venerdì 26 agosto 2016

L’Italia, si sta disfando


L’Italia, la parte più bella e più vera del suo territorio e delle sue comunità, si sta disfando. Manca la manutenzione, ordinaria e quella straordinaria. I danni e le vittime, i lutti e i costi provocati dall’ultimo terremoto ne sono solo l’ennesima conferma. Con venticinque milioni di abitanti che vivono in zone ad alto rischio sismico, niente è stato fatto né predisposto per prevenire tragedie e devastazioni, che a detta di tutti i geologi, avrebbero potuto essere evitate. Ma dove non arrivano i terremoti provvede il dissesto idrogeologico: in parte provocato dall’abbandono di terre, insediamenti e attività non sostenuti da interventi pubblici per garantire tutto quello che potrebbero dare al resto del territorio; in parte, ma soprattutto, provocato dalla cementificazione selvaggia: sia quella abusiva; sia contrattata o promossa direttamente da “autorità” che avrebbero l’obbligo primario di salvaguardare il territorio e invece lo svendono per “salvare” i bilanci; sia imposta dall’alto, con quelle Grandi Opere contro cui si battono (per ora senza successo, con l’eccezione della Valle di Susa) le comunità locali.
Quella delle Grandi Opere e dei Grandi Eventi (per “far ripartire il paese”, che invece affossano) è una logica perversa che impregna la politica istituzionalizzata in ogni sua articolazione. Non ci sono solo il Mose (che probabilmente dovrà essere smontato e portato via, perché, come previsto, non funziona), il Tav Torino-Lione o il sottopasso Tav di Firenze (che non verranno mai realizzati dopo aver inghiottito centinaia di milioni) e tante altre opere incompiute o inutili (come l’autostrada Brebemi, dove non passa quasi nessuno). L’area più a rischio del paese, il crinale appenninico centro-meridionale, invece di venir messo in sicurezza antisismica, verrà attraversato da un gigantesco gasdotto che dalle Puglie dovrebbe rifornire tutto il resto dell’Europa (e che una scossa sismica potrebbe far esplodere in qualsiasi punto del suo tracciato), da progetti di trivellazioni e geotermici mortiferi per la qualità del paesaggio e delle produzioni agricole, e dall’autostrada Orte-Mestre, che la mancanza di fondi aveva temporaneamente cassato, ma che ora, con la “flessibilità”, concessa dall’Ue, è stata resuscitata.
Ed è sempre la logica delle Grandi Opere quella che impedisce di affrontare il più urgente di tutti i programmi in cui dovrebbe impegnarsi l’Italia (insieme a tutto il resto del mondo): quello della conversione ecologica, e innanzitutto energetica, del paese. Perché sia la conversione ecologica che la manutenzione del territorio non sono fatte solo da tante piccole opere studiate a misura del territorio e delle esigenze delle sue comunità, come ormai hanno capito in tanti, mentre il governo da questo orecchio proprio non ci sente. Entrambe richiedono anche un’inversione della logica che lega la politica agli affari; al punto che, per l’attuale classe dirigente, dove non ci sono affari non c’è politica; oppure deve essere la politica a creare l’occasione di nuovi affari: spendendo denaro sottratto ai cittadini e alla soddisfazione delle loro esigenze, devastandone il territorio, promuovendo la corruzione, creando e mantenendo un universo di finti imprenditori che senza appoggi di Stato non saprebbero mettere insieme due mattoni (altro che liberismo!).
Eppure, gran parte delle condizioni per un cambio di rotta ci sono. Il problema è metterle insieme, e non è una cosa facile; ma soprattutto occorre sbarazzarsi dell’attuale classe dirigente, abbarbicata alla logica perversa dell’identità tra politica e affari che ha presieduto, irreversibilmente, alla sua formazione.
Come? Innanzitutto, contro il trend che ha caratterizzato gli ultimi decenni e che la riforma costituzionale di Renzi vorrebbe consolidare, va rivendicata piena autonomia fiscale e decisionale ai territori: ai Comuni, alle istituzioni del decentramento, alle unioni di piccoli Comuni che la legge prevede ma che non sono mai state fatte. E’ sul territorio, nelle comunità, che i problemi della vita quotidiana si conoscono, si possono individuare e tradurre in progetti; ed è lì che si può esercitare un controllo sulla loro selezione e realizzazione, promuovendo la partecipazione dal basso.
In secondo luogo bisogna valorizzare il sapere diffuso sul territorio: le comunità sono piene di saperi tecnici, di esperienze professionali, di passione e di conoscenze di qualche caratteristica del loro habitat, fondamentali nell’orientare il dibattito sulle iniziative da intraprendere, e il controllo su quello che viene fatto. La democrazia partecipata è anche e soprattutto questo.
In terzo luogo, bisogna far emergere una nuova imprenditoria. Inutile contare sulla trasformazione dei politici in finti imprenditori; o continuare ad accettare che l’imprenditorialità si trasmetta di padre in figlio. Quella serve solo, e neanche sempre, a perpetuare l’attuale assetto degli affari. Se invece si vuole promuovere una vera imprenditoria sociale, bisogna andare a cercarla là dove si sta già manifestando: nella capacità di far lavorare insieme un gruppo grande o piccolo di persone che condividono una o più finalità comuni.
Poi, ed è la cosa principale, bisogna distribuire il lavoro tra tutti e dare a tutti la possibilità di lavorare: a ciascuno secondo le sue capacità e le sue potenzialità. Solo il progetto di un grande piano nazionale (ed europeo) di piccole opere, finalizzato a creare lavoro aggiuntivo per chi non ce l’ha, come aveva proposto Luciano Gallino, può mettere in moto questo processo. Tutti vuol dire tutti: giovani e anziani (secondo le loro possibilità); uomini e donne; occupati e disoccupati; nativi, immigrati e profughi. Di cose da fare ce n’è per tutti, per tutti i livelli di professionalità, di capacità e di vocazione, e per molti anni.
I disastri e i lutti provocati dall’ultimo terremoto possono essere un’occasione per riflettere su questa prospettiva; per capire che la ricostruzione può essere pensata e realizzata in questo modo, invece di ripetere i disastri che sono state – e ancora sono – la falsa ricostruzione de L’Aquila, dell’Irpinia, del Belice. Non c’è niente di irrealistico nel voler seguire una strada diversa. Anzi, sarebbe sicuramente più efficace, un esempio per introdurre una logica diversa in tanti altri territori che non sono stati colpiti dal terremoto, ma che hanno anche loro da far fronte a grandi e piccoli dissesti.
[Guido Viale 26/08/2016]

