mercoledì 29 giugno 2016

La vedova Fiona Barton

Che una scrittrice esordisca sulla soglia dei sessant’anni è poco consueto, ma se poi l’opera prima viene acquistata a scatola chiusa in una trentina di Paesi è ovvio che diventi un caso letterario. Non che Fiona Barton fosse proprio alle prime armi con la penna. In Uk è una giornalista celebre, con alle spalle una lunga e fortunata carriera. Il romanzo che con cui ha spopolato nelle pagine culturali e in libreria, La vedova (Stile libero Einaudi, pp. 372, euro 18.50), è la risposta a una domanda che le era venuta spesso in mente seguendo i casi di nera su e giù per il Regno unito: cosa sapessero, o volessero sapere, le mogli di uomini accusati di delitti orrendi.
Il marito di Jean Taylor, Glen, recentemente scomparso per un tragico incidente, era stato accusato del crimine più odioso, il rapimento e il probabile omicidio di una bimba di appena due anni, Bella Elliott. Qualche indizio, un alibi traballante offerto dalla moglie stessa: materia sufficiente per l’incriminazione, non per la condanna. Il tribunale lo aveva assolto, l’opinione pubblica no. Per «la gente», per i vicini di casa, per le poche amiche di Jean, Glen Taylor resta «il mostro».
Tra i molti per nulla convinti dalla «verità giudiziaria» c’è la madre della bimba scomparsa, Dawn, c’è l’ispettore che si è occupato delle indagini senza riuscire ad accumulare prove sufficienti, Bob Sparkes, c’è Kate Waters, una giornalista d’assalto ma tutt’altro che senza cuore, nella quale l’autrice ha evidentemente ritratto se stessa. Nessuno di loro, per un motivo o per l’altro, può rassegnarsi al fatto che la verità sia sepolta con il presunto maniaco. La sola a poter fare luce è la vedova.
Fiona Barton squaderna così una serie di interrogativi intorno ai quali far montare la suspence, in una narrazione sviluppata in diverse fasi cronologiche intrecciate, e a più voci. La bimba è ancora viva o è stata uccisa? Glen è colpevole o no e, se sì, cosa lo ha spinto? È un pedofilo, come si evincerebbe da alcuni indizi, o un marito sterile che non regge il dolore di una moglie devastata dall’assenza di figli? E Jean cosa sa, cosa sospetta? Se il marito è davvero il rapitore della piccola, che parte ha avuto lei nella turpe vicenda? È un’istigatrice, una complice consapevole, una vittima ignara? L’ultima domanda è quella fondamentale. L’animo di Jean Taylor è l’ultimo e definitivo oggetto dell’indagine della scrittrice.
Intorno all’asse centrale, però, si articolano una quantità di altri temi, ognuno dei quali pone un quesito etico: gli stessi che ci ritroviamo tutti a considerare e dibattere ogni volta che la realtà presenta una tragedia simile a quella immaginata da Fiona Barton. Prima di tutto il ruolo dei media. Se Glen Taylor è davvero un pedofilo assassino i lettori lo scopriranno solo nelle ultime pagine, ma il sospettato è stato fatto a pezzi ben prima dai media, in caccia del titolo a effetto e dei relativi profitti. Allo stesso tempo, però, sono quegli stessi media vampiri che permettono di non chiudere il caso dopo la sentenza e Kate, la giornalista, è equamente divisa tra avidità di scoop e profonda partecipazione.
Altrettanto problematico è il ruolo degli investigatori.
Per cercare di incastrare l’indiziato devono muoversi sotto copertura, facendosi adescare in chat. Ma sino a che punto arriva la semplice ricerca di prove e dove inizia invece l’induzione al reato? Infine, sia pur con molto tatto, la scrittrice passa ai raggi X anche la madre della bimba rapita, ragazza rimasta incinta in un incontro poco più che occasionale. Forse il ratto si è svolto davvero, per fatalità, nei pochi minuti in cui la donna dichiara di aver perso di vista la creatura ma forse, invece, quei minuti sono durati un meno perdonabile paio d’ore. Soprattutto, pur senza mai mettere in dubbio il sincero strazio della donna, l’autrice fa emergere come quella tragedia costituisca poi la base della sua vita e le permetta di raggiungere una insperata stabilità sia emotiva che economica.
La vedova è stata messa spesso a paragone con Gone Girl, in italiano L’amore bugiardo, il bellissimo romanzo di Gillian Flynn che è in realtà la più spietata anatomia del matrimonio uscita di recente. È un paragone legittimo: anche La vedova è in fondo la storia di un matrimonio. Ma la distanza è siderale. Flynn parla di una coppia assolutamente «moderna», socialmente e culturalmente di classe medio-alta, in cui la donna è ben consapevole del proprio potere e sa perfettamente come usarlo. Barton racconta coniugi di tutt’altra fatta. Glen e Jean, quando si incontrano, sono ragazzi di piccolissima borghesia, lei assistente parrucchiera, lui modesto impiegato di banca.
Il loro è un matrimonio fondato su una relazione di potere che oggi tendiamo spesso a pensare confinata nel passato, ma basta guardare Chi l’ha visto?, il programma tv più rivelatore sulla pancia dell’Italia di oggi e dal quale sembra tratta di peso questa storia, per scoprire che non è così. È una relazione in cui l’uomo guida, sa muoversi nel mondo, protegge e comanda. La donna è insicura e sottomessa, destinata a farsi guidare. I genitori fanno il possibile per cementare quel modello e garantirne la perpetuazione. La salvaguardia del matrimonio è l’obbligo morale.
Fiona Barton racconta fatti. Lascia al lettore il compito di analizzare, interpretare e giudicare. Ma il dubbio che all’origine del crollo morale di questa famiglia della piccola borghesia di provincia inglese ci sia proprio il fatto di non poter diventare una famiglia come tradizione comanda, con tanto di figli, è inevitabile. Come è inevitabile concludere che la scrittrice deve somigliare davvero alla giornalista ambiziosa però mai arida e sempre partecipe del suo libro. Arrivati all’ultima pagina ci si accorge che passo dopo passo Fiona Barton ha costruito con Jean, la vedova forse complice, la parrucchiera ossessionata dalla mancanza di figli, la moglie condannata a difendere il matrimonio dalla disgregazione interna, un personaggio commovente e bellissimo.
[Andrea Colombo 29/06/2016]

