo di criogenesi che le assicurerà una seconda vita. Come mai ha pensato di scrivere un capitolo di questo genere, stilisticamente isolato dal resto del romanzo?
Non è stata una decisione premeditata. Solo quando il romanzo era ormai finito ho intravisto l’opportunità di scrivere una sezione che funzionasse da snodo tra la prima e la seconda parte. Inizialmente avevo pensato che potessero funzionare a questo scopo le righe che ora si trovano subito prima dell’ultimo capitolo, quando Jeff pensa a Artis nella sua capsula criogenica e cerca di immaginare se le resti ancora una qualche forma di autoconsapevolezza. Ma poi ci ho ripensato, e allora ho scritto questo capitolo in cui mi è sembrato importante presentare la vita nella camera sepolcrale dove si viene portati alla temperatura zero k. Così ho inventato un linguaggio che rendesse conto, in una maniera abbastanza primitiva, dell’idea di una vita dopo la morte. Artis si trova a cavallo tra la prima e la terza persona, lei stessa diventa un personaggio della sua mente, e questo dimostra quanto le sia difficile capire cosa le stia succedendo. Non sa chi sia esattamente, parla in prima persona ma al tempo stesso c’è una voce in terza che la indirizza a mettere a fuoco chi sia lei ora, e che le parla con la sua stessa voce.
Lei descrive Ross come «un uomo forgiato dai soldi». Anche Eric Packer, il protagonista di «Cosmopolis» lo era…
In realtà non avevo mai istituito questo nesso tra Eric Packer e Ross Lockhart, ma è interessante vedere come, effettivamente, questi due personaggi abbiano qualcosa in comune. Cosmopolis era un romanzo nato proprio dall’idea di mettere un uomo giovane dentro una Limousine bianca, che attraversa Manhattan da oriente a occidente: all’inizio del libro non avevo altro in mano. Penso che l’idea mi fosse venuta dal fatto che, all’epoca, i newyorkesi avevano ben presenti questi individui che giravano per Manhattan, dunque per una griglia urbana fatta di angoli retti, a bordo di Limousine talmente lunghe da rendere molto difficile il fatto stesso di curvare. In più, cresceva la consapevolezza che esistevano tanti uomini così ricchi da permettersi di comprare qualunque cosa. Quando me ne resi conto mi dissi che avrei dovuto fare più attenzione a questo fenomeno. Non so come mai, più di dieci anni dopo, abbia di nuovo inventato un personaggio caratterizzato dalla sua immane ricchezza.
[Francesco Borrelli 23/10/2016]