Richiedenti asilo tra i soccorritori

Sono stati loro a proporsi per andare a dare una mano: una trentina di richiedenti asilo del Gus (Gruppo di Umana Solidarietà) è partita alla volta di Arquata del Tronto da Monteprandone, un paese di collina che si affaccia sul mare, poco dietro a San Benedetto del Tronto.
I ragazzi – provenienti per lo più da Senegal, Costa d’Avorio e Benin – sono arrivati nelle zone terremotate alle otto del mattino, a supportare gli operatori della Protezione Civile e hanno contribuito a sgomberare un’area per installare lì il Centro Operativo Comunale di Arquata, dove si coordinano le varie attività.
«Hanno chiesto se potevano aiutare – spiega Paolo Bernabucci, presidente del Gus –, perché in questo momento tragico vogliono essere utili alla regione che li sta ospitando».
Con loro c’era anche il giovane sindaco di Monteprandone, Stefano Stracci (Pd): «Sono molto contento che i ragazzi abbiano voluto dimostrare senso di solidarietà verso le comunità che li ospitano. Li abbiamo accompagnati su loro richiesta e adesso speriamo che questo contributo aiuti l’organizzazione».
Letizia Bellabarba, ex consigliere regionale del Pd e ora al lavoro con il Gus, vuole anche respingere tutte le polemiche da social network sul presunto trattamento riservato ai migranti in Italia («Ospitati in hotel a cinque stelle», come da vulgata razzista corrente) da contrapporre alle tendopoli dei terremotati: «Sono discorsi avvilenti, soprattutto in questo momento in cui stiamo vivendo una tragedia e dei lutti terribili. È un paragone inaccettabile. Questi ragazzi stanno dimostrando di appartenere a una comunità, si sentono cittadini e vogliono dare una mano».
Intanto, sul fronte della solidarietà, tra Marche e Abruzzo i centri di raccolta di beni di prima necessità si contano a decine. Gli organizzatori fanno sapere che di cibo ne è stato raccolto in abbondanza (d’altra parte stiamo parlando di un territorio che ospita non più di sei-settemila persone), mentre c’è maggiore bisogno di prodotti per l’igiene personale (dentifrici, sapone, assorbenti, pannolini) e di vestiti, possibilmente nuovi.
[Mario Di Vito 26/08/2016]

mercoledì 24 agosto 2016

Terremoto: paesi più colpiti Amatrice, Accumoli, Arquata

Alle 3.36, in piena notte, come fu a L’Aquila nel 2009. Una fortissima scossa di terremoto di magnitudo 6 stanotte ha devastato il centro Italia. Epicentro il paese di Accumoli in provincia di Rieti nel Lazio.
Devastata la città di Amatrice e decine di altri paesi rasi letteralmente al suolo.






martedì 23 agosto 2016

Le tante vite dell’Asinara

Sbarchi all’Asinara e finisci, pare, nella Isla Nublar disegnata da Spielberg e Crichton. E se non ci trovi il Giurassico, ti senti però avvolto dal tepore di un mondo in bianco e nero altrettanto distante. Torna a far male, lungo il molo di un’isola al quadrato, quanto sacrificato sugli altari del boom economico. Ciò che abbiamo perso vuoi perciò respirarlo con rispetto, tra folate di sale, in un’aria satura degli echi dei brigatisti e dei povericristi che vi furono rinchiusi. Insieme ai Riina che l’hanno rovinato, si costrinsero all’Asinara drappelli di figli vittime di questo mondo. Non erano gigli, certamente, piuttosto somigliavano a centaurea horrida. Un arbusto che con le spine si difende da tutto. Anche da asini albini obbligati a nascondere la testa nel mirto per non bruciarsi, come ci fa notare Pierpaolo Congiatu, il direttore del Parco. Sulla terra le lucciole scomparvero alla fine degli anni Sessanta. Nel mare, si persero i tonni.
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«Nel 1970 il Cagliari vinse uno storico campionato. In cambio arrivarono le industrie, che tra l’altro modificarono le correnti sfruttate dai tonni, che vanno diritti seguendo acque pulite e silenziose», dice Congiatu.
La raffineria Sardoil fu inaugurata nel 1968, a Porto Torres, dalla Sir in combutta con la Saras di Angelo Moratti, il presidente dell’Inter: i due gruppi industriali nel 1967 ottennero la maggioranza delle azioni dell’U. S. Cagliari. Ai sardi lo scudetto, ai milanesi il petrolio.
Difficile pensarci sotto il sole antico di Trabuccato. Serve invece sforzarsi meno per capire come in questo braccio di mare a nord-est della Rada della Reale, nel 1851, fosse ammodernata una tonnara da pescatori venuti da Ponza e Camogli, e come la tradizione della mattanza fosse stata importata nell’isola già nel Trecento dai saraceni. «Queste travi dovevano sostenere i ganci che servivano per appendere i tonni», spiega Congiatu. «Immagino quanti ce ne fossero nel Trecento, se ancora è possibile incrociarli per caso».
Su YouTube circola infatti un video del 2012 in cui una barca turistica, nelle acque del Golfo, all’improvviso si ritrova addosso grossi esemplari. Una delle prove che stanno di nuovo proliferando, da quando la pesca è sottoposta a quote.
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Non solo tonni, però. E non per la buona novella di un minore inquinamento. «Alle sei di mattina di marzo, quando il cielo si confonde col mare, capita di vedere tre punte emergere dal mare», dice il direttore. «Sono gli squali elefante, scortati da pesci pilota bianchi e neri. Puoi perfino toccargli la pinna piena di incrostazioni». Di solito si avvistano nell’Atlantico. Il problema è che le temperature del Mediterraneo stanno salendo.