martedì 28 giugno 2016

I senza terra, Szilárd Borbély

Szilárd Borbély (1963-2014) è una delle più importanti figure nella letteratura ungherese contemporanea, che ha avuto un impatto notevole sulla trasformazione della poesia ungherese negli ultimi tre lustri, influenzando la teorizzazione e concettualizzazione del suo ruolo sociale e delle sue possibilità linguistiche e tematiche. Autore pluripremiato, inquieto e immerso in una ricerca di senso anche, non stricto sensu, teologica, che lo colloca appieno nella peculiare condizione dell’intellettuale della post-tarda modernità, ci lascia un’eredità di pensiero che ora abbiamo la possibilità di cogliere e accogliere anche in lingua italiana grazie alla traduzione – a cura di Mariarosaria Sciglitano – del suo primo romanzo, I senza terra. Se n’è già andato Messiash? (Marsilio, pp. 264, euro 18, 50).

Lente eventualità

Il poeta, scrittore, professore universitario di letteratura antica ungherese Szilárd Borbély si è ucciso a 51 anni, all’apice del successo nel suo paese, scegliendo apparentemente il «rapido dileguarsi» che nell’Edipo a Colono Sofocle indica come soluzione alternativa alla «cosa migliore», il non essere mai nati. Ma come è stato scritto in un suo necrologio, di improvviso nella sua morte non vi è nulla: si tratta invece di una «tragica lentezza» con la quale, nei suoi scritti, nelle interviste, Borbély nel tempo ha comunicato il suo proseguire adagio verso il congedo. E in mezzo, le contraddizioni, le ferite del mondo in cui era cresciuto, del suo paese, della città in cui viveva e insegnava, Debrecen, la «Roma calvinista» (la seconda città più grande dell’Ungheria, «capitale» della puszta, la grande pianura ungherese), dell’amore che lo legava ai suoi due figli, dell’idea che avrebbe dovuto e potuto essere felice… eppure.
Le sue opere ci rimandano costantemente al disagio, al conflitto, al dolore. Senza essere un sopravvissuto, Szilárd Borbély ha saputo (de)scrivere Auschwitz in modo limpido, coerente, libero. Faceva i conti con coraggio, pubblicamente, con il passato che in modo inquietante si affacciava in una società apparentemente condannata all’oblio.
I senza terra descrive una società lontana nel tempo, imparentata con quella odierna, dove la povertà continua ad esistere, ma è confinata, celata come lato oscuro e ineffabile.
Leggere Szilárd Borbély non è «gradevole», è scomodo, ma necessario. Anche I senza terra rappresenta una sfida: il lettore resta sospeso tra attrazione e repulsione, proprio perché la sua scrittura va a toccare le corde più profonde di ciascuno. Nell’originale, il titolo è Nincstelenek, coloro non possiede nulla, i nullatenenti e, in questo caso, i senza terra. Senza terra contrapposti ai kulaki in un’atmosfera che, sebbene il romanzo sia ambientato tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70, ci riporta alla prima fase della stalinizzazione dell’Ungheria (1948-1953), col modello dei kolchoz e della perdita di identità umana e professionale, su cui aleggiava il fantasma dell’Ungheria horthysta e poi crocifrecciata di Ferenc Szálási (ottobre 1944-gennaio 1945), filonazista e antisemita, che collaborò entusiasticamente alla «soluzione finale» hitleriana con la deportazione in pochi mesi di oltre 600mila ebrei, pochi dei quali tornarono.
Un mondo raccontato in lingua italiana da Edith Bruck (nata Steinschreiber a Tiszabercel, piccolo villaggio ungherese, e deportata ad Auschwitz a 12 anni), inghiottito dai camini di Auschwitz, dai quali si salvò Giorgio Pressburger, anche lui oggi scrittore in italiano, salvato col gemello Nicola da Giorgio Perlasca, «l’impostore» che si fingeva console spagnolo. Senza terra come «straniero», contrapposto a chi da sempre vive nel villaggio in cui è ambientato il racconto, un luogo duro e senza sconti.

Dissonanze originarie

La famiglia del protagonista, Figlio è l’unico nome che è dato conoscere, è un insieme di origini, etnie e religioni: ungheresi, rumeni, ruteni, ebrei, greco-ortodossi forzatamente «uniatizzati» (greco-cattolicizzati). Gli squarci sul passato che si aprono per Figlio attraverso figure familiari come i nonni, vengono subito richiusi dalla madre che è a sua volta «straniera», non essendo nata lì: «No, noi non siamo ruteni. (…) Noi siamo ungheresi, bisogna dire così, perché lo siamo veramente». Ma nell’incertezza dell’origine, nella mescolanza religiosa, etnica e sociale di quell’area di confine tra l’attuale Ucraina, la Romania e l’Ungheria, la regione geografica di Szátmár, davvero qualcuno può essere univocamente qualcosa? Forse solo gli zingari, che vivono ai margini della città e con i quali non ci si può mescolare.
Persino i cani ombrosi, così sono definiti nell’ungherese di quel villaggio, quando diventano di casa vengono tutti chiamati Zingaro: saranno imprigionati per sempre, legati a una catena lunga quanto basta per rendere ancora più tossica la loro frustrazione, devono rimanere affamati – e disperatamente arrabbiati. Il rapporto con gli animali, le descrizioni riguardanti gatti, galline, cani turbano noi animalofili contemporanei, ma vanno al cuore di una dimensione antropologica che si accompagna ad un tessuto sociografico molto denso, che per il rapporto con le origini si può accostare alla prosa autobiografica de Il popolo delle puszte (1936) di Gyula Illyés. La famiglia, raccontata in prima persona da Figlio bambino e poi adulto, è considerata estranea dagli abitanti del villaggio, per origine e appartenenza sociale, etnica, religiosa («Noi non siamo contadini», è l’assioma della madre); un’estraneità si esprime attraverso il disprezzo o l’inganno: la madre viene imbrogliata sul resto al negozio, al mercato; Figlio viene picchiato e insultato dagli altri ragazzini e quando chiede alla madre perché lo hanno chiamato «sporco ebreo», lei risponde: «Perché per loro sono ebrei tutti quelli che non muoiono dove sono nati. Sentono che chi se ne va è diverso. Sentono che chi non è come loro ha l’odore del diverso. Sopportano solo quelli come loro. Chi se ne va è un traditore. Lo è anche chi è diverso. E anche chi vuole essere diverso. Considerano ebreo chi usa il cervello. Chi è più intelligente di loro è ebreo. (…) Odiano chi non è come loro. Chi pensa. Chi riflette. Chi vuole altro. Chi vuole comunque qualcosa».
I senza terra non è un romanzo sociografico d’inchiesta, genere «di confine» che ha caratterizzato la letteratura ungherese in varie fasi, in particolare negli anni ’30, ’50 e ’70-’80; è descrittivo e per questo colpisce al cuore. Mostra l’incomunicabilità della sofferenza, come ci ricordano i numeri che ciclicamente compaiono, sin dall’incipit: «Camminiamo e restiamo in silenzio. Ci sono ventitré anni tra noi. Il ventitré non si può dividere. Il ventitré è divisibile solo per se stesso. E per uno. C’è questa solitudine tra di noi. Non si può scomporre in parti. Bisogna trascinarsela tutta intera».
Borbély non volle trasformare il titolo ungherese in Nincstelenség (l’essere nullatenenti; la condizione di povertà e bisogno), come