giovedì 28 luglio 2016

Pia Pera, la regalità della scrittura

ADDII. Scompare una scrittrice che aveva fatto del giardino e del colloquio con la natura le sue sponde, letterarie ed esistenziali. Giardiniera lei stessa, ha reso il tratto di campagna lucchese dove abitava da 15 anni, un angolo di ineguagliabile bellezza. Il suo ultimo romanzo, pubblicato per Ponte alle grazie, è «Al giardino ancora non l'ho detto»
Se le grandi cose si acquattano dentro, non dette, sono invece quelle piccole a mostrarsi dicibili. Preziose e parlanti, spesso rimandano al senso pensante di un disarmo quotidiano a cui non solo si è esposti ma che si sceglie. Così, la condizione umana marcata inestricabilmente dalla finitudine, la prova di una malattia da cui non si può tornare indietro, raccontano la scomparsa di una scintillante scrittrice come Pia Pera, morta all’età di 60 anni che ha consegnato parole stupefacenti sul senso di affollamento silenzioso di un cosmo magnifico. Il proprio singolare stare all’interno è invece il disarmo, il significato di una contrattazione generosa che va interrogata ogni giorno. 
Emerge questo, e molto altro, nella rappresentazione del corpo e del suo orientamento, fra le pagine del suo ultimo romanzo, Al giardino ancora non l’ho detto (recensito da Emanuele Trevi su Alias). Da Vita Sackville-West a Gilles Clément, da Etty Hillesum a Cristina Campo, sono molte  le vette e gli accostamenti da segnalare, non solo in questa ultima composizione di Pia Pera a cui, tra gli altri, 

va il merito di aver tradotto Puskin e Lermontov, di aver dato voce nel Diario di Lo (1995) alla protagonista del romanzo di Nabokov. E poi ancora  La bellezza dell’asino (1992), 


L’orto di un perdigiorno (2003) e Il giardino che vorrei (2015).

Tuttavia, la mappa che fino a poco tempo fa raccontava la prodigalità della fioritura, la dedizione e la cura di quello straordinario scorcio della campagna lucchese alle pendici del Monte Pisano dove aveva deciso di vivere da 15 anni a questa parte, percorre ancora una volta la grazia per segnare questa volta il dritto e il rovescio. Cosa ne sarà di quel giardino così amato, di quella parola di cura a tratti insostenibile, tanta la bellezza che la abita? Di luce aurorale era dotata Pia Pera, non solo nel sorriso ma nell’aver individuato nel giardino il luogo elettivo di espansione soggettiva, della propria scrittura, riuscendo nell’impresa di tessere tumulti di foglie, petali, rami, steli e amore per la libertà sia per sé che per la natura con cui colloquiava; un dialogo raro, nella lingua della pratolina di Emily Dickinson udibile e codificabile da poche creature di questo mondo. È proprio nell’intercettare quella «umile Massaia in mezzo all’erba», strappata dal verde, che la devozione della scrittrice è stata massima, semplice e acuminata.
E se è vero che le cose grandi si acquattano in quelle piccole, è allora in questo modo che una dispensa colma, dedicata alla gioia dell’abbondanza, ribaltata un giorno nel suo contrario, non può che essere ragione di ulteriori nascondigli di ristoro e chiarore. E di fiori che vengono in dono, come quelli di rosselliana memoria, per poi dilatarsi. Arriviamo così a conoscenza che «la leggerezza interiore nasce forse dal sentirmi libera dalla zavorra terribile del futuro, indifferente al cruccio del passato. Immersa nell’attimo presente, come prima mai era accaduto, faccio finalmente parte del giardino, di quel mondo fluttuante di trasformazioni continue». E quando il corpo diviene traccia di peregrinazioni così lucide, mai si trova il senso di una solitudine senza scampo. La saggezza della terra sappia abbracciare chi l’ha cantata da regina.
[Alessandra Pigliaru 28/07/2016]