Nell’agosto del 1885 l’Asinara fu destinata a lazzaretto e a colonia penale. A quarantacinque delle famiglie esiliate, allora, non restò che fondare Stintino: Isthintinu, il budello tra due insenature.
A 2 chilometri dal villaggio, e 14 miglia marine da Trabuccato, si afferra il perché della nuova topografia. Continuare la tradizione, perché altro non si sapeva fare, presso la Tonnara Saline: un sistema di cattura quasi naturale nell’isthintinu.
Nel borgo, di fronte al vecchio porto, il 18 giugno ha aperto il Mut. È il Museo della Tonnara che, forte del recente riallestimento, colleziona frammenti per stimolare locali e visitatori a ordinare e strutturare la memoria del luogo. «I tonnarotti intrattenevano con il tonno un rapporto di amore-odio, vissuto tra il fascino esercitato dalla forza elegante dei pesci e la necessità di una cattura che significava sussistenza», spiega il direttore Salvatore Rubino, che ci mette in contatto con Agostino Diana, ultimo rais di Stintino tra 1970 e 1972.
Quando lo incontriamo dà l’impressione che si stancherà presto e che non parlerà tanto. Non sarà così. Agostino dà sempre del lei. «Guardi il mare, domani arriverà il maestrale», garantisce. E avrà ragione.
Del resto fu per tre anni maestro di cerimonie sul bordo della musciarra, in piedi nel quadrato della morte, autoritario e calmo di fronte agli elementi e al mare rosso.
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I tonni venivano da Porto Torres in direzione del “mare di fuori”, dove si sarebbero riprodotti se un’ottantina di pescatori non avessero innalzato la bandiera di Genova per calare la tonnara: un’isola lunga 300 metri e larga 30, a 3250 metri dalla costa a cui era legata dalla coda.
Davanti agli occhi dell’ultimo rais fatichiamo a ricostruire la presenza di quel borgo stagionale che si animava a marzo per svuotarsi alla fine di giugno.
Ai lati dell’appiccatoio in tufo, presso il quale il tonno restava appeso mezza giornata, e alle spalle delle sedici padelle nelle quali veniva cucinato in salamoia e delle due ciminiere, c’è il Village Le Tonnare. Le strutture appartengono al Comune, che si cura della manutenzione straordinaria affidandone tuttavia la gestione a un villaggio vacanze tenuto al rispetto di stringenti vincoli di tutela.
Agostino sembra fuori posto, ma racconta. «Ho cominciato a pescare nel 1944, a 14 anni. Da mezzo secolo i rais, nell’Ottocento tutti genovesi, erano stintinesi. Però era ancora Genova, la città dei proprietari della famiglia Anfossi, a comprare il nostro pescato».
La tonnara durava dal 10 maggio al 20 giugno. «Il mio primo anno da rais pescammo 220 tonni, il secondo 125, il terzo 50. Poi nulla, per colpa delle petroliere. Il tonno vuole silenzio. Ho parlato con i colleghi di Favignana. Hanno avuto il nostro stesso problema: il rumore. Lì è stato portato dal turismo, qui dal petrolio».
Nel 1965 la tonnara, ormai in crisi, era stata chiusa. Quando la riaprirono, nel 1969, i proprietari proposero di scendere da 77 a 42 tonnarotti. «Parodi, il rais precedente, rifiutò», dice Agostino. «Fu scelto al suo posto un rais carlofortino e pescammo 360 tonni. L’anno successivo i carlofortini scioperarono e non tornarono più; io fui nominato rais e ci ritrovammo in quaranta. La prima tonnara capitò il Primo Maggio: in quattro si rifiutarono di lavorare».
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Meno solidarietà, mentre la modernità irrompe. Meno sacralità. Nemmeno si pregava più il Padre Nostro che mandasse una buona pesca e San Giorgio che scacciasse i pescecani: i vestini.
«Mio nonno si chiamava come me – ricorda Paolino Parodi – e fu rais nel 1964. Lo era da vent’anni. La versione che diede a me, a proposito del 1969, fu di non aver accettato perché non gli andava giù un’innovazione: la rete in nylon. Direi che fu l’ultimo rais ’in bianco e nero’, prima dei colori di Agostino».
Il rais a colori assicura di non averlo mai fatto. Paolino però – racconta il nipote – era solito recitare una preghiera in genovese. «Quando i tonnarotti avevano formato un circolo, il rais alzava il remo: ’Sia lodato il nome di Gëxú, se questa l’è bónna l’altra sia mëgio’. Il remo veniva quindi abbassato con solennità. ’Sempre sia lodato’. E iniziava la mattanza».
Un nipote del pragmatico Agostino, Antonio, è l’attuale sindaco di Stintino. È un pescatore e ha partecipato alla tonnara del 1996, un ultimo tentativo puramente sperimentale. Antonio Diana si batte per rilanciare un turismo sostenibile che arricchisca culturalmente il villaggio e che lo tenga attivo anche d’inverno. Vorrebbe che il territorio di Stintino rientrasse nel Parco dell’Asinara. Intravede nel tonno e nella declinazione delle storie a esso intrecciate la chiave di un rinnovamento economico e sociale rispettoso del passato.
I pescatori stintinesi, tuttavia, sanno anche che il tonno è ormai nelle mani dei vestini: pescatori da diporto non tenuti a rispettare le quote di 700 kg annui per barca, giapponesi che saccheggiano in acque internazionali, lo scempio della pesca volante in altri lidi italiani, connazionali che inscatolano alalunga al largo delle Seychelles. I tonni stanno tornando, ma sono meno umani.
[Federico Gurgone fotoreportage di Stefano Stranges]