mercoledì 19 ottobre 2016

Teneri, disincantati compagni di strada

Una scrittrice dagli occhi intensi e e che per le sue parole taglienti è stata minacciata di morte dai fondamentalisti del suo paese; un attore radical americano che dona parte del suo cachet a associazioni per i diritti civili; un giornalista fedele alla mission di denunciare gli abusi del potere costituito. Infine, un fuggiasco, costretto a rifugiarsi nella poco democratica Russia. È la strana compagnia che si riunisce per alcuni giorni in una Mosca fredda.
La scrittrice è Arundhati Roy, l’attore è John Cusack, il giornalista è Daniel Ellsberg, noto per aver tirato fuori i paper del Pentagono per preparare il clima adatto a legittimare l’intervento delle truppe americane in Vietnam. Il giovane esiliato è Edward Snowden, cioè l’agente che ha tirato fuori le prove sul capillare spionaggio svolto dalla National Security Agency su milioni di cittadini americani e non solo.
QUESTO INCONTRO e le conversazioni ravvicinate tra la scrittrice e l’attore che lo procedono è lo sfondo del libro Cose che si possono e non si possono dire (Guanda, pp. 164, traduzione di Federica Oddera. Il libro sarà in libreria da domani).
Pagine che si leggono tutte di un fiato. Incalzanti, ironiche e piene di quella leggerezza necessaria a volte per parlare di «cose» complicate.
John Cusack usa le parole con parsimonia. Poco concede alla retorica anti-establishment dei movimenti dei diritti civili made in Usa. Mette subito in chiaro che la politica estera del suo paese non gli piace. Ma è ostile anche a chi taglia le gole del proprio paese perché bisogna disinfettarlo dai virus occidentali. Le truppe mandate in Iraq hanno raggiunto un solo obiettivo – la caduta di Saddam Hussein – ma poi il paese ha conosciuto e conosce una guerra civile feroce e sanguinosa, che ha visto centinaia di migliaia di civili morti. I militari Usa hanno pensato solo di difendere il petrolio, uno dei motivi per i quali sono stati mandati lì. Nel frattempo, il fondamentalismo politico-religioso ha assunto le sembianze proprio dei tagliatori di gola dell’Isis. Che non esitano a scagliarsi contro chi il potere non lo ama, colpevole però di amare la libertà.
La scelta di Snowden di rendere pubblici i materiali dello spionaggio su larga scala della Nsa non risolve il pantano iracheno, né quello siriano o libico, ma ha alzato il velo sull’esercizio antidemocratico del potere Usa.
L’attore deve però vedersela con lo scetticismo della scrittrice indiana. Ad Arundhati Roy Edward Snowden non piace da quando si è fatto fotografare con una bandiera americana stretta al petto. Le è sembrato un gesto incoerente rispetto alle denunce dell’ex-agente americano. Obietta, con le lacrime agli occhi, ricordando che il patriottismo un giovane americano lo ha servito a pranzo e a cena. Alla fine diviene una seconda pelle. Solo quando avverti la contraddizione tra l’inno nazionale che parla dei liberi e coraggiosi e le orrende cose compiute provi a toglierti quella seconda pelle. Fa male, ma il patriottismo è anche un abito mentale difficile da dismettere.
Arundhati Roy è un torrente in piena quando mette in rilievo come il potere non ami chi è in disaccordo. In India, il partito indù al governo fa propaganda a colpi di massacri di musulmani e di civili, che si oppongono alla loro cacciata dalle terre dove vivono per far posto a una diga o una miniera. Il potere ha sempre un doppio standard etico: se qualcuno uccide, ma è tuo nemico è una bestia, ma se i massacri e gli stupri sono compiuti in difesa di uno stile di vita, ecco che diventano atti di eroismo.
Il radicalismo etico di Arundhati Roy è scandito dall’ironia. Si prende cioè amabilmente in giro. Dice che è stata nutrita di marxismo fin da piccola, ma poi usa parole sferzanti verso il partito comunista del Kerala e il socialismo reale. Ma ha ragione l’autrice del Dio delle piccole cose. il nodo da sciogliere non è quanti grammi di comunismo ci siano in un ragionamento.
UN INTELLETTUALE non può che essere un dissidente, echeggiando altri autori, non ultimo l’amato Edward Said. Essere dissidenti nel mondo e in casa propria è dunque il primo passo per dare forma alla risposta alla vera domanda che ancora in molti non vogliono porsi, rifugiandosi nel culto di una identità priva di ogni attrattiva: cosa significa infatti essere comunisti dopo il socialismo reale e i gulag? Difficile domanda e risposta ancora da là a venire
Esercitare la dissidenza, non fare sconti a nessuno, senza però mai dimenticare che la sua scelta è di stare a fianco con chi resiste al neoliberismo. John Cusack annuisce. E annuisce anche Edward Snowden. Pure lui ha fatto una scelta di campo. Ironia della sorte è ospite di un oligarca che la democrazia la piega ai suoi voleri.
Sa che non potrà mai tornare in patria, ma è il prezzo che ha deciso di pagare affinché le parole che non si ciano più parole ostili al potere che non si possono dire.
[Benedetto Vecchi 19/10/2016]