lunedì 11 luglio 2016

La tormenta, Vladimir Sorokin

Nel 2010, ai critici che gli domandavano perplessi come mai la sua ultima opera Metel’ fosse contrassegnata da uno stile così inconfutabilmente ottocentesco, Vladimir Sorokin rispondeva imperturbabile che già da decenni avrebbe voluto scrivere «una classica povest’ russa». E, in effetti, il riferimento esplicito a questo genere intermedio, tra romanzo e racconto, sarebbe bastato di per sé a proiettare lo scrittore moscovita nell’orizzonte della tradizione letteraria del XIX secolo, dove all’ampio respiro dell’intreccio romanzesco si contrapponeva la breve durata della povest’, narrazione rigorosamente sfrondata da trame secondarie e focalizzata sulle vicende di un singolo personaggio. Ma al di là delle considerazioni legate al genere, è comunque difficile immaginare un testo innestato in maniera altrettanto esibita e programmatica sul canone letterario russo come La tormenta, ora proposto in italiano da Bompiani nella traduzione di Denise Silvestri (pp. 198, euro 17,00).
Non c’è infatti topos, stilema o motivo pur vagamente riconducibile a una idea quasi stereotipata di «testo russo» di cui l’autore non si sia spregiudicamente impadronito, dispiegando una sorta di mimetismo a un tempo parassitario ed eversivo. Una strategia appropriativa evidente sin dal titolo – identico a quello sia di una celebre povest’ puskiniana datata 1830, sia di un racconto giovanile di Lev Tolstoj del 1856 – nonché dalla situazione di partenza, che alcuni commentatori russi non hanno esitato a definire come «nota e arcinota, fino al mal di pancia».
Platon Il’ic Garin è un medico di campagna che sta cercando disperatamente di raggiungere la remota località di Dolgoe per soccorrere i suoi abitanti, decimati da una spaventosa epidemia. Senonché innumerevoli ostacoli si frapporranno tra lui e l’adempimento del suo dovere professionale: alla stazione di posta non ci sono cavalli, il vetturino che acconsente a guidarlo ha una tendenza patologica a smarrirsi e una mugnaia, novella Circe, lo tiene prigioniero per una notte nel suo mulino, facendogli perdere tempo prezioso. Ma lo scoglio principale è costituito ovviamente dalla tormenta del titolo, forza primordiale e ctonia che confonde le tracce, inghiotte di colpo la strada, annulla le coordinate topografiche e temporali, insorge come «un selvaggio, ostile, ululante spazio bianco», intenzionato a trasformare il protagonista in un ridicolo pupazzo di neve.
Fin qui si resta nell’ambito di una mera esercitazione stilistica sul tema del conflitto tra l’individuo volitivo, disposto a sacrificarsi per il prossimo in nome del progresso, e la natura russa intrinsecamente matrigna, fonte primigenia di ogni manifestazione di arretratezza e di fatalismo. La mossa che sposta il baricentro della narrazione verso una deriva fiabesca tanto originale quanto inaspettata è la scelta di proiettare questo sostrato realistico di stampo ottocentesco in un futuro acronico, dove la modernizzazione agognata dagli intellettuali progressisti del XIX secolo è stata vanificata da una spinta altrettanto potente a una arcaizzazione forzata della società a fini terapeutico-conservativi. Malgrado la stilizzazione ostentata su movenze desuete, La tormenta si iscrive infatti a pieno titolo nell’universo distopico concepito da Sorokin a partire dalla Giornata di un opricnik, tradotto sempre da Silvestri per Atmosphere due anni fa, ma risalente al 2006.
Nel futuro prossimo qui prefigurato dall’autore – il 2027 – elementi riconoscibilissimi dell’odierna Russia putiniana erano trasposti sullo sfondo di una società neo-medievale, dove il ritorno al sistema feudale non sembrava aver minimamente intaccato i meccanismi dell’economia capitalista e l’ossequio nei confronti di una autocrazia oscurantista e paternalistica era assicurata dall’oprichnina, la famigerata guardia del corpo di Ivan il Terribile tornata in gran spolvero. Un analogo attrito tra piani temporali all’apparenza incompatibili riaffiora anche nella Tormenta: malgrado i riferimenti cronologici siano qui molto più vaghi, le allusioni a una Rivolta Rossa di cui si è persa ogni memoria, nonché alla «lontanissima epoca staliniana», permettono di collocare la vicenda di Garin e del suo postiglione Raspino in un punto indeterminato del XXI secolo che risulta tuttavia inquietantemente simile alla Russia di fine Ottocento.
Un «domani» che, non a caso, il critico Mark Lipoveckij ha definito con un neologismo fulminante «retrofuturo» e che si immagina successivo a una lunga fase di regressione culturale e tecnologica capace di spazzare via definitivamente ogni traccia legata alla modernizzazione (ammesso che questa fosse mai avvenuta). Se nella Giornata di un opricnik la arcaizzazione dei costumi alludeva alla politica neoconservatrice e paternalistica di Vladimir Putin e assumeva dunque tonalità squisitamente satiriche, qui la sovrapposizione tra passato e futuro si fa se possibile ancora più spiazzante e si apre alla dimensione metafisica dell’allegoria. Difficile infatti resistere alla tentazione di interpretare in chiave simbolica le innumerevoli apparizioni che si profilano di volta in volta sul cammino già sufficientemente irto d’ostacoli del dottore. La strada che porta a Dolgoe è disseminata di visioni dall’evidente carattere onirico che, da una parte, rivelano l’illusorietà del fondale realistico-oleografico tratteggiato dall’autore, dall’altra sembrano adombrare una riflessione alquanto disincantata sulla traiettoria storica seguita dalla Russia e, soprattutto, sulle sue occasioni mancate.
Man mano che procede verso la meta del suo viaggio, Garin si addentra in un universo sempre più straniato e psichedelico, dove le dimensioni fisiche di oggetti e persone tendono a dilatarsi o a restringersi a dismisura, circoscrivendo uno spazio che si rivelerà del tutto ingovernabile. Impossibile domare, per esempio, i cinquanta minuscoli cavallini, «non più grandi di una pernice» che trainano la motoslitta di Raspino, relitto di una modernizzazione ormai lontana nel tempo e interrotta non si sa bene da quale catastrofe. Altrettanto ribelle è il marito lillipuziano della mugnaia, alto non più di un samovar, che con le sue chiacchiere malevole riesce a minare il rapporto di fiducia tra il dottore e il suo vetturino. Ma, in realtà, non sarà tanto ciò che è ridicolmente piccolo a sottrarre a Garin la speranza di poter raggiungere mai il villaggio di Dolgoe e i suoi malati, quanto l’impatto con creature spropositatamente grandi che, malgrado il loro aspetto grottesco, lo faranno precipitare in uno stato di incontrollato terrore. Sicché nelle pagine finali la lotta contro gli elementi naturali imbizzarriti assumerà sempre più i tratti di una stralunata gigantomachia, chiaramente destinata alla sconfitta.
Alternando con la consueta maestria i più diversi registri stilistici, Sorokin confeziona una ammaliante fiaba postmoderna che si apre a vari livelli di lettura, ma in cui la resa dei conti con le speranze coltivate dall’intelligencija progressista di fine Ottocento risulta comunque centrale. La trojka lanciata al galoppo con cui Gogol’ identificava le sorti progressive della Russia si è trasformata qui in una ridicola motoslitta trainata da cavalli, ed è evidente che a salvarla dalla bufera non sarà né Raspino, incarnazione del buon senso popolare, né tantomeno Garin, parodia di quei medici che Cechov spargeva liberalmente nella sua prosa e nelle sue pièce, fautori del progresso e della scienza. A Sorokin non serve certo una sfera di cristallo per predire che entrambi questi interpreti di una possibile palingenesi sociale hanno fallito; sottilmente perfido è costringerli a ripetere il loro naufragio in un «retrofuturo» privo di qualsiasi prospettiva di catarsi.
[Valentina Parisi 10/07/2016]