sabato 20 agosto 2016

Il Po, lo specchio dell’Italia

Appare sconsolatamente fangoso nei brevi passaggi dei telegiornali utilizzati per raccontare i suoi inspiegabili scoppi di collera. Si sa che più o meno scorre lassù al nord, assediato da capannoni, allevamenti suini e villette.
Nasce dalle parti di Torino e arriva dalle parti di Venezia, e lungo il percorso vivono milioni di uomini e donne che mangiano polenta. Una rimozione coatta e collettiva che ben racconta un altro grande disperso: l’articolo 9 della Costituzione. Il Po è, nei suoi 700 chilometri di corsa, la plastica rappresentazione dell’Italia che ostinatamente non tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico.
Così il mondo del Po rimane misterioso, racchiuso nello scrigno serrato dai due possenti argini maestro che gli corrono di fianco. Della sua bellezza, delle risorse e venture, solo rare parole narratrici.
Morimondo è stato rivitalizzato con massaggio cardiaco da Paolo Rumiz – lettura fondamentale per chiunque voglia vivere il grande fiume – che racconta un mondo languente sotto i colpi di maglio della civilizzazione che costringe e demolisce: niente più antichi mestieri, leggende, culture, lingue, niente più polenta con gatti e lucci fritti; tutto coperto da una colata di cemento o dragato da una ruspa.
Eppure il Po resiste. Forse proprio grazie ai suoi possenti argini, estreme barricate che respingono la razzìa umana e custodiscono gelosamente il tesoro della sua straordinaria vita. Resiste e viene riscoperto da piccoli gruppi di pionieri, ed è come se il suo limo stesse dando vita a un nuovo e più fertile Vivimondo che tenta di recuperare, di innervarsi sulla sua asta.
Ma da chi è vissuto, oggi, il Po?
La truppa di tedeschi accampatasi su un’isola del Po si sbraccia entusiasta, saluta evidentemente soddisfatta della mia umana presenza. Dalla riva dove sono sceso per un attimo di pausa intravedo nella macchia di ontani una decina fra uomini, donne, bambini e animali domestici. Pedalo da circa quattro ore: sono partito da Barricata, estremo lembo di terra piantato tra il mare e il grande fiume. Per chilometri e chilometri eserciti di aironi e fenicotteri hanno accompagnato il mio lento progredir verso Torino.
Un tizio piccolo e muscoloso dalla lunga barba bionda salta su una zattera composta da tronchi e attraversa la manica d’acqua che ci separa; a un passo da me, appena oltre la sabbia finissima, il Po scorre immenso verso est. In un secondo, io e la mia bicicletta veniamo caricati d’imperio sulla zattera e trasbordati sulla loro isola, dove vengo accolto dagli eredi di Frisi, Sassoni e Burgundi.
Grande è lo stupore generale nel momento del contatto tra la civiltà isolana e quella ciclista: io guardo incuriosito questi uomini che ricordano orde barbariche fuori tempo massimo, mentre loro guardano ammirati me e la mia bicicletta stracarica di pentole, tende, mercanzie varie, cibo, vestiti sporchi e cartine geografiche.
Mi trovo su un’isola in mezzo al Po ospite di nove tedeschi e due cani, nel cuore della produzione industriale patria, un’unica immensa megalopoli in cui scorre il grande fiume ignorato dagli italiani. Sedici milioni di persone mi circondano, ignare della loro vitale relazione con il fiume. A Cremona, sorprendentemente, un vecchio pescatore di fiume, Aldo, smentirà la mia percezione catastrofica e le rilevazioni scientifiche: «Il Po non è mai stato così pulito, puoi starne certo. Sono quarant’anni che non era così limpido: i banchi di schiuma non si vedono più e anche le colate rosse di ferro sono scomparse. Idem le pozze oleose che si formavano dopo le piene, tutto dimenticato, o quasi. La crisi ha chiuso le fabbriche e pure gli allevamenti da cinquemila maiali, anche qui a Cremona. Niente fabbriche, niente maiali, niente inquinamento. Meglio così, sono stati quarant’anni di pazzia».
Così, probabilmente, lo sfaldarsi del tessuto industriale padano ha liberato energie – oltre a qualche storione – che si sono riversate dentro la golena del Po dando vita a un popolo dai molti volti. Serena di Papozze, paesetto del Delta che briga giorno e notte per aprire un campeggio appena al di là dell’argine. Ha quaranta anni, un marito e due figli. Gestisce un accanito b & b dall’evocativo nome «La zanzara». Il suo sogno è la vedere realizzata la ciclovia VenTo, una pista che collegherebbe Venezia a Torino lungo l’argine del Po.
E poi ancora cuochi, camerieri, avventurieri, accompagnatori, educatori ambientali. Una lenta transumanza di un piccolo mondo che si è accorto che tutelare il paesaggio e il patrimonio dà pane e tulipani.
Ma le idee su come tutelare sono vaste, e spesso contorte e contrastanti. I sindaci di Po, ad esempio, sono mine vaganti. Più di uno l’ho incontrato nella sede del Comune per fare quattro chiacchiere sul fiume. Locali infelici e tristi, grigi, a volte luridi, che mostrano l’assoluta povertà in cui vivono, si confrontano nella stessa piazza con le canoniche tre banche dotate di vetri a specchio.
I sindaci allargano le braccia.
E raccontano le miserie a cui tentano di far fronte. Guidano autobus e danno il bianco alle pareti della scuola, organizzano tombolate sul fiume, polentate con cui pagare il gasolio. Così, tra un Lambrusco e una birra, rassicurati dalla foto di Mattarella appesa storta sulla parete, ci si trova dentro discorsi irreali che prevedono progetti di parcheggi e supermercati, centri di bellezza e cemento.
Intorno a me però, sull’isola dei tedeschi, la lotta dei comuni contro la povertà appare lontana, anzi inimmaginabile. La prospettiva da questo pezzo di terra coperto di verde e incastonato nell’acqua è irreale: il fiume, ad ovest di Porto Tolle nel Delta del Po, è davvero immenso e selvaggio. Unica flebile traccia della industriosa pianura padana è il suono lontano di qualche campana che batte le ore del giorno e della notte.
Pedalare lungo l’argine maestro dà la possibilità di non incorrere nel brutto. Si procede di campanile in campanile distanziati di mezz’ora l’uno dall’altro. Il fiume c’è, a volte è a un passo, ma spesso scompare, coperto da sterminate piantagioni di pioppi oppure dalla fitta boscaglia. E scompaiono anche le sue inevitabili brutture: il Po in alcuni punti è stato così compromesso da risultare inquietante. La terribile Isola Serafini e il suo doppio sbarramento ne sono l’esempio. Ma almeno fino a Cremona la civiltà moderna è praticamente assente: centinaia di chilometri senza vedere mai una tangenziale, un centro commerciale, luci al neon, sobborghi californiani, cave, dighe, sale slot e il restante armamentario legato alla valorizzazione del territorio oggi in voga.
Ma torniamo indietro di 400 chilometri: prima di me gli autoctoni dell’isola devono aver visto solo cinghiali, volpi e nutrie. Dal braccio teso di uno dei tedeschi penzola un fagiano. Ne hanno tre e stanno preparando un sontuoso banchetto in mio onore. La situazione è sempre più irreale. I fagiani, povere bestie, vengono allevati e liberati pochi giorni prima dell’apertura della caccia. Ne ho incontrati decine, uno più domestico dell’altro. Così, acchiapparli a mani nude, o sparargli con una doppietta da un centimetro di distanza non è particolarmente difficoltoso. Il menu prevede anche un bel filetto di pesce siluro appena pescato.
Mi dichiaro onorato, anche se temo molto l’incontro con il grande pesce leggendario e confido in una buona scorta di maionese custodita in una delle tende degli abitanti dell’isola. Auspicio salvifico esaudito: il siluro ha un sapore simile al fango con un leggero retrogusto di gasolio. Ma con molta maionese, è ottimo.
Un pesce predatore tipico dei grandi fiumi centro europei, il siluro si è mangiato l’ecosistema esistente. Improbabile in ogni caso che abbia potuto fare più danni lui che una diga, o una cava, o degli inesauribili sversamenti di liquami industriali o di allevamento, o delle nutrie di Giovanardi. Ma, ogni volta che si intavola l’argomento siluro, presto il piano si sposta, da epico avventuriero a sociale.
Pirati extra europei giungono sul grande fiume a bordo di chiatte e saccheggiano le acque del suo prezioso pesce dalle raffinatissime carni. I mezzi che utilizzano rumeni, albanesi, ungheresi, moldavi e russi sono uno più cinico dell’altro: dinamite, scariche elettriche, bentonite, cianuro, reti a strascico, lenze legate ai ponti. Il coro, da Venezia e Piacenza è unico. Lo straniero sul Po fa cose che gli italiani mai hanno fatto e mai farebbero.
Ma, dalle parti di Piacenza una flebile voce smentisce il coro: è Roberto, un uomo minuto di circa sessanta anni che pedala su una vecchia bicicletta “Graziella”. Dopo che i suoi amici mi hanno raccontato per l’ennesima volta la storia dei predoni del fiume, mi si avvicina e a parole scandite dice: «Sono comunista e quelli raccontano solo balle. Lasciali perdere. Dicono così perché non gli piacciono gli stranieri, mica per il siluro». Rimarrà voce solitaria del fiume: d’altronde, i comunisti non vanno molto di moda.
Cala la notte sull’isola.
Mi fermo a dormire in compagnia dei tedeschi più due cani. Anche loro, raccontano, sono uomini in fuga per qualche settimana. Rientreranno nelle loro case e riprenderanno le vite normali. Ogni anno partono alla volta di un fiume diverso, dove bivaccano per un po’. Le loro parole sul mio Paese, racchiudono tutto il Po e tutto il viaggio: «L’Italia è un paese bellissimo e bruttissimo, come questo fiume. Ma soprattutto è sorprendente constatare quanto non ne abbiate percezione. Per gli italiani il bello e il brutto non esistono, non c’è nessuna differenza».
Nel cielo scorrono le costellazioni ed Eridano si specchia lassù nello Scorpione: il Po con il buio spesso e nero come la pece aumenta la potenza della sua voce tonante, pare voglia avvolgerti e vagamente minacciarti. E con lui, sommesse e inquietanti ecco le voci di gufi e allocchi, di cui si possono vedere anche i piccoli occhi accesi dalla luce della luna piena.
Il mattino è l’ora del saluto intorno al fuoco riacceso, poi è tempo di abbracci e pacche sulle spalle. Hans mi ricarica sulla zattera e mi riporta sulla terra ferma dove riprendo la mia pedalata solitaria.
Arrivo nella mia città, Torino, dopo dieci giorni di viaggio e il Po mi appare come un esangue rigagnolo maleodorante. Penso ad Hans e alle sue tetragone parole, ma anche al popolo incontrato e rimpiango di non aver conosciuto i romantici predoni del pesce siluro.
[Maurizio Pagliassotti 20/08/2016]

giovedì 18 agosto 2016

La luce delle parole per svelare il «male radicale»