venerdì 14 ottobre 2016

Bob Dylan Premio Nobel



Lo scorso maggio è stato pubblicato Fallen Angels, con una dozzina di grandi classici della canzone americana riletti, interpretati e riarrangiati da Bob Dylan. Mentre il suo primo album, nel 1961, titolo Bob Dylan, era costituito da brani rielaborati della tradizione popolare, con un brano inedito, Song for Woody, muovendosi nell’orbita di Woody Guthrie, già allora con voce nasale e appuntita.
75 anni, da 55 anni in attività, 125 milioni di dischi venduti in tutto il mondo, inizialmente il folksinger più acclamato in patria. Lo pseudonimo l’ha scelto in omaggio al suo poeta preferito Dylan Thomas.
Un percorso ellittico per Bob Dylan – all’anagrafe Robert Allen Zimmermann, nato a Duluth, nel Minnesota, nel 1941, da un venditore d’elettrodomestici d’origine tedesca e religione ebraica -, il musicista/menestrello che ha cambiato la storia della musica popolare, coi suoi successi stellari, da Blowing in the wind a Masters of war, Mr.Tambourine man e With God on our side e, naturalmente, The times they are a-changin’, Like a rolling stone, Knocking on heaven’s door e poi gli album della svolta elettrica Highway 61 revisited, Blonde on blonde o quelli dalle sonorità più morbide e arrotondate, Nashville Skyline e Selfportrait, e ancora Blood on the tracks, Desire, Infidels fino ad arrivare agli ultimi, Tempest e Shadows in the night dell’anno scorso, senza dimenticare i concerti dal vivo, i cofanetti, la caterva di bootleg (a novembre la Cbs pubblicherà un box set di 36 cd, Live Recordings 1966, con tutte le registrazioni dei concerti di quell’anno, negli Stati uniti, nel Regno unito, in Europa e Australia).
Ma Bob Dylan ha lasciato il segno anche col suo costante rifiuto della retorica, con le sue liriche misteriose, coi suoi riferimenti occulti, con testi che non sono poesie perché devono adattarsi alla metrica del verso musicale, come ha spiegato più volte, ma che grondano di riferimenti colti, dal Talmud alla Bibbia, da Walt Whitman a Ezra Pound, e di slang gergale, di espressioni del parlato quotidiano e di complicati giochi di parole. Le sue canzoni vengono studiate e analizzate sia all’università che alle scuole superiori, andando a caccia di significati reconditi, metafore e doppisensi.
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Con Joan Baez, 1965
Mefistofelico e sibillino, il cantastorie del XX secolo partito abbracciando la chitarra e soffiando nell’armonica ha cambiato più volte immagine, arrangiamenti e repertorio (persino con una svolta cattolica, da cristiano «rinato», fortunatamente poi svanita) lasciando perplessi i suoi fan che hanno imparato a non fermarsi al significato letterale, a non cullarsi sugli allori, a non voltarsi indietro, ad accettare le sfide della contemporaneità (Dylan ha rappresentato in maniera estremamente personale e certamente un po’ criptica anche gli avvenimenti del recente presente, dall’11 settembre alla distruzione di New Orleans, la guerra in Afghanistan e in Iraq e persino i deportati di Guantanamo. Del resto era partito dalle cause umanitarie degli anni ’60 fino alla battaglia per la liberazione di Rubin «Hurricane» Carter).
E anche i suoi scritti – a cominciare dalle prose enigmatiche e creative di Tarantula, il suo romanzo del 1970, fino a Writings and Drawings (ovviamente è un brillante pittore) e all’autobiografia di Chronicles, un solo volume uscito che tratteggia solo gli anni ’60 – riflettono complessità, diversi livelli di lettura, oscurità.
In giro a fare concerti da anni tanto che il suo Neverending tour non è stato fermato nemmeno da svariati malori che l’hanno colpito negli anni, e la scorsa settimana ha suonato al Desert Trip, il festival musicale di Coachella in California, dove si sono esibiti altre superstar come Paul McCartney e Rolling Stones.
I giornali statunitensi hanno scritto di lui che «solo una leggenda poteva misurarsi con le tradizionali strutture del rock e del folk ma interpretandole con uno spirito nuovo».
Ma Dylan continua a mischiare le carte, a giocherellare col passato lanciandolo nel futuro, a reinventare generi e standard, a suo agio tra polverosi e languidi banjo, acque profonde da Mississippi e archi di violini come tra schitarrate lancinanti e melodie parodistiche.
Del resto si presenta in scena con cappello e abiti western da perfetto signorotto southern man, con quella cantilena sferzante che incanta l’uditorio e gli permette di sorprenderlo, di non voler cercare adulazione o simpatia ma semplicemente di rinnovare quel patto musicale e restare forever young.
[Flaviano De Luca 14/10/2016]