giovedì 7 luglio 2016

Rari manoscritti tornano alla luce a Fès

Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito», diceva Marguerite Yourcenar. Pare essere proprio questo lo spirito che, a quasi trent’anni dalla morte della scrittrice, ha animato l’opera di restauro della biblioteca al-Quaraouiyine di Fès. Costruito nell’859 per volere di una donna – Fatima al-Fihriya – e famoso per essere il più antico di tutto il Marocco, questo tempio della cultura ha riaperto i battenti al pubblico da poche settimane.
Secondo l’Unesco, la biblioteca rappresenta il punto più alto di un’operazione culturale che riuniva europei e arabi fin dai tempi antichi e che ha attirato studiosi, poeti, mistici e filosofi da tutto il mondo arabo.
I lavori di ristrutturazione, durati più di tre anni, non potevano che essere affidati a un’altra donna dallo stesso piglio intraprendente e caparbio: Aziza Chaouni, architetta marocchina formatasi tra la Columbia University di New York, Toronto e Parigi. Attualmente ha due studi di progettazione, uno nella capitale canadese, l’altro proprio nella sua città natale: Fès. «Ho sentito molto forte la responsabilità del lavoro che mi è stato affidato – spiega Chaouni – Questo edificio rappresenta un momento storico assai importante della mia città. E la sua riapertura al pubblico è un traguardo per tutto il paese».
Quali sono stati gli interventi più difficili da attuare durante le fasi della ristrutturazione?
Il mio obiettivo era riconsegnare al luogo il suo antico splendore, conferendogli uno stile moderno. Non era affatto semplice farlo, senza trasformarlo in un «cadavere imbalsamato». Certamente, l’intero restauro è stato ulteriormente complicato dalla fragilità di alcuni materiali. Ho anche trovato molto impreparati all’operazione di restauro alcuni degli operai che l’impresa aveva scelto, ma nonostante queste difficoltà oggettive, siamo riusciti a impiantare un sistema di pannelli solari e uno di raccolta delle acque per l’irrigazione dei giardini.
Chi ha finanziato i lavori di ristrutturazione di al-Quaraouiyine?
Nel 2012 la Kuwait Arab Bank ha fornito un’importante sovvenzione al Ministero della cultura del Marocco, chiedendo non solo di ripristinare l’edificio, ma di renderlo accessibile e funzionale per il pubblico. La biblioteca ha, infatti, una sala da lettura, una moschea, un laboratorio di restauro dei manoscritti e un caffè. La cupola del XII secolo, infine, ospiterà mostre permanenti e temporanee.
L’importanza delle donne nella fondazione di questo luogo è indiscussa. Grazie al suo lavoro, ora riapre dopo anni di chiusura al pubblico. C’è stata qualche altra figura che ha contribuito, insieme a lei, al conseguimento di questo traguardo?
È stato fondamentale l’aiuto e il sostegno di madame Skalli, responsabile delle finanze al Ministero della cultura. In questi tre anni, non mi è mai mancato il suo contributo.
Avete riscontrato sorprese – positive o negative – durante lo svolgimento dei lavori?
Quando sono entrata per la prima volta nelle stanze della biblioteca sono rimasta scioccata per le condizioni in cui era la struttura: nei locali che contenevano manoscritti preziosi del VII secolo, la temperatura e l’umidità erano incontrollate, c’erano crepe nel soffitto. Nonostante questo, grattando le mura abbiamo scoperto diversi dipinti. Soprattutto, abbiamo trovato resti di un sistema fognario secolare.
Cosa significa, per il suo paese, la riscoperta di un posto come al-Quaraouiyine?
Nel XII secolo, il poeta e filosofo Ibn al-’Arabi ha studiato nella biblioteca, mentre nel XIV secolo ad aver frequentato il posto fu lo storico ed economista Ibn Khaldun. Non c’è dubbio che il luogo abbia un forte valore simbolico: il complesso di al-Quaraouiyine fu un importante centro educativo per molti secoli: i numerosi e rari manoscritti contenuti nelle sue sale riflettono la diversità culturale che caratterizza del nostro Paese.
[ Francesca del Vecchio 7/07/2016]

mercoledì 6 luglio 2016

Valentino Zeichen, il rigore della semplicità

Ci ha lasciati Valentino Zeichen, il poeta, l’irriducibile irregolare del nostro tempo. Era nato a Fiume nel 1938 e sul giorno preciso della nascita si discute ancora. Si favoleggia spesso sulla sua vita prima ancora che sulla sua opera, si favoleggia su quel suo strano modo di vivere. Valentino Zeichen fa il suo silenzioso ingresso in poesia appena diciottenne. Grande viaggiatore, autostop e sacco in spalla. Collagista e cinephile, «segnato da un affascinante snobismo rabbioso» secondo Franco Cordelli. Figlio di un giardiniere, con l’annessione di Fiume alla Jugoslavia e l’esodo del popolo istriano, si trasferisce con la famiglia in Italia, per fermarsi a Roma in una casa che lui stesso felicemente definiva una baracca e dove ha vissuto fino a poco tempo fa.
Vita bizzarra? In fondo «il vivere di Valentino Zeichen» notava Elio Pagliarani «imita Perelà», il protagonista del sorprendente anti-romanzo di Palazzeschi. Ne Il codice di Perelà, al centro c’è un essere semplice e complicato, uno strano omino che passa attraverso la catena degli eventi e alle domande risponde: «Io sono leggero… tanto leggero».
Ma per trovare un terreno da cui partire, per direqualcosa sulla poesia di Zeichen, bisogna tornare al primo libro di poesie del ‘74, anni difficili in cui l’Italia viveva il suo periodo di piombo. Il tono dei versi si dichiara già dal titolo Area di rigore, area in cui Zeichen mette in campo, fondendoli, gravità del tempo e tagliente levità. A proposito di questo primo libro, Stefano Giovanardi scriverà vent’anni dopo riportando l’idea di Pagliarani che indicava in Palazzeschi e in Gozzano gli antecedenti più importanti di quei versi. A quei due nomi, secondo Giovanardi, andava poi aggiunto il nome di Pagliarani stesso. Erano chiare già da quella prima raccolta le componenti fondamentali di un’esperienza poetica che sarà giudicata tra le più antiliriche del secolo: la vocazione ludica, la virata interna verso la prosa e lo straniamento saggistico che rompe il dettato poetico.  «Un Gozzano dopo la Scuola di Francoforte» dice Pagliarani nel presentarlo.
La poetica di Zeichen sta dentro a un «divertimento logico» in cui tutto sta in bilico, qualcosa di «lunatico», sì, qualcosa come una provocazione di sbieco; si muove in questo spazio di Ricreazione, là dove un paravento linguistico ed esistenziale colloca al centro un convinto non prendersi sul serio: niente giochi intellettuali, bensì spiazzamenti della parola, forti come uno scongiuro.
Così sarà nelle Pagine di Gloria, degli anni ’80, in cui Zeichen cala la storia su quel campo di battaglia che è anche il suo. Altra occasione di «gioco», una regressione sul filo del tempo-mondo. O l’erotismo di un aperto Museo Interiore, o in Gibilterra dove la pulsione ludica di Zeichen si fonde con una stralunata meditazione da predicatore o da storico improbabile, con lo sguardo nei millenni: «Quella condizione sublime/ che per gli spagnoli inizia/ con la resa dell’anima a Dio,/ per i darwinisti inglesi comincia sulla terra/ dai lontani primati dell’uomo». Come, appunto in una Metafisica tascabile, pubblicata sul finire del millennio dove entrano universi disparati, poi Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, fino al volume complessivo Poesie 1963-2003.