Aharon Appelfeld vive in Israele dalla fine degli anni Quaranta, ma sottolinea sempre le sue origini rumene. La sua famiglia, da sempre messa all’indice perché di origine ebraiche, viveva in una regione (la Bucovina) fino a quando fu deportata nei lager nazisti, dove quasi tutti i componenti furono assassinati. Lui, invece, è riuscito a evadere da un campo di sterminio. Per molto tempo ha vissuto come fuggiasco nei boschi, fino al momento in cui si è unito all’Armata Rossa. Con quella divisa ha combattuto i nazisti, ma poi a guerra finita ha deciso di andare in Palestina, ancora sotto protettorato britannico. Lì, in un kibbutz, ha studiato e cominciato a scrivere in ebraico, una lingua che ha subito amato al punto da diventare uno dei più importanti scrittori di lingua ebraica.
Nei suoi romanzi – gran parte dei quali pubblicati in italia da Giuntina, Feltrinelli e Guanda – i temi della Shoah e del «male radicale» tornano spesso, seppur filtrati dal pensiero di Martin Buber e Gershom Scholem, intellettuali che Appelfeld considera veri e propri maestri. Recentemente lo scrittore ha ricevuto in italia il premio Hemingway. Più che un’intervista quella con lo scrittore israeliano è stata una lunga conversazione.
Lei ha in comune con Edgar Morin la devastante esperienza traumatica della perdita della madre in tenera età: lei l’ha persa a nove anni, Morin a dieci. In che modo questa perdita ha influenzato il suo destino di scrittore?
Mia madre era sempre con me quando era viva. Eravamo insieme nel tempo della paura e nel tempo della gioia. La sua presenza mi faceva sentire di non essere solo, poiché lei mi avrebbe sempre aiutato ad alzarmi se fossi caduto e salvato dai pericoli. Questa sensazione non mi ha mai abbandonato. Anche quando sono diventato adulto lei ha continuato a essere con me. L’amore che sento per i miei genitori, i nonni e tutti quelli che avevo attorno durante la mia fanciullezza e che perirono durante la guerra è diventato una parte di me. Li sento ancora più vicini adesso rispetto a quando erano in vita. La morte non ci ha separati. Nei miei libri esploro la loro vita.
Un altro ebreo importante, Boris Cyrulnik, perse i genitori che vennero uccisi dai nazisti e fece molta fatica a sopravvivere. Nondimeno riuscì ugualmente a diventare uno psichiatra e a «tradurre» la sua capacità di capitalizzare le risorse interiori di cui disponeva nel costrutto della «resilienza», che viene considerato oggi un caposaldo dell’azione psicoterapeutica. Come può spiegare la sua resilienza nel superare gli enormi ostacoli che ha incontrato sul suo cammino?
Ho visto il male in tutte le sue forme. Il male è un’ombra scura, se ne sta sempre acquattato ma in tempi di rabbia e odio tende a gonfiarsi e a penetrare nelle nostre esistenze. Come possiamo fronteggiarlo? Tutto quel che possiamo fare è combatterlo, coltivare la speranza e accrescere la nostra luce. Nei miei romanzi desidero onorare coloro che hanno visto le tenebre ma non hanno mai rinunciato alla speranza.
Nel suo ultimo libro «To the Edge of Sorrow» (in uscita in Italia per Guanda nel gennaio 2017, con la traduzione di Elena Löwenthal) lei mostra che c’è un modo per combattere il male. A un certo punto, uno dei partigiani riconosce la casa dove abitava suo zio e scopre che è abitata da altre persone, che indossano gli abiti dei suoi parenti e che hanno bruciato tutti i loro libri. Benché si senta ardere di rabbia, il partigiano e i suoi compagni cercano di fare la cosa più giusta e onorevole: raccolgono un po’ di provviste e se ne vanno. Solo quando gli abitanti della casa sparano loro addosso li neutralizzano e incendiano la casa…
Sono convinto che vi siano sempre, da qualche parte, partigiani come questi, che fanno del loro meglio per non perdere la propria umanità, ad esempio leggendo libri. Martin Buber è stato il mio maestro, ho studiato con lui. In seguito, siamo diventati amici e abbiamo avuto interminabili discussioni nelle strade di Gerusalemme. Non ha mai avuto alcun legame con delle istituzioni religiose ma ha sempre parlato molto di religiosità, che è un sentimento forte e caldo che ci eleva. Le istituzioni religiose possono essere oscure e staccate dalla realtà, mentre la religiosità è intimamente connessa agli individui.
Martin Buber è molto citato da Tom Kitwood, autore di un importante libro su uno dei disturbi maggiormente fraintesi, «Riconsiderare la demenza» (Erickson), nel quale spiega che, se si guardano solo i sintomi, e si dimentica che i pazienti sono esseri umani prima ancora di essere «pazienti», non si è affatto psicologi o psichiatri degni di questo nome….
La religiosità è qualcosa che ciascuno di noi ha dentro di sé. Riveste un ruolo nell’individuo, consentendogli di connettersi con coloro che ama. Permette di elevarsi. L’uso che le grandi chiese di ogni fede fanno della religione è il vero pericolo. Esse dimenticano il vero scopo della religione, che è quello di elevare le persone.
Per molti studiosi la società contemporanea tende a dimenticare, a rimuovere il passato. Nel suo romanzo c’è il futuro (il piccolo Milio) e il passato (la nonna Tsirel). Possiamo dire che la letteratura possa servire ad uscire dall’oblio dell’eterno presente….
La religiosità come la letteratura non può risolvere i grandi problemi ma almeno possono renderci consapevoli dei danni che arrecano. Ci mette in contatto con il bene, con ciò che è delicato, come ogni arte. Quando ci sediamo ad ascoltare Bach in qualche modo cambiamo, diventiamo persone differenti. Cerco sempre di «salvare» l’umanità nel mio libro. La domanda è: che cosa possiamo fare? Come possiamo andare avanti? Dovremmo rinunciare? La risposta si trova nella comunità, che è responsabile per se stessa, per i suoi vecchi e per i suoi figli.
Un altro fatto molto commovente nel suo libro è che il piccolo Milio all’inizio non riesce a parlare ma, dopo che il gigante Danzig si prende cura di lui, alla fine del quarto capitolo riesce a dire le prime parole e pronuncia: «Cielo». Ogni volta che il bambino dice una parola nuova, il gigante è felice perché sta portando a termine la sua missione…
Il gigante riveste un ruolo nel salvare l’umanità, per esempio rubando vestiti. Si devono avere vestiti caldi e naturalmente libri. Libri di diverse discipline e scritti in lingue diverse.
Il protagonista ha una memoria molto vivida di «Delitto e castigo» di Dostoevskij, ma quando finalmente ne trova una copia se ne sente meno attratto, probabilmente a causa della situazione in cui si trova. Che cosa ha significato questo libro per lei?
Quando l’ho letto ero molto giovane, l’ho portato davvero con me nel bosco. Semplicemente mi ispirava. Anche Kafka è uno scrittore che mi ha influenzato. Era una persona profondamente religiosa, nonostante tutto. Sapeva che il mondo era pieno di demoni. Basta pensare all’Olocausto, alla guerra, il mondo è pieno di demoni. Spiegare le cose è una modalità molto debole. Non si dovrebbe spiegare se stessi, bisognerebbe mostrare. Se lei parla del male, lo mostri! Lo mostri, non lo spieghi!
[Riccardo Mazzeo 18/08/2016]

