domenica 5 giugno 2016

Jack deve morire, Joyce Carol Oates

Abbiamo posto a Joyce Carol Oates alcune domande sul romanzo appena tradotto dal Saggiatore.
In Jack deve morire lei pone un’epigrafe tratta da «Il genio della perversione» di E. A. Poe sull’istinto innato nell’uomo a compiere il male. Per Poe è un impulso autodistruttivo, e così è infatti anche nella storia di Jack of Spades, protagonista/ombra di questo romanzo. Tuttavia, lei ha più spesso mostrato come le nostre azioni siano plasmate soprattutto dall’ambiente e dai tempi in cui viviamo. Non le pare che questi due punti di vista siano conflittuali?
Le nostre personalità sembrano essere plasmate da un’eredità genetica e dai modi in cui essa reagisce a un ambiente che include insegnanti, genitori e altri influenti modelli di comportamento. Le opere di suspense psicologica vanno considerate come parabole – o sogni – piuttosto che come romanzi realistici da mainstream. Questi ultimi hanno la capacità di allestire un affresco sociale più ampio, mettendo in gioco molti più «fattori contributivi» di quanto non sia invece possibile quando si rappresenta lo spazio della nuda psiche. In Jack deve morire a un certo punto l’«io sociale» del protagonista inizia a disintegrarsi e un «io» sino ad allora negato, o sepolto, emerge.
Nei suoi libri, sia quelli «realistici» sia gli altri nella vena dell’«horror gotico», lei ha insistentemente cercato un confronto con ciò che ha definito «Darkest America», esponendo gli aspetti più inquietanti dell’American way of life: dal razzismo alla violenza agli eccessi del potere politico e del potere maschile. Non crede che ci sia anche un fondo storico originario responsabile – almeno in parte – della persistenza di questa voce «oscura» nel tessuto ideologico e sociale degli Stati Uniti?
Gli antichi greci e romani capirono che la vita è calibrata dalla violenza – guerre e guerrieri (incluse le Amazzoni) – e la nostra visione della Storia è stata quella di un catalogo di guerre e di ascese e cadute di civiltà. Gli Stati Uniti rappresentano solo una società, e neanche una «civiltà» speciale. Possiamo aver ereditato una propensione verso il «nero» – la blackness – ma non l’abbiamo inventata noi. La cosiddetta maledizione degli Stati Uniti sembra essere stata tanto la schiavitù quanto i rapporti da genocidio fra invasori e Nativi che – qualcuno sostiene – continuano ancora oggi.
Può esprimersi sull’escalation della violenza «domestica» nel suo paese? Pensa che le cause (nuova povertà, contagio xenofobo) e le sue forme di manifestazione siano diverse oggi in ragione del ruolo invadente dei media e dei network nella vita sociale?
La violenza domestica non è certo aumentata negli Stati Uniti, semplicemente se ne parla di più. In gran parte della mia narrativa lo sguardo si rivolge a un’America più vecchia – un’epoca antecedente ai media sociali e a una consapevolezza più matura dei diritti di donne e ragazze.
Secondo lei la crisi della famiglia può essere considerata uno dei fattori più squilibranti della vita americana del secondo Novecento?
Non è proprio così chiaro se la «famiglia» in se stessa si sia deteriorata, ma certamente si è deteriorata la vecchia idea di nucleo famigliare ristretto, costituito da padre, madre e figli. Da decenni le famiglie vanno subendo processi di trasformazione; ci può essere una «famiglia» ovunque ci sia amore e dedizione e una casa incentrata su una qualche sorta di unità finanziaria e affettiva. I nostri antenati vivevano in grandi famiglie ramificate. Forse questa è la famiglia ideale e non la famiglia nucleare, più piccola e costrittiva, da cui, per esempio, il protagonista di Jack deve morire salta fuori esplodendo, come se quei vincoli normativi si fossero rivelati intollerabili al suo io a lungo represso, un io abietto e primitivo.