E ancora in Casa di rieducazione: questo sarebbe la poesia se fosse un luogo? Il libro comincia con un confronto tra case: la casa dove abitava Dario Bellezza e la casa baracca a ridosso della via Flaminia. «Quell’arcobaleno della pace/esposto a balconi e finestre/sventola per l’elevato valore/delle proprietà immobiliari». La necessità di testimoniare il giorno dopo e lo spazio ritagliato ci impongono qui di tacere sui romanzi,  sulla prosa e sui lavori teatrali, scrittura disarmante, disarmata, scettica e vitale, con quella sua ironia ch’è pura e critica modalità di pensiero.  Ma ci sembra di vederlo ancora, Valentino Zeichen mentre cammina coi suoi sandali da francescano. In una intervista a cura di Luigia Sorrentino così risponde a proposito: «Non sono sandali da francescano, prego. Sono sandali con plantare incorporato. Sandali svizzeri… marca Balì».
[Ida Travi 6/07/2016]

lunedì 4 luglio 2016

La notte dimenticata dagli angeli, Natsuo Kirino

Chi si accinge a leggere Natsuo Kirino, regina del noir giapponese e scrittrice popolarissima nel suo paese, deve armarsi di pazienza e soprattutto di fede. La sua non è una di quelle penne capaci di trascinare in poche pagine il lettore. Ha uno stile quasi piatto, a prima vista monotono. Adora i dettagli e li descrive con minuzia. I dialoghi, lunghi, sempre privi di guizzi, hanno essenzialmente la funzione di far progredire la narrazione, quasi mai quella di mettere in luce la psiche dei personaggi o di rivelarne qualcosa in più. Però, se si va avanti nella lettura, si scopre come proprio questo stile che rifiuta ogni tentativo di brillare, che procede lento e inesorabile a mo’ di una macina, sia in realtà avviluppante. Natsuo avvolge poco a poco il lettore e lo trasporta, senza quasi permettergli di accorgersene, nel suo torbido universo, fino a che non ci trova completamente immerso.
Il nome vero della autrice, nata nel 1951, è Mariko Hashioka, ma tutti i ventiquattro romanzi e le quattro raccolte di racconti sono stati firmati con lo pseudonimo di Natsuo Kirino. Il suo modello di noir è in superficie molto fedele all’hard-boiled classico, soprattutto nei romanzi che hanno per protagonista fissa l’investigatrice Murano Miro, ma sotto pelle è traversato da temi più eclettici e da cifre stilistiche molto meno tradizionali di quanto non appaia a prima vista. Ancora più dei maestri americani, l’autrice giapponese mira a raccontare la realtà sociale del suo paese, in particolare nei suoi aspetti più nascosti, dall’underworld criminale alla condizione delle sue fasce più povere. Ma lo fa sempre da un punto di vista femminile, facendo delle donne non solo le protagoniste ma anche il vero motivo portante e fisso della sua narrativa. Sono le donne il vero oggetto d’indagine di Natsuo Kirino, femminista libera da qualsiasi tentazione agiografica o retorica: Natsuo racconta, descrive e indaga le donne del suo paese nelle relazioni tra loro e con gli uomini, nelle pieghe inconfessate della loro sessualità, nelle debolezze che si prestano a essere sfruttate dai maschi, nella morbosità dei rapporti con le famiglie.
La formula «femminismo noir», adoperata spesso per indicare la sua narrativa, non va intesa solo come allusione a un genere, perché proprio le zone d’ombra della femminilità sono il suo campo, e gli stessi personaggi maschili sono usati sempre in funzione del medesimo scopo: servono a mettere più nitidamente a fuoco le aree più intime e spesso oscure della femminilità.

Famosissima in Giappone già dagli anni novanta, Natsuo è diventata un caso internazionale dopo la traduzione in inglese del suo libro certamente più celebre, intitolato nella traduzione italiana Le quattro casalinghe di Tokio e negli Stati Uniti è diventato una specie di classico moderno, Out, il romanzo che sintetizza meglio il mondo e lo stile narrativo della scrittrice. Parla di quattro comunissime, e comunemente maltrattate, donne di mezza età una della quali osa farsi giustizia uccidendo il marito persecutore. Le altre si trovano a dover decidere se aiutarla a farla franca, diventando così a tutti gli effetti complici ma anche muovendo un passo sulla strada della loro stessa liberazione. In questo modo, Natsuo costringe i lettori e soprattutto le lettrici a immedesimarsi nei personaggi, interrogandosi sul come reagirebbero nella stessa situazione.
Questa sua cifra narrativa torna anche nel ciclo più fedele al canone dell’hard-boiled classico, costituito sinora da quattro romanzi e un racconto con protagonista l’investigatrice Murano Miro. La private-eye di Tokyo è comparsa per la prima volta nel romanzo d’esordio che nel 1993 ha lanciato la scrittrice in Giappone, Pioggia sul viso. Il secondo romanzo con la detective, uscito nel 1994 ma pubblicato solo ora in Italia da Neri Pozza, che sta traducendo l’intera opera di Natsuo, è La notte dimenticata dagli angeli (traduzione dal giapponese di Gianluca Coci, pp. 442, euro 18.00).
Murano Miro – il cognome prima del nome secondo l’uso giapponese – ha trentadue anni, un padre a sua volta ex investigatore tanto cool quanto è trasandata la figlia. A modo suo è un personaggio estremamente marlowiano: sola, povera, fondamentalmente sentimentale. Ma Miro è una donna piena di bisogni affettivi e si muove nella Tokyo di fine secolo, non nella Los Angeles degli anni quaranta: dell’aura romantica che circondava il detective di Chandler in questa epigona del Sol Levante resta ben poco.
Miro viene incaricata da una strana e matura femminista, impegnata in una personale crociata per garantire diritti sindacali alle attrici di film porno, di rintracciare la protagonista di una scena di stupro tanto realistica da destare il fondato sospetto che non si tratti solo di recitazione. L’obiettivo della femminista è sollevare un clamoroso caso mediatico. La storia, va da sé, si rivela presto molto più complicata e pericolosa. Rinvia alla morte sospetta di una rockstar in disuso degli anni settanta, poi a un secondo video nel quale la stuprata in questione sembra aver filmato il proprio suicidio, senza contare le organizzazioni più o meno legate alla Yakuza che col porno fanno miliardi. Anzi ne facevano.
Dal punto di vista del plot, infatti, il romanzo di Natsuo è irrimediabilmente datato: troppo recente per essere d’epoca, troppo vicino per non apparire vecchio. Ora che l’industria del porno è stata sgominata dalla rete e dalla miriade di coppie che se la godono a spedire gratis filmati homemade sempre più estremi, fa una certa impressione ricordare come appena due decenni fa fosse invece un’industria fiorente. Allo stesso modo, buona parte delle faticose ricerche che occupano le giornate della detective verrebbero sbrigate oggi in pochi minuti, tanto che il lettore odiremno si ritrova a pensare: «ma perché non usa Internet?», dimenticando che in quegli anni non troppo lontani la Rete non c’era.
Nulla di datato, invece, nella storia profonda che Natsuo racconta. Una vicenda di cui sono protagoniste le donne, e in cui gli uomini, anche quando sembrano figure di primo piano, restano sullo sfondo: sono oggetti del desiderio femminile, oppure soggetti di uno sfruttamento a volte brutale ed esplicito, altre volte subdolo e strisciante, ma nella sostanza identico. L’indagine di Miro riguarda non tanto le donne in genere ma le donne giapponesi, colte in uno specifico momento storico e nel quadro di un ambiente come quello del mercato del sesso, che porta immediatamente in superficie pulsioni e ossessioni di solito dissimulate o nascoste.
La notte dimenticata dagli angeli è anche una storia di figlie in cerca di madri e di madri che non sanno o non vogliono accettare quel ruolo; è una vicenda di amanti che non trovano negli uomini ciò di cui hanno disperatamente bisogno, ma che in questa ricerca scoprono il fianco e si espongono a essere usate e adoperate come strumenti. Capita anche a Miro.
Natsuo opera infatti una torsione poco appariscente ma radicale nella struttura della detective story. Di solito l’investigatore, poco importa se privato o in divisa, rimane sempre «esterno» rispetto alla trama sulla quale indaga. Se rischia la pelle, è perché si avvicina troppo alla verità, ma molto raramente diventa a sua volta una pedina su quella scacchiera, allo stesso tempo occhio esterno che osserva la matassa ma anche uno dei fili che la compongono e la imbrogliano. Del resto, nulla di diverso potrebbe accadere in un romanzo di Natsuo Kirino, che proietta nell’occhio di Miro il suo proprio sguardo sulle donne giapponesi, dalle quali trae il principale tra i modelli che le permettono di raccontare la vita dei suoi personaggi.
[Andrea Colombo 3/07/2016]