«Ma chi sei?» chiede Pat Garrett. «Questa è una bella domanda», risponde Alias, timido e taciturno, ma micidiale al lancio del coltello. Già ben prima di indossare i panni di quel ragazzo dal nome così emblematico nel capolavoro di Sam Peckinpah, Pat Garrett e Billy The Kid, Bob Dylan amava il cinema. Il mistero fantasmatico della luce proiettata sullo schermo così vicino all’elusività e all’inafferrabilità del suo personaggio, magnificamente catturata nel film che gli ha dedicato Todd Haynes, I Am Not There (2007), e che Martin Scorsese ha cercato invano di intrappolare nel suo documentario fiume su Dylan, No Direction Home (2005).
Dal leggendario Don’t Look Back, girato da D. A. Pennebaker, nel 1965, durante il tour inglese di un Dylan, che, davanti ai nostri occhi, cambia personalità come cappelli, in un fantastico rimpiattino con l’idea stessa di cinema-verità incarnata dal grande documentarista americano; al personaggio vagamente mefistofelico nello spot per la Angel Collection di Victoria Secret, nel 2004, Dylan è fluttuato spesso sullo schermo, e ha usato il cinema per esplorare alcune delle sue ossessioni più profonde. Masked and Anonymous mascherato e anonimo, non a caso, è il titolo dell’ultimo lungometraggio che ha scritto (la regia è di Larry Charles), nel 2003, e in cui – sotto le spoglie della rock star Jack Fate – ci guida in un paesaggio di Frontiera post-apocalittica, devastato dal consumismo e sotto il controllo di un governo totalitario. Sgangheratissima ballata che mixa controcultura, Bunuel (uno dei suoi registi preferiti, insieme a Kurosawa) e una qualità deadpan tra il megacinema dei fratelli Coen e la purezza di Buster Keaton, il film è accompagnato dalla presenza di Jeff Bridges, Bruce Dern, Ed Harris, John Goodman, Penelope Cruz, Jessica Lange, Val Kilmer…, docilmente assoggettati all’inspiegabilità del tutto – come i seguaci di un culto.
Ricordo come un momento completamente surreale e altrettanto magico, quando autore, regista e cast sono apparsi in massa sul palcoscenico dell’Eccles Theater al Sundance Film Festival, dove il film ha avuto la sua prima mondiale di fronte a un pubblico esterrefatto.
Come Neil Young, d’altra parte, quando è dietro alla macchina da presa, Bob Dylan parla il linguaggio del cinema sperimentale; in continua dialettica con sé stesso, già da Eat the Document (1972), un film girato da Pennebaker ma che Dylan trovò troppo tradizionale e rimontò personalmente (in una versione di 60 minuti, che include un duetto al piano con Johnny Cash e una gita in limousine con John Lennon) e, più compiutamente, con Renaldo e Clara, un’avventura cubista, scritta e diretta a Dylan. E in cui si specchiano tra di loro identità / personaggi (Dylan e il suo alias, interpretato da Ronnie Hawkins, sua moglie Sara, Joan Baez, Allen Ginsberg davanti alla tomba di Kerouac, Sam Shepard, Rubin «Hurricane» Carter..) realtà e fiction, realizzata nel 1975 prima e durante il tour Rolling Thunder Review.
In una lunga intervista con la rivista Rolling Stones, Dylan lo aveva definito così: «Un film sull’alienazione dell’interiorità umana in rapporto alla sua esteriorità – un’alienazione portata all’estremo. E sull’integrità».
[Giulia d'Agnolo Vallan 14/10/2016]