domenica 14 agosto 2016

Una solitudine in stile imperiale

Se in isole come il Madagascar e l’Australia sopravvivono specie animali uniche al mondo, è grazie all’isolamento. L’isolamento, un po’ come il freddo, conserva. Ornitorinchi, lemuri e canguri non si sono estinti perché parte di ecosistemi insulari, cioè delimitati e remoti. Per isolarsi bene è dunque auspicabile stare su un’isola: prima ancora che dello spirito, un luogo del corpo, difficile da scoprire e da conquistare. Basta sostituire la monarchia all’ornitorinco, i rubinetti senza miscelatore al lemure e la guida a destra al canguro per trovarci di fronte all’unico paese insulare europeo che è l’equivalente culturale del Madagascar e dell’Australia (che non a caso possedeva): la Gran Bretagna.
Ormai ce ne siamo fatti una ragione: in quest’Europa a scartamento sempre più ridotto, la patria di John Stuart Mill, Jeremy Bentham, Winston Churchill e Peter Pan non vuole più starci. Anche prima che l’Ue diventasse una fallita Neverland che rischia essa stessa, come i profughi che tentano disperatamente di raggiungerla ogni giorno, di essere inghiottita dal mare, l’Inghilterra – parte per un tutto, il Regno Unito, che si sta a sua volta sfaldando – vi teneva un piede dentro e uno fuori, cosa ovvia per un paese che ha sempre visto il continente con un misto di diffidenza, condiscendenza e curiosità.

Nebbia nel canale

Anzi, è diventata «Everland», l’isola (sono varie, ma per comodità useremo il singolare) che c’è perché c’è sempre stata: per se stessa, fuori e possibilmente lontano dall’idea oggi agonizzante d’Europa. Che il meno europeo dei paesi d’Europa abbia fatto questa scelta è perfettamente in linea con l’utilitarismo e il particolarismo nazionali, stigmatizzati già trecento anni fa dall’universalista Napoleone Bonaparte, che affibbiò agli inglesi l’etichetta di «nazione di bottegai» senza peraltro rendersi conto che, da Calais in su, l’epiteto suonasse come un complimento. Darwin l’evoluzionista avrebbe orgogliosamente approvato la Brexit. Nei giorni pre e post-referendum, dello splendido isolamento si è parlato a iosa, il famoso detto «nebbia nel canale» è stato citato con insistenza, come anche l’atlantismo e la special relationship con gli Usa. Ma qui non è solo la destra piccolo-grande borghese, quella che ha sempre parlato dei vicini europei come «Europeans» quasi a volersene distinguere, che gioisce.

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Autoritratto del pittore John Everett Millais
In molti, anche nelle zone povere che hanno votato massicciamente per il «leave», soprattutto in chiave anti-immigrazione, sono convinti che il paese possa prosperare autonomamente nell’attuale turbinoso rimpasto delle influenze geopolitiche ed economiche mondiali. E che uscire formalmente dall’Europa, forti di quella geniale – ancorché formale – furbata che è il Commonwealth (dove il common andrebbe letto come our own, nostra), sia una scelta del tutto naturale. Quanto agli europeisti continentali liberali dal cuore sanguinante, farebbero bene a tener presente che in inglese il sostantivo «solitudine» ha due significati: loneliness per l’accezione negativa, solitude per quella positiva. Ancora una volta dopo la seconda guerra mondiale, che ha visto le isole resistere da sole – con l’evacuazione di Dunkerque, il «we stood alone» figura tra i miti fondanti della narrativa bellica nazionale -, contro il tentativo d’invasione tedesca prima che l’alleato americano entrasse in lizza, è tornato il tempo della solitude. «Isola è un’isola, è un’isola, è un’isola»: parafrasare Gertrude Stein aiuta a soffermarsi sulle caratteristiche solo superficialmente banali di un luogo delimitato, metaforico e realistico, tanto facile da difendere quanto difficile da raggiungere. E da abbandonare non solo per i migranti e i richiedenti asilo.

L’invenzione del privato

Un luogo che non potrebbe far parte di un tutto nemmeno volendo e che dunque ha cercato di controllarlo e dominarlo, riuscendoci per un lungo tempo della propria storia. E che, mentre l’Europa stessa prende dolorosamente atto del proprio scivolamento nella subalternità, non accetta la sentenza di declino che il terzo millennio gli pone innanzi. Piuttosto, taglia i ponti con il continente di cui è stata tiepida partner fin dalla seconda guerra mondiale per vedere se il vecchio timone imperial/istico, basato su traffici e commerci e un tempo garantito dal dominio del mare è ancora adatto a mantenere la rotta in acque terribilmente cambiate. Il paradosso è che a non sentirsi europea è in realtà una super-Europa, che meglio del resto del continente ha mantenuto i suoi privilegi, ci si è associata in un’epoca economicamente torbida (gli anni ’70) e ora toglie il disturbo.
Forse basta un piccolo e semiserio tour de force per sorvolare alcune tra le peculiarità culturali e non di questa nazione che produce utopie sociali per poi sforzarsi di confermarne l’irrealizzabilità (basti pensare a Tommaso Moro, Robert Owen, William Morris). Un luogo che ha «inventato» la proprietà privata (le enclosures, nel Settecento), l’agricoltura e l’industria moderne, ha prodotto la Magna carta, per poi comodamente evitare di mettere nero su bianco le regole costituzionali; un luogo che con Enrico VIII ha privatizzato la chiesa a fini privati, e ancora oggi si porta dietro l’odioso, ridicolo e feudale gravame della monarchia, opportunamente tramutato in «azienda». Che ha considerato il mare il proprio mercato, ha conquistato continenti immensi colonizzandoli con lo stesso «buon senso» di quegli altri grandi mercanti imperialisti, i Romani. Tutto nel nome del buon senso empirico-pragmatico del commerciante, abituato a decidere su quanto il mercato gli propone al momento e dunque è antidogmatico, perché sa bene che le condizioni attuali per una transazione potrebbero cambiare.
Con l’avversario di oggi si potrebbero fare affari domani, ed è in quest’utilitarismo dei Mills e Bentham avversari di Marx che in filosofia si annida l’ostilità per le grandi narrazioni. Marx era occhiutamente tollerato nella stamberga di Soho, quando poco meno di un secolo dopo a pensatori continentali liberal-inegualitari in fuga dai totalitarismi come Hayek, Popper e Berlin si srotolavano passatoie e si spalancava Oxbridge.