domenica 3 luglio 2016

Vento & Flipper, Haruki Murakami

Nel segno della pecora si chiudeva con una richiesta dell’io narrante al barista cinese Jay: «vorrei che ci mettessi un jukebox e un flipper, qui». Era il 1982 e Murakami Haruki era al suo terzo romanzo. Il protagonista, dopo svariate peripezie, aveva offerto a Jay un utile cospicuo quanto «illecito» guadagnato insieme al Sorcio, con la proposta di amministrare il bar con una società a tre solo di nome, «senza dividendi né percentuali». Unici desideri il jukebox e il flipper. Queste scintillanti e sonore macchine di svago avevano accompagnato le numerose birre del protagonista e del Sorcio, che si erano conosciuti, ventenni, proprio nella prima sede del bar di Jay – un seminterrato. Policromie e sonorità del jukebox e del flipper, col loro portato giovanile, evocativo e nostalgico – epocale, diremmo –, arrivavano direttamente dai primi due romanzi di Murakami: Ascolta la canzone del vento del 1979 e Flipper, 1973 del 1980, prime due tavole del trittico chiuso dal più lungo e articolato Nel segno della pecora. I due co-protagonisti erano gli stessi: la voce narrante, di cui non conosciamo il nome, e il Sorcio. Erano però più giovani e nel pieno della loro educazione alla vita – solo in parte sentimentale –, ciascuno impegnato, quanto possibile, a tentare di conoscere se stesso, a presentire un avvenire dai contorni incerti, a chiedersi cosa resta dopo la cremazione – forse «nemmeno un osso» –, a trasformare il tempo vivo (ma è mai vivo davvero?) in tempo morto. Quello, appunto, che nell’«angolo in penombra in fondo al bar» si può ammazzare «giocando a flipper – un rottame che in cambio di un certo numero di monete ti offriva tempo morto». Il loro bar preferito era quello di Jay, rilassato e saggio, paziente ascoltatore dei suoi clienti, infaticabile nel pelare patate da friggere.
Giungere ad Ascolta la canzone del vento e a Flipper, 1973 muovendo da Nel segno della pecora ci è imposto dalla storia editoriale dei romanzi, almeno da quella fuori del Giappone. Da noi, come nel resto del mondo, la trilogia è stata inaugurata dall’ultimo testo: per anni Murakami non ha voluto che i suoi romanzi aurorali, quelli in cui aveva fatto le prime prove di una scrittura allora sorprendente, non apparentabile ad altro stile giapponese, fossero tradotti. Nella versione di Antonietta Pastore, che da tempo si alterna a Giorgio Amitrano nelle traduzioni italiane dello scrittore di Kyoto, il dittico delle origini appare adesso in unico volume, Vento & Flipper (Einaudi «Supercoralli», pp. 229, euro 19,50). L’occasione è attraente per gli estimatori più appassionati e fedeli, ma è interessante per tutti, anche per chi ha parlato di postmodernismo, per chi ha discusso, a volte con disappunto, le inversioni di stile di Murakami che, dopo quegli inizi originali e spiazzanti, con Norwegian Wood, nel 1987, si è messo alla prova del realismo: ha per un po’ abbandonato romanzi dagli immaginosi sconfinamenti surreali, per sperimentare una trama dalle connotazioni introspettive, emozionali.
Se gli albori di uno scrittore celebrato e di solida carriera offrono materia preziosa, questa edizione, in particolare, è arricchita da un’introduzione d’autore, «Romanzi nati sul tavolo della cucina», tanto preziosa quanto piana e garbata, com’è usuale nelle dichiarazioni di poetica fatte da Murakami – anch’esse, sovente, brevi narrazioni. Questa premessa mette sulla buona strada: la decisione di scrivere nasce da una sorta di epifania sportiva – si pensi alla disciplina, al senso del corpo e delle sue potenzialità nell’Arte di correre –, da una felice battuta della squadra di baseball per cui tifava; il primo risultato, «scadente» e pieno di «preconcetti su come dev’essere la letteratura», viene cestinato, il secondo, intrapreso in inglese e poi tradotto in giapponese, è quello che rivela a Murakami il suo stile nuovo. Tanto era saturo delle parole e delle espressioni giapponesi, da aver scelto l’inglese, avendo a disposizione «vocabolario limitato» e «capacità modestissima». Proprio nello sforzo di rendersi chiaro in una lingua non materna, nell’occorrenza di scrivere periodi brevi, limpidi ma anche «rozzi», Murakami ha sentito nascere il ritmo che gli era «congeniale», e l’ha poi trasposto in giapponese. Un percorso che l’autore accosta a quello compiuto da Agota Kristof, che, ungherese esule in Svizzera, aveva trovato il suo stile scrivendo in francese.
La riflessione consustanziale al primo romanzo, Ascolta la canzone del vento, è quella che investe la scrittura – che cosa significhi essere scrittore, di cosa si debba o meno parlare –: il romanzo ha tratti di Bildung, come li ha Flipper, 1973, del resto, ma si apre con una dichiarazione emblematica: «Non esiste la scrittura perfetta, così come non esiste una perfetta disperazione». E prosegue con affermazioni ampiamente condivisibili: «scrivere non è assolutamente un mezzo per salvarsi, è solo un modestissimo tentativo»; «scrivere è un lavoro durissimo». Il Sorcio, d’altro canto, scrive più di un romanzo, tutti senza scene di sesso e di morte: «tanto si sa che gli uomini vanno a letto con le donne, e muoiono. Quindi che bisogno c’è di ricordaglielo con un libro?». Figura di riferimento della voce narrante è un fittizio scrittore dei primi del Novecento, David Heartfield, bislacco ma acuto, solitario e dall’edipo irrisolto, cui si devono altre asserzioni capitali: «Scrivere significa riconoscere la distanza tra noi stessi e le cose che ci circondano. Non è di sensibilità che abbiamo bisogno, ma di un righello». A ben vedere Murakami sembra usare entrambi in pari misura: sensibilità e righello, con l’aggiunta di ottime colonne sonore – si ascoltino tutte le tracce musicali e le loro posizioni nella storia –, con qualche dose di ironia e un po’ di gusto per la sorpresa, per lo sfasamento dei piani, siano temporali, spaziali, narratologici (ottime faglie strutturali la diretta di un’emissione radiofonica).
La sensibilità appare nelle descrizioni della natura – alberi, brezza sottile, mare, odori, abbandonate case di pescatori, piume di pampas, luna autunnale, brusio d’insetti sull’erba – e nella discrezione con cui sono delineati i rapporti interpersonali: le gemelle indistinguibili dolcissime e premurose che vogliono celebrare il funerale al quadro di comando delle linee telefoniche, il ricordo di una ragazza morta suicida nel bosco, lo sguardo fisso che il Sorcio tiene sull’orologio nelle ore in cui decide di non telefonare alla donna che desidera, il tono con cui Jay parla del suo gatto disabile.
Il righello, la distanza dalle cose del mondo, appare nei medesimi luoghi, ma soprattutto nelle svariate soluzioni metaforiche e nelle similitudini, numerosissime e puntuali, illuminanti, che allacciano cose tra loro lontane: per Murakami misurare è anche e soprattutto collegare, mettere in relazione e far così scaturire il nuovo. Sondare con i sensi sull’avviso: «se volessimo fare uno sforzo potremmo trarre lezione da qualsiasi cosa». Capire che «la morte a poco a poco mette radici». Non negare che «ci sono pozzi profondi nel nostro animo. E sopra quei pozzi gli uccelli volano avanti e indietro».
Di questi romanzi brevi il jukebox e il flipper non sono soltanto la campitura percettiva, sono anche attanti, piene figure narrative: memorabili per freschezza e angoscia le potenti pagine dedicate al magazzino con settantotto flipper perfettamente allineati come «salme», come «silenzi». Lì, impregnati dall’odore di polli morti, in un gelo asfittico e malato, i flipper sono un cimitero di «vecchi, vecchissimi sogni»: i disegni sbiaditi, le luci ancora sgargianti.
[Cecilia Bello Minciacchi 3/07/2016]