giovedì 13 ottobre 2016

E' morto Dario Fo

E' morto a 90 anni a Milano l'attore e commediografo Dario Fo. Aveva vinto il premio Nobel per la Letteratura nel 1997. Era ricoverato da qualche giorno all'ospedale "Sacco" del capoluogo lombardo per una serie di complicazioni polmonari. Dalle commedie farsesche degli anni 60 al teatro politico dei 70, fino alle ultime opere incentrate soprattutto sui grandi dell'arte, è stato un monumento del teatro italiano.
Per un curioso caso del destino Dario Fo si è spento proprio nel giorno in cui viene assegnato il Nobel per la Letteratura. Ricoverato da dodici giorni per complicazioni dovute all'enfisema polmonare, tra le 8.30 e le 8.45 ha smesso di respirare. La stessa ora in cui era spirata in casa, il 29 maggio 2013, la moglie Franca Rame. Fo era sedato da mercoledì sera. Avrebbe voluto tornare nella sua abitazione di Porta Romana, ma per i medici la morte in ambulanza sarebbe stata certa. Il figlio Jacopo ha preferito restasse in ospedale sotto l'occhio vigile dei sanitari.
GLI ULTIMI GIORNI IN OSPEDALE - "E' stato lucido e collaborante fino a ieri - ha detto Delfino Luigi Legnani, il direttore del reparto di pneumologia dell'ospedale Sacco di Milano - I suoi collaboratori mi hanno detto che qualche giorno prima dell'aggravarsi delle sue condizioni Fo aveva cantato per ore. Una cosa incomprensibile. Ha sofferto molto per lo schiacciamento di una vertebra. Abbiamo fatto di tutto di per lenire la componente dolorosa legata all'insufficienza respiratoria e alla frattura di un corpo vertebrale. Quindi nelle ultime ore è stato sedato". Nei suoi ultimi giorni di vita, Fo continuava ad informarsi sui temi di attualità: "Si faceva leggere i giornali dai suoi collaboratori perché aveva problemi alla vista".

LA COLLABORATRICE: "LA SUA ULTIMA CANZONE" - Stava già poco bene, ma riuscì a nascondere la sua sofferenza improvvisando anche una vecchia canzone napoletana Dario Fo, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche per la presentazione del libro "Darwin". Era il 20 settembre e pochi giorni dopo il Premio Nobel è stato ricoverato in ospedale. "Ci dissero che era solo per pochi giorni - racconta una delle sue collaboratrici in lacrime - ci dissero che doveva farsi ricoverare solo per una serie di controlli". Alla conferenza stampa di presentazione del suo ultimo libro, nella sua abitazione al quinto piano di un elegante palazzo in Corso di Porta Romana, stracolmo di maschere del tetro, cimeli, targhe e riconoscimenti a lui e alla moglie Franca Rama morta nel 2013, Fo comunque era apparso meno in forma del solito. Vista e udito gli si erano ulteriormente abbassati, un po' smagrito, aveva però risposto a lungo e con pazienza a tutte le domande. Sempre pronto alla battuta e con ironia aveva parlato dei suoi progetti futuri, di quello che avrebbe voluto ancora fare.