A proposito di doppio «io» e dello pseudonimo «Jack of Spades», qual è la relazione tra Joyce Carol Oates e Rosamond Smith, o Lauren Kelly, il suo secondo pseudonimo?
Mi piacerebbe continuare a scrivere e firmare racconti e romanzi con pseudonimi, ma pubblicare nel nostro tempo è un po’ diverso dal passato. Molto poco può restare segreto – dobbiamo registrare il nostro copyright presso la Library of Congress, come in effetti risulta poi nei libri, e verrebbe presto fuori la vera identità dell’autore.
Ci sono molte allusioni a opere letterarie (e thriller cinematografici) nel romanzo. Si potrebbe dire che sia quasi un piccolo vademecum al genere «horror»: mi sembra che, oltre a offrirsi come una storia di per sé avvincente, esso voglia proporsi come un «omaggio» a grandi scrittori e allo stesso tempo una critica dell’industria editoriale. Io vi ho visto anche una vena un po’ parodistica, quasi da sberleffo, da lei gestita in modo magistralmente serio. È così?
Sì.Jack deve morire è un omaggio a grandi scrittori e a un contemporaneo: Stephen King. È anche una critica del genere horror, dei suoi assunti di base su arte ed estetica e la natura sacrificale delle trame imbastite. Ha una vena parodistica, ciò che avevo sperato avrebbe colpito il lettore come blackly comic, blackly ironic.
«W. C. Haider», il nome della vittima, allude a qualcosa o a qualcuno in particolare?
«Haider»/«hater»: chi odia.
Nelle ultime pagine lei scrive: «Per distruggere il male dobbiamo distruggere l’essere in cui il male dimora, anche se quell’essere siamo noi». L’aforisma è molto chiaro e terribile. Intendeva rivolgersi a qualcosa di più generale? Un qualche messaggio per il mondo in cui viviamo? O per gli Stati Uniti nelle loro attuali aspettative politiche?
È un pensiero del protagonista che, profondamente pentito e sofferente, non vuole commettere il male un’altra volta. Al di là di questo, non posso fare altri commenti.
Quali dei suoi numerosi romanzi le sono particolarmente cari?
Blonde (2000), che è la mia «epica tragica» più provocatoria e a vasto raggio… Quelli (1969), un altro tipo di epica… La figlia dello straniero (2007), Il maledetto (’13), A Widow’s Story (’11), The Lost Landscape: A Writer’s Coming of Age (’15).
Qual è la sua relazione con Twitter? Non c’è dubbio che sia un fenomeno sociale e al contempo un nuovo modo di interazione politica e globale. Ma quanto è affidabile Twitter nel sondare o plasmare l’opinione pubblica? Non crede che vi siano anche rischi e pericoli in questa forma di comunicazione, e nella spettacolarizzazione che talvolta ostenta?
Twitter è un modo di raggiungere un’audience ampia – anche se invisibile – per discutere di molte cose: libri nuovi, film, mostre d’arte, idee, problematiche politiche e sociali, problematiche femminili, i diritti degli animali, fatti personali/memorie – non può continuare all’infinito, ma è una variante eccitante ed eterogenea di ciò che potrebbe essere un’opera più lunga ed elaborata. Per esempio, invece di organizzarmi nella scrittura di un saggio per una rivista, posso semplicemente distillare i miei pensieri sul tema in questione in un singolo tweet, o una sequenza di tweet. Molto, o la gran parte, di Twitter ha vita effimera, ma la stessa cosa vale per quanto si scrive su un giornale o una rivista. Siccome la mia audience non ha l’ampiezza di altri utenti di Twitter nel campo della politica e della cultura, non credo che quello che mi càpita di dire abbia un’importanza eccezionale, ma forse è meglio così!
[Caterina Ricciardi da "il Manifesto" del 5/05/2016]

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