libri per l'estate

Carissim*,
prima di lasciarvi in pace a godervi le vostre vacanze, vi ricordo quali saranno i libri di cui parleremo a partire dall'autunno:
- Serena Vitali, IL DEFUNTO ODIAVA I PETTEGOLEZZI
- John Williams, STONER 
- UNA PAROLA: STUPORE
- SERATA CERVANTES (abbiamo dedicato una giornata a Shakespeare, ci sembra doveroso celebrare, almeno in una serata, anche questo anniversario): ognuno propone un      passo, un ricordo, un'esperienza legata a Cervantes.
- vorremmo dedicare anche un po' di attenzione alla POESIA: qualche idea?
Con questo materiale arriviamo all'anno nuovo: proposte per il 2017?
Fatemi sapere.
A presto e BUONE VACANZE!
Silvia

sabato 2 luglio 2016

Essenzialmente corpi

Non dovremmo meravigliarci se gli uomini uccidono le donne. Finché sono identificate (e nell’immaginario dominante lo sono tuttora) con la sessualità e la maternità, considerate dall’uomo doti femminile «al suo servizio», o a lui finalizzate, è scontato che esploda la possessività nel momento in cui le donne decidono (separandosi) di non essere più quel corpo a disposizione.
È questa idea della donna, posta a fondamento della nostra, così come di tutte le civiltà finora conosciute, che va scalzata in modo radicale, dalla cultura alta, come dal senso comune, e da quella rappresentazione di sé e del mondo forzatamente fatta propria anche dal sesso femminile. È sulla «normalità», dentro cui la violenza è meno visibile, ma per questo più insidiosa, che va portata l’attenzione. Di che altro parlano i pensatori che ancora fanno testo nelle nostre scuole?
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini: «La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. È necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole».
Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Oggi si parla molto di «educazione di genere», ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di «genere», appartenenza a un gruppo pensato come un tutto coeso – è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.
Ne è un esempio l’analisi di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma, 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e «competenze» di «genere», sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della «mobilità» e della «staticità», che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come «reminiscenze», «modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali». Se il «fare sociale», che è dell’uomo, comporta «l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista», quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al «desiderio di essere bella e di piacere», ma soprattutto alla «capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio», capacità che fa della donna una «compagna comprensiva e una madre sicura di sé».
Rendersi indispensabili, «far trovare buona la vita all’altro» è stato a lungo il modo alienante con cui le donne hanno cercato di riempire il vuoto apertosi all’origine nell’amore di sé.
Nell’illusione di «foggiare se stesse» hanno impegnato tutte le loro energie nello sforzo di aiutare l’altro a divenire se stesso.
La dedica che Andrè Gorz scrive nel libro dedicato alla moglie, Lettera a D. Storia di un amore, dice: «A te, Kay che, dandomi te, mi hai dato Io». Per capire quanto sia profonda la convinzione che il dovere della donna sia di rendere buona la vita all’uomo, basta leggere i giudizi che due uomini illustri, Benedetto Croce ed Emilio Cecchi, danno di Sibilla Aleramo. «Non faccio il moralista a buon mercato; e intendo e scuso perfino – dice Croce – il fallo commesso nell’impeto della giovinezza sensuale e fantastica, quando avete abbandonato vostro marito e vostro figlio (…) Comunque il fatto era fatto; e voi avevate avuto un’ottima occasione per formarvi una nuova vita; quando stavate col Cena. Ma voi volevate amare il Cena, quando il vostro dovere era invece di aiutarlo e sacrificarvi a lui». E Cecchi: «Nessuna servitù materna, o dono incondizionato, che la faccia rivivere nell’altro, negandola. Non ha bisogno che di sé». Ma quanto è estesa la maternità delle donne se, oltre a bambini, malati, anziani sono chiamate a curare, sostenere psicologicamente e moralmente uomini in perfetta salute? Come si può pensare che questo corpo femminile presente nella vita dell’uomo dalla nascita alla tomba, passando per la la scuola, l’assistenza nelle malattie, cioè attraverso i bisogni primari dell’umano, non alimenti, più o meno consapevolmente pulsioni di fuga, aggressività, fantasie omicide, in chi ne teme la stretta quanto l’abbandono?
[Lea Melandri 2/07/2016]