FUNERALI IN DUOMO - La cerimonia pubblica per l'ultimo saluto a Dario Fo, secondo indiscrezioni, dovrebbe essere sabato alle 15 in piazza Duomo. La camera ardente invece dovrebbe essere allestita venerdì al Piccolo Teatro Strehler di Milano. Stesso luogo in cui il Nobel a marzo aveva festeggiato assieme ad amici, parenti, attori e musicisti i suoi 90 anni.

mercoledì 12 ottobre 2016

STUPORE

L'idea di iniziare questa nuova stagione di letture con la parola STUPORE  è partita da Roberta che si è fatta ispirare dal titolo di un articolo dedicato all'artista Claudia Losi, e da lì la scelta della parola stupore.

Quale romanzo se non "Alice nel paese delle meraviglie" di Lewis Carrol può suscitare stupore


Andrea ha interpretato la parola in maniera autobiografica cioè associando alla paraola musica testi film che lo hanno stupito
 Una ballata del mare salato

L'assasionio di Roger Ackroyd di Agatha Christie

E per finire Milan Kundera
Francesca ha invece pensato allo stupore che legge nelle facce dei suoi studenti quando spiega per esempio Dante:

Canto XXXIII, ove tratta di quelli che tradirono coloro che in loro tutto si fidavano, e coloro da cui erano stati promossi a dignità e grande stato; e riprende qui i Pisani e i Genovesi.

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto. 3

Poi cominciò: "Tu vuo’ ch’io rinovelli
disperato dolor che ’l cor mi preme
già pur pensando, pria ch’io ne favelli.
6

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch’i’ rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme. 9

Io non so chi tu se’ né per che modo
venuto se’ qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand’io t’odo. 12

Tu dei saper ch’i’ fui conte Ugolino,
e questi è l’arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. 15

Che per l’effetto de’ suo’ mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; 18

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s’e’ m’ ha offeso. 21

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha ’l titol de la fame,
e che conviene ancor ch’altrui si chiuda, 24

m’avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand’io feci ’l mal sonno
che del futuro mi squarciò ’l velame. 27

Questi pareva a me maestro e donno,
cacciando il lupo e ’ lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. 30

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s’avea messi dinanzi da la fronte. 33

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ’ figli, e con l’agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. 36

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti’ fra ’l sonno i miei figliuoli
ch’eran con meco, e dimandar del pane. 39

Ben se’ crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che ’l mio cor s’annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? 42

Già eran desti, e l’ora s’appressava
che ’l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; 45

e io senti’ chiavar l’uscio di sotto
a l’orribile torre; ond’io guardai
nel viso a’ mie’ figliuoi sanza far motto. 48

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?". 51

Perciò non lagrimai né rispuos’io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l’altro sol nel mondo uscìo. 54

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, 57

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch’io ’l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi 60

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia".

Monia cia ha regalato una poesia
SONO FOLLE DI TE, AMORE

Sono folle di te, amore
che vieni a rintracciare
nei miei trascorsi
questi giocattoli rotti delle mie parole.
Ti faccio dono di tutto
se vuoi,
tanto io sono solo una fanciulla
piena di poesia
e coperta di lacrime salate,
io voglio solo addormentarmi
sulla ripa del cielo stellato
e diventare un dolce vento
di canti d'amore per te.

Alda Merini, da "Alla tua salute, amore mio"






lunedì 10 ottobre 2016

primo incontro 12 ottobre

STUPORE
P


E' ora di cominciare! 

Scusate l'inizio pigro, ma gli impegni di tutti, di lavoro e non, hanno rallentato questa apertura di stagione. Adesso che sono in possesso delle informazioni necessarie, propongo un primo incontro mercoledì 12 ottobre , per parlare della parola STUPORE. Quale ricordo letterario affiora nelle vostre menti di lettori? Portate tutti i libri che volete: a voi la scelta!
Ci troveremo a casa mia, quindi ho bisogno di una vostra conferma per ragioni logistiche.