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Alice nuota nelle sue lacrime
Dopo il sommo Shakespeare, a livello letterario il risultato di tanto egoistico buon senso aveva prodotto il grande romanzo borghese. Ma in un sistema sociale a tenuta stagna, alla modernità tecnologica faceva riscontro una certa prudenza estetica, salvo forse le eccezioni di Mary Shelley e Lewis Carroll. Jane Austen ancora infesta l’immaginario contemporaneo, i più grandi narratori e poeti dell’otto-novecento sono soprattutto irlandesi (Yeats, Wilde, Joyce, come anche Bram Stoker, mentre J. M. Barrie era scozzese): il vittorianesimo ha schiacciato sotto la propria pantofola l’idea di avanguardia. Ne è conseguito – a livello pubblico: in privato era tutto un fiorire di spiritismo e sessualità – un provincialismo soffocante, esemplificato in pittura dal languore preraffaellita e da ritrattisti per ricchi come Millais (il cui equivalente odierno è Annie Leibovitz). Tutto mentre la rivoluzionaria Parigi e la decadente Vienna esplodevano d’idee. Ancora negli anni ’50, l’insopportabile Evelyn Waugh sfotteva Picasso nel suo diario, fingendo di non capirlo: è più probabile che fosse turbato dalla rottura della forma che per lui assumeva le sembianze del «disordine» sociale europeo.

Immobilità sociale in note


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I Beatles
E la musica? Almeno fino ai Beatles, ha avuto ragione (l’irlandese) George Bernard Shaw: «Gli inglesi hanno per la musica un amore non corrisposto». Se non si ami a dismisura Britten, il Novecento musicale solo parzialmente si libera dal turgore di certo Elgar – vero compositore ufficiale dell’imperialismo europeo – per precipitare nel sentimentalistico Waughan Williams, entrambi ostinatamente rimasti nella placenta della tonalità e dell’idillio campestre: l’immobilità sociale si fa musicale. La Francia di Ravel e Debussy è stratosferica in confronto, lasciando del tutto perdere Mahler e i maestri dell’Est Europa.
È forte la tentazione di leggere questa mancanza di afflato per il cambiamento, la feticizzazione statale del passato e un’ostilità fisiologica all’idea rivoluzionaria nell’evidenza empirica di un sistema che, modernizzandosi industrialmente ben prima del resto d’Europa, ha resistito a rivoluzioni e invasioni, ha scongiurato i totalitarismi (moderni) annacquando il proprio (antico). Che non è mai stato conquistato e dove le aziende sono amate come i monumenti (la fine dei vetusti grandi magazzini Woolworths ha suscitato un’ondata di commozione, e non certo per i posti di lavoro persi).
In sostanza, un sistema che tiene per secoli, comprese due guerre mondiali si tiene: «If it ain’t broken, don’t fix it», se non è rotto non aggiustarlo, recita un detto popolare. Questo aiuta a capire paradossi politici altrimenti assurdi, come un socialismo nazionale: monarchico, imperialista, filonucleare. Forse anche per questo l’isola è sempre stata una scuola gigantesca di dominio: nessun altro ha saputo eticizzare ed estetizzare altrettanto bene la diseguaglianza.
[Leonardo Clausi 14/08/2016]

sabato 6 agosto 2016

Un apprendistato di lotta e grazia

Accade di questi tempi di leggere la storia terribile e meravigliosa del giovane sottotenente dell’Armata rossa Lev A. Zasesckij, narrata dal famoso neuropsicologo Aleksandr Lurija ne Un mondo perduto e ritrovato (pubblicato in traduzione italiana da Adelphi, 2015) e pensare che essa sia metafora del nostro presente. Durante la seconda guerra mondiale Zaseskij il 2 marzo 1943, mentre combatteva presso Smolensk, venne colpito da una pallottola alla testa e si risvegliò immerso in una specie di nebbia, la memoria vuota di tutto, se non di singole parti isolate che non avevano ordine né costrutto, al punto di pensare di essere stato ucciso veramente. «Gli è difficile credere di essere realmente vivo», annota Lurija, che ne scrive intrecciando la propria scrittura a quella del suo paziente che seguirà costantemente nel corso dei successivi trenta anni in un percorso difficilissimo, impervio e ostico quant’altri mai, di recupero sempre incerto della propria memoria, della cognizione dello spazio e del tempo, della parola, della grammatica per leggere e scrivere. Siamo di fronte a quello che nella prefazione Oliver Sacks, che corrispose con Lurija proprio a proposito di questo libro, definisce un «romanzo neurologico», un genere del tutto nuovo perché nello stesso testo si alternano le pagine scritte da Zaseskij e le osservazioni di Lurija, che con lui interloquisce e osserva, partecipe, la perdita di un mondo e la volontà mai sconfitta a ricostruirne un altro, nonostante le spaventose difficoltà.
Senza rimuovere le differenze di una vita così segnata dalla guerra, la lotta che Zaseskij condusse scrivendo costantemente ogni giorno righe faticosissimamente tracciate, reimparando anche a tenere la penna in mano, appare strettamente intrecciata all’immagine di un mondo sperato e perseguito con la visionarità delle rivoluzioni, che sembra ormai perso alle nostre spalle e che ha bisogno, per ritrovarsi, di reimparare un alfabeto di parole e cose. Rispetto al mondo frammentato in cui viviamo e alla deriva continentale in corso forse l’unica cosa che possiamo fare è volgere lo sguardo verso chi ha fatto del proprio sentimento di solitudine e di isolamento qualcosa di ben diverso dalla sconfitta: l’isola.