venerdì 1 luglio 2016

La vita sessuale dei nostri antenati, Bianca Pitzorno

Da bambina Bianca Pitzorno doveva sopportare che in casa tutti leggessero, mentre lei non sapeva da dove cominciare. L’oggetto libro sprigionava un fascino denso di promesse. Le venne una specie di smania per la lettura (narrata in Storie delle mie storie), un’ossessione che le costò cara. «Mi dissero che a scuola avrei imparato a leggere e a scrivere – racconta Pitzorno – Ero così stupida da essere convinta che mi avrebbero insegnato a scrivere libri. In prima elementare sono rimasta così delusa che mi sono fatta bocciare. Sono stata una delle poche ragazzine borghesi, di buona famiglia e buone finanze, che ha ripetuto la prima classe. Accadeva solo agli alunni poveri, loro venivano mazziati e respinti. Io, invece, ero la figlia del dottore. Però mi ero ribellata, non m’importava niente di fare le aste né di copiare frasi prive di senso, tipo ’il sole splende, gli uccellini cinguettano’. Io volevo scrivere direttamente i libri».
Ride Bianca Pitzorno nel ricordare quell’inciampo scolastico, che poi, in fondo, non fu altro che un momento di libertà che si era concessa, sfuggendo alle regole. La scrittrice di Sassari, autrice amatissima, soprattutto dalle bambine, per le tante avventure create con i suoi romanzi, sarà ospite al festival «L’isola delle storie» di Gavoi, in Sardegna, in due puntate: oggi presenterà il suo ultimo libro per adulti La vita sessuale dei nostri antenati (uscito nel 2015 per Mondadori), mentre sabato sarà protagonista dei dialoghi alla finestra, intervistando la regista e scrittrice Cristina Comencini (Essere vivi, Einaudi). «Mi interessa molto il discorso dei due linguaggi. Lei è nel cinema e scrive romanzi. Io ho lavorato sette anni alla Rai e sono dovuta scappare: sono una persona solitaria, che ama il silenzio. Nello studio tv, già solo i tecnici erano una legione e per realizzare un programma bisognava andare d’accordo con un gruppo di trenta/quaranta persone. Non ho retto. Avevo l’alternativa della scrittura in solitudine, in biblioteca e a casa mia, con la vecchia macchina da scrivere. Ho scelto quella strada. Sono curiosa ora di sapere come Cristina Comencini riesca a passare dalla scrittura solitaria alla bolgia della troupe, che oltretutto deve dirigere».
La sua decisione, dopo decenni di scrittura per ragazzi, di rivolgersi adulti ha toccato un tema particolare: il rapporto di differenti generazioni di donne con il corpo e il desiderio. Come mai è partita proprio da lì?
In Sardegna lo sanno tutti, fuori di meno: già nel 1984 io scrivevo per adulti e, soprattutto, avevo pubblicato una biografia di Eleonora d’Arborea, la nostra eroina più grande. Eleonora d’Arborea, nella seconda metà del Trecento, fra le altre cose per cui è lodata e ammirata – ahimé – dai sardi separatisti, ha redatto un codice di leggi modernissimo per quel che riguarda la condizione femminile dell’epoca. Per esempio, una donna poteva ereditare come i maschi e la sua testimonianza valere quanto quella degli uomini. Poi c’è la questione dello stupro: per Eleonora d’Arborea era un reato contro lo Stato. Lo stupratore doveva pagare un’enorme multa allo Stato e poi indennizzare la donna, non sposandola, ma procurandole un marito che piacesse a lei e dotandola adeguatamente. Da gran frequentatrice di archivi, notai un altro dettaglio: suo nonno aveva lasciato un testamento nel quale aveva destinato un tot di fiorini alle figlie minori che, secondo la tradizione, si sarebbero fatte suore: se però avessero desiderato vivere in altro modo, avrebbero potuto usare quei soldi per ciò che volevano. Il maschio di casa si era interessato alla felicità della donna. Il testamento è stato studiato da moltissimi storici, ma queste tre righe nessuno le aveva mai commentate. Mi vergogno a dire che le ho scoperte io, però sono stata la prima a parlarne in pubblico. E non mi meraviglio che la nipote Eleonora, nel suo codice di leggi, abbia scritto che lo stupratore debba trovare un marito che piaccia alla donna.
Per tornare al libro La vita sessuale dei nostri antenati, questo seme lo coltivavo da molti anni, anche quando scrivevo per i più giovani. Le due città di Donora e Ordalè sono immaginarie, ma sono l’emblema della cittadina di provincia mediterranea, che potrebbe trovarsi in Sardegna ma anche in Puglia (non in Sicilia perché la dominazione araba ha lasciato altri costumi, soprattutto per quel che riguarda le donne). Ed è proprio il pregiudizio della provincia al centro di tutte le preoccupazioni delle antenate di Ada, la protagonista. Il rapporto con il sesso era stato un problema della mia generazione, ma anche di quella di mia madre, nonna e bisnonna. Sono nata prima del ’68, quando c’era ancora la legge Merlin sulle casa chiuse e la verginità era una cosa fondamentale. Ho voluto raccontare la nostra vita, le nostre difficoltà, conquiste e lotte. Mentre buttavo giù la storia di Ada, mi è capitato fra le mani, per caso, l’albero genealogico di una famiglia che risaliva al Cinquecento. Mi ha sbalordito l’enorme quantità di figli che metteva al mondo ognuna di queste signore. Essendo un albero genealogico, raccontava di persone che lasciavano traccia di sé, quindi non famiglie di poveri contadini. Eppure, la media di figli era undici a testa, fino ad arrivare a ventitré/centiquattro. Mia nonna, quando parlava delle sue antenate non accettava che noi facessimo allusioni alla loro vita sessuale. Anche di se stessa diceva che era castissima e sublime. Le donne attrezzate per il sesso erano «perdute», le altre – quelle perbene- chiudevano gli occhi e pensavano di essere altrove. Il discorso del piacere e desiderio non esisteva. Allora mi sono detta: «Non posso parlare alle nuove generazioni facendo un confronto soltanto con quello che è stato per me: guadagnare il proprio piacere, il proprio desiderio e la propria libertà. Devono anche poter vedere l’abisso che c’è stato dietro di noi, nel senso di una lunghissima strada al contrario. Sapere cosa hanno dovuto passare le donne della nostra civiltà (senza parlare di quelle asiatiche e arabe).
 Sia nelle narrazioni per adulti che in quelle per i più piccoli, il suo filo conduttore è un’idea di romanzo di formazione tutto al femminile…
Si dice che scrittrici e scrittori propongano sempre lo stesso romanzo. Un po’ è inevitabile: la wetalschauung che ha ispirato la loro vita è quella. È vero, se uno legge tutti i miei libri, per grandi o piccoli, la protagonista è sempre femminile e si trova a dover affrontare problemi che riguardano il suo ruolo di donna nella società e, in qualche modo, affrontarlo o subirlo, a seconda delle storie. Devo confessare che tante volte mi capita di leggere libri, soprattutto di autrici italiane più o meno contemporanee, nei quali non mi riconosco assolutamente. Non mi riconosco in quei problemi, soluzioni, rabbie. E non è solo a causa della mia esperienza personale. Ho frequentato la scuola in classi femminili e non me ne lamento. Ho sempre mantenuto rapporti stretti con le mie compagne: ho ancora le amiche del liceo, nonostante io sia andata a abitare altrove e abbia avuto una vita completamente diversa dalla loro. Ora ho 74 di anni e siamo ancora delle ribalde ragazze sovversive. Tutte quante. Sarà stata la città dove siamo cresciute, sarà stato l’ambiente borghese e illuminato in cui ci hanno educate, ma noi non abbiamo mai piagnucolato e pigolato. Ci siamo sempre rimboccate le maniche, abbiamo protestato, avute le nostre devianze, ciascuna individualmente e in maniera differente, però pochissime hanno accettato un ruolo dato per scontato. Non ho un’amica che abbia un matrimonio e dei rapporti «normali» con i figli, come leggo in certi romanzi che sembrano fornire un ritratto, uno spaccato di quella che è la condizione femminile delle donne oggi. Appartengo a una tribù un po’ anomala, forse.