Grazie e a presto

Silvia

venerdì 7 ottobre 2016

Claudio Sessa

Sabato 8 ottobre
Auditorium Conservatorio F. Venezze Via Pighin, Ro
Inizio ore 21.00

CLAUDIO SESSA  presenta i suoi libri

introduce Andrea Tincani







lunedì 3 ottobre 2016

Ozu, l’artigiano del vedere

Yasujiro Ozu (o Ozu Yasujiro) è fuori da ogni ragionevole dubbio uno dei grandi maestri del cinema di tutti i tempi. Molti registi contemporanei si sono ispirati al suo lavoro, o ne hanno sottolineato l’importanza per la storia del cinema: ad esempio Paul Schrader che, come ricorda Dario Tomasi nella sua bella e limpida prefazione al volume degli Scritti sul cinema pubblicati da Donzelli (pp. XXIV-248, euro 26,00), è uno dei rari registi a contribuire in modo sistematico alla teoria del cinema, discutendo il lavoro di altri autori. Il volume degli scritti di Ozu raccoglie articoli, interviste, lettere e testi di altra natura, coprendo un periodo che va grosso modo dagli anni trenta agli anni sessanta del secolo scorso.

Il fatto che l’opera di Ozu possa essere considerata un modello di cinema comporta un paradosso, che può essere enunciato nella maniera seguente: nel cinema i classici non sono modelli, e i modelli non sono classici. Un regista – a patto di non limitarsi a fare film, ma volendo mettere in pratica un’idea di cinema – tende a un certo grado di consapevolezza del suo potere e dei suoi compiti, in rapporto con la realtà o con il cinema che li ha preceduti, stando almeno a un celebre adagio godardiano. Per questo autore la norma consolidata, il classico, non sarà mai presa come modello da imitare. I modelli si cercano altrove, e si cercano proprio per facilitare la trasgressione delle norme. Fin qui niente di eccezionale: questo modo di intendere la tensione dialettica tra classicità e anti-classicità fa parte della nostra tradizione artistica e letteraria. È abbastanza ovvio pensare che le opere d’arte «di genio», come direbbe Kant, rompano gli schemi pregressi, aprendo nuovi orizzonti per gli artisti e per il pubblico. Poi sono riassorbite, più o meno integralmente, in un canone.
Per il cinema le cose non stanno esattamente così. Leggere gli articoli, i brevi saggi, le interviste e le lettere di Yasujiro Ozu, avendo nella memoria magari qualche scena di un suo film, ci aiuta a capire perché. Nel cinema ai modelli si torna sempre per rompere con una classicità che ha un’identità ben precisa. È il cinema hollywoodiano, quello definito appunto «classico» in contrapposizione con il cinema «moderno». È il cinema del montaggio invisibile e della verosimiglianza assoluta.
L’affermazione forse più importante, a cui Ozu dedica ben due articoli, è che violare le norme del montaggio, la sua «grammatica», è legittimo. L’affermazione è tanto più interessante in quanto Ozu non ama presentarsi come teorico. Preferisce presentarsi come un «artigiano» del cinema: lo apprendiamo dall’introduzione degli eccellenti curatori, Franco Picollo e Hiromi Yagi, i quali hanno approntato anche un apparato critico impressionante, informandoci che tra l’altro il regista non amava scrivere. Ozu si è formato nell’industria cinematografica giapponese degli anni venti del secolo scorso. Non amava studiare da ragazzo, mentre il cinema è stato per lui un’esperienza di liberazione. Entra nella produzione cinematografica come aiuto-regista. Sarà un diverbio alla mensa a convincere i dirigenti a proporgli di presentare una sceneggiatura su cui fare un film suo. Il ragazzo ha carattere, avranno forse pensato. I testi di Ozu sono anche un modo per scoprire diversi aspetti del mondo del cinema giapponese di quegli anni – è l’epoca del film muto – e dei decenni successivi.