Tra il deserto e l’origine

In un testo manoscritto degli anni Cinquanta Gilles Deleuze osserva come secondo i geografi due sono i tipi di isole: le isole continentali, ovvero nate da una separazione dal continente, da una sua disarticolazione; mentre le isole oceaniche, scrive, «sono delle isole originarie, essenziali». Intitolato Cause e ragioni delle isole deserte e pubblicato solo nel 2002 in edizione francese da Les Éditions de Minuit (poi in traduzione italiana per le cure di Deborah Borca nel 2007 da Einaudi) si tratta, come nello stile di Deleuze, di un testo breve ma densissimo, inizialmente scritto per un numero speciale della rivista Nouveau Fémina sull’argomento delle isole deserte e vale sottolineare la valenza particolare della committenza femminile, che pone l’accento non solo e non tanto sull’isola, quanto proprio sulle isole deserte. Deleuze osserva che entrambe le isole, quelle continentali come quelle oceaniche, «testimoniano una profonda opposizione tra l’oceano e la terra» e in questo non vi è nulla di rassicurante, anche se l’uomo, per vivere, deve poter presupporre che questa contrapposizione sia risolta e conclusa, e attribuisce così a terra e acqua caratteri femminili e maschili, paterni e materni a seconda della sua fantasia. Perché l’isola è anche l’origine, radicale e assoluta, ed è a partire da lei e dalle sue acque che si può ricreare il mondo: è il mare che la circonda il deserto intorno a sé, fuori di sé, che occorre attraversare per raggiungere questo «uovo del mare», come lo definisce Deleuze.
L’isola che forse più corrisponde a questa immaginifica descrizione deleuziana è la Sardegna, per raggiungerla occorre attraversare il mare con un viaggio lungo e impervio, sovente anche oggi. In un bellissimo saggio del 1998, pubblicato nel volume dedicato alla Sardegna della Storia d’Italia Einaudi, Salvatore Mannuzzu ha scritto che nonostante spesso al suo interno il mare non si veda è sempre in mezzo, prova inoppugnabile di una distanza, una separazione, un qui e un là. Le narrazioni otto-novecentesche partono proprio da lì, dal tempo lungo per raggiungere il continente o per tornare dal continente, questione altrettanto importante per chi la abita o la desidera: sia che si tratti del Vittorini di Sardegna come un’infanzia, diario del viaggio in nave organizzato dall’«Italia letteraria » nel 1932, pubblicato nel 1936 con il titolo Viaggio in Sardegna (solo l’edizione del 1952 avrà il titolo con cui circola oggi), la cui pagina iniziale si apre proprio sulle parole desiderio e deserto; fino al recentissimo Chirù di Michela Murgia, in cui per raggiungere o lasciare la pur cosmopolita Cagliari occorre comunque prendere un aereo e attraversare il mare, anche nel deserto del presente.
Nonostante infatti il territorio italiano si rappresenti in forma apparentemente compatta e lo si sia rappresentato con una definizione di conio sostanzialmente ottocentesca e risorgimentale in forma di stivale (quanto ce lo hanno insegnato alle scuole elementari in geografia, accentuando e sottolineando il carattere quasi bellico e assai virilista di quello stivale posto a calcare e calciare gli stati occupanti da cacciare eroicamente, come da famosa frase di Baretti sul primo numero della Frusta letteraria sui tanti «Goti e Vandali che dal gelato settentrione dell’ignoranza sono venuti a manomettere, a vituperare e a imbarbarire il nostro bellissimo e gloriosissimo Stivale») in realtà ci dimentichiamo sovente che esso si configura quasi in forma di arcipelago, grazie alla moltitudine di isole che ne fanno parte, di cui la Sardegna rappresenta la più grande e anche per molti versi lontana. Non che le altre isole non lo siano: meno la Sicilia, per raggiungere la quale occorre comunque attraversare lo stretto, ma geograficamente lontane le Tremiti, le Egadi, le Eolie, Ustica, Lampedusa, al punto che sovente ci dimentichiamo quasi della loro esistenza, anche quando non sarebbe il caso, anche quando non vorremmo. Ognuna considerata ai margini, ognuna trattata come una colonia fin dall’antichità al punto che per esse e in particolar modo alla Sardegna si possono flettere le pagine introduttive di Edward Said a Orientalismo e sostituire alla parola «Oriente» la parola «Sardegna»: sarebbe così evidente che la Sardegna – e con lei tutti i territori insulari cosiddetti italiani – è stata nel corso del tempo oggetto di un colonialismo interno feroce e determinato nel sacrificarla alle forme identitarie nazionali quando non nazionaliste, desertificandola tramite l’emigrazione, la mancanza di lavoro e di prospettive.
Nonostante ciò la Sardegna ha avuto e ha caratteristiche sue proprie di arte, cultura e letteratura tali da mutare l’isolitudine, termine coniato con connotazione negativa da Gesualdo Bufalino per la sua Sicilia, in qualcosa di vivo e prezioso per l’Italia tutta: dai numerosi festival del libro e della lettura a quelli del jazz e del cinema, da Antonio Gramsci, mai dimenticato almeno nella sua isola, alla letteratura a firma di scrittrici e scrittori che hanno narrato storie di sconfitte e di isolamento come Giuseppe Dessì (Paese d’ombre, 1972) e Salvatore Satta (Il giorno del giudizio, 1979) e lo stesso Salvatore Mannuzzu (magnifico e terribile il suo ultimo romanzo Snuff o l’arte di morire, del 2013), e insieme di singolare forza e determinazione come Grazia Deledda (splendidamente ripubblicata da Ilisso) e Maria Giacobbe (come non ricordare il suo Diario di una maestrina, 1957), di migrazione come Mariangela Sedda (Oltremare, 2004, e Vincendo l’ombra, 2009, entrambi per le edizioni Il Maestrale), di canto dell’isola come il bellissimo Passavamo sulla terra leggeri di Sergio Atzeni (1996), fino alle opere incandescenti di Savina Dolores Massa, tutta l’isola è stata ed è laboratorio capace di elaborare le proprie ferite per ricostruire un mondo nuovo, molto più di quanto la letteratura e cultura nazionale sia riuscita a fare.

Il museo diffuso

Appare in tutta evidenza a Ulassai, dove Maria Lai nel 1981 è stata capace di coinvolgere l’intera comunità del paese nella sua proposta di Legarsi alla montagna (molte le foto e i video in rete e su questo giornale ne ha scritto a più riprese con appassionata partecipazione Arianna di Genova): cambiando così il destino apparentemente segnato del luogo e dei suoi abitanti, uniti allora da un nastro azzurro che andava da una casa all’altra fino alla montagna, con nodi e fiocchi a segnare amicizie e inimicizie, amori e dissapori, e che dura ancora oggi nel museo diffuso di Ulassai e nella sua Stazione dell’arte: memorabili i suoi libri di pane posti su una lunga tavola conviviale, mentre La scarpata, del 1993, costituisce esempio di come una discarica possa divenire qualcosa di potentemente altro, in forma di resti di dinosauro, di antiche epoche ormai perse nel tempo (quanto invece le discariche occupano il nostro presente) sparse sul territorio.
Lotto ancora! intitola il proprio diario Zaseskij, storia di una terribile ferita che nella scrittura trova il modo di vivere in un mondo di parole estranee e di rigenerare la memoria e il linguaggio, le parole e i significati, anche il significato della parola «differenza». Lottano ancora le donne e gli uomini della Sardegna, da Porto Torres a Portovesme le operaie e gli operai, minatori e minatrici (bellissimo il documentario di Valentina Zucco Pedicini Dal profondo, 2013) del Sulcis e di Ottana hanno lottato e lottano ancora e questo fa la differenza.
Deleuze conclude il suo saggio sulle isole deserte osservando come una seconda origine, dopo una prima creazione, è affidata agli uomini, e le isole, quasi in sorta di uovo fecondatore, sono spesso abitate da comunità femminili o meglio, si vorrebbe aggiungere, nelle donne come Maria Lai e le altre tutte della Sardegna si riconosce la differenza. Occorre ri-cominciare e l’isola deserta è la materia per poterlo fare, parola dopo parola, pietra dopo pietra, come nel canto delle pietre che l’artista Pinuccio Sciola, da poco scomparso, riusciva a far risuonare nel suo giardino di San Sperate: parola-pietra scabra ed essenziale proprio come la Sardegna, uovo del mare.
5 – continua

SEPARARSI DALL’ISOLAMENTO E DISTACCARSI DALLA RIVA

A scrittrici e scrittori della Sardegna, Laura Fortini e Paola Pittalis hanno dedicato un libro dal titolo Isolitudine, pubblicato per Iacobelli editore nel 2010. Diviso in quattro capitoli, ciascuno è un focus dettagliato sulle scritture intese in senso ampio come esperienze e saperi che hanno avuto origine in Sardegna. Dalle voci delle maestre, crocevia di autoformazione e sperimentazione, alle figure dello «straniero» come percorso tematico identitario in costante apertura, fino ad arrivare alla linea critico-genealogica riconducibile a Grazia Deledda, attraversando in particolare le narrazioni di Salvatore Mannuzzu e Michela Murgia. A intersecarsi alcuni temi cruciali che, tra percezione e rappresentazione, restituiscono la risorsa della solitudine intesa come sapere di sé che si sottrae all’isolamento.
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Domani si sbarca sui giardini galleggianti, isole di coltivazioni che si raggiungono solo dall’acqua, ecosistemi perfetti conosciuti già dagli Aztechi. Conduce, Michela Pasquali
[Laura Fortini 6/08/2016]