In effetti, le sue protagoniste letterarie sono sempre state portatrici di grande libertà individuale, a ogni costo…
Nei miei romanzi per ragazzi, si può trovare un’amazzone contemporanea di Alessandro Magno, così come una bambina col falcone nel Medioevo. Le donne hanno avuto sempre problemi di inserimento nella società e quelle di carattere più forte non hanno accolto il ruolo subalterno supinamente. Non so se sia mai veramente esistito un matriarcato, me lo auguro, ma nella storia che conosco io le donne sono state sottomesse. Qualcuna ha accettato di esserlo, altre si sono ribellate. Nei miei libri, racconto di quest’ultime. Ne «La vita sessuale dei nostri antenati», ma anche in molti altri suoi libri, lei si diverte a fare sciarade letterarie, gioca con le parole e le citazioni. Fa parte del suo piacere di scrivere?
Un libro abbastanza tipico mio è Parlare a vanvera, costruito con racconti umoristici e finte etimologie, che io narro «alla maniera di». «Rompere gli indugi» per esempio: indugi sono delle statuette di indù che sono classificate in un museo come «indù a, b, c, indù g», mi rifaccio ad Agatha Christie, o anche a Sherlock Holmes, comunque all’indagine inglese. Oppure, «scendere a patti», qui c’è Vittorini; o ancora, per «fare filare» mi richiamo ai romanzi medievali come Beowulf. Faccio sempre delle allusioni: nella Stoffa del campione mi ispiro a Boccaccio. Sono laureata in lettere classiche. Anche se ho fatto tutt’altro nella vita e non mi sono guadagnata il pane con quegli studi, resta la mia formazione fondamentale, la conoscenza della letteratura dall’antichità a oggi. Quando scrivo, inevitabilmente attingo a ciò che ho letto. Non sarei mai diventata una scrittrice se prima non fossi stata una lettrice onnivora e insaziabile.
Tornerà a scrivere per le lettrici e i lettori più giovani?
Ho smesso di scrivere per ragazzi nel 2000: l’ultimo è Tornatràs. Sono passati sedici anni, sono anziana, non frequento più bambini, non sono nonna. Ho scritto per loro quando la mia generazione si è riprodotta. Avevo intorno i figli dei miei amici, che frequentavo non professionalmente, non mi sono mai ispirata a scolaresche, ma parlavo singolarmente con ogni bambino. Non frequentandoli più, non voglio inventarmi niente. Soprattutto, non mi piace l’indirizzo che ha preso la letteratura per l’infanzia che fa dei predicozzi, delle narrazioni per mascherare i saggi. I ragazzi capiscono benissimo la saggistica e un ragionamento: per affrontare la Costituzione, non c’è bisogno di mettere in scena una famiglia. Né per parlare di mafia, di far innamorare la figlia del giudice e il rampollo del mafioso. Oltretutto, si raccontano un sacco di bugie: non è vero che l’amore risolve tutto. E un bambino coraggioso non può sconfiggere la mafia, semplicemente perché lo ammazzano.
È vero che lei disegna e ha illustrato suoi libri?
Da giovane, sognavo di iscrivermi all’Accademia per diventare pittrice. Non mi è stato consentito perché ai miei tempi le ragazze che ci andavano erano considerate delle poco di buono. Ho continuato sempre a disegnare da dilettante, ho pure frequentato Brera a Milano, di sera mentre lavoravo. Non ho imparato nulla e ho smesso. Ho illustrato La voce segreta per amore della mia direttrice editoriale Margherita Forestan che me lo chiese rendendo furibondo il grafico della Mondadori. Ai bambini comunque erano piaciuti quei disegni, riconoscevano i personaggi. Poi, Forestan ha cominciato a fare illustrare i miei romanzi da Quentin Blake: non avrei mai potuto desiderare di più.

L'Isola delle storie - Gavoi