I registi erano all’epoca suddivisi per generi narrativi ben definiti: commedie sentimentali, film storici, drammi impegnati e così via. Se realizzava film di un certo genere, un regista non poteva occuparsi degli altri generi. Ozu usa l’immagine di un cuoco specializzato nella preparazione di un unico piatto. Gli attori a volte vengono dalla tradizione teatrale giapponese, ad esempio dal kabuki, a volte diventano attori grazie al cinema. I registi sollecitano spesso una recitazione enfatica; Ozu ricerca piuttosto la semplicità dell’espressione. Evita i primi piani per rendere un determinato sentimento: altrimenti, scrive, più aumenterà l’intensità del sentimento, più dovrò inquadrare un dettaglio minuscolo del volto! Sa che il procedimento della «illuminazione facciale» del kabuki è considerato spettacolare. Lui preferisce puntare sulla sobrietà come cifra di naturalezza. Ozu ricorre a un termine giapponese, tradotto di solito con «sensibilità estetica», che, come spiegano i curatori, rimanda alla capacità di cogliere con i sensi la forma delle cose nella loro transitorietà. Una sensibilità estetica che rinvia alla tensione non scioglibile tra immanenza e trascendenza.
Dai testi di Ozu emerge l’immagine di un artigiano che forma la sua squadra di collaboratori, che mantiene il più possibile invariata, impara a dirigere gli attori e a riconoscerne le qualità e si impadronisce dei trucchi del mestiere. Ma Ozu, tra ricordi e consigli da ‘maestro dell’arte’, fa un’affermazione dalla caratura teorica notevole. Vale a dire che un buon regista può, forse deve, violare la grammatica consolidata del montaggio. La grammatica del montaggio è un’invenzione degli studios hollywoodiani. Non si tratta di puro arbitrio: essa risponde a esigenze reali. Il problema è quando dalla Hollywood di Griffith le norme transitano in un contesto culturale diverso, ad esempio l’industria del cinema giapponese, e diventano un codice. Infrangere le regole «grammaticali» del montaggio dev’essere un modo di entrare nel merito della costruzione dell’immagine. Ozu porta un esempio concreto, che rende ancora più pregnante la sua spiegazione. Prendiamo la scena di un dialogo tra due personaggi. Se la prima inquadratura riprende il personaggio A alla sinistra dell’immagine, allora il personaggio B dovrà essere ripreso a destra nell’inquadratura successiva. In questo modo si renderà visivamente l’idea di due persone che parlano. Ozu ricorda di non aver seguito questa regola in molti suoi film. La cosa gli è stata fatta notare, alcuni colleghi gli hanno detto che all’inizio era un po’ spiazzante, ma poi ci si abituava e si smetteva di farci caso: la visione scorreva naturalmente. Per Ozu è la riprova che il suo stratagemma ha funzionato: è possibile educare la percezione dello spettatore.
Il punto è che non si tratta di puro divertissement. Se Ozu ha violato la grammatica del montaggio di un dialogo, ciò accade perché, come scrive, sono regole che non tengono in alcun conto come è costruito lo spazio di una camera in una casa tradizionale giapponese. È difficile che in quello spazio due persone si trovino a parlare faccia a faccia, magari in piedi o sedute su delle sedie, magari presso un tavolo, perché sono spazi piuttosto piccoli, quasi senza mobilio. È dunque la forma dell’ambiente, più che una grammatica astratta, a dover guidare la visione del regista. Ecco tornare l’idea secondo cui il vero criterio guida è una certa sensibilità per le cose, la capacità di coglierle in modo insieme più autentico e nuovo grazie alla mediazione della macchina da presa. Penso a una considerazione che Ozu affida a una delle lettere dal fronte della guerra sino-giapponese. Durante un attacco il soldato Ozu vede cadere i boccioli dei fiori accanto a lui, a causa delle raffiche di spari. E immagina una sequenza in cui raccontare un episodio di battaglia così: i rumori dell’artiglieria come controcanto a una pioggia di petali. Ozu non cita mai Ejzenstejn. Ma quello immaginato da Ozu per raccontare la sua esperienza di guerra ci pare un bell’esempio di montaggio verticale.
[Dario Cecchi 2/10/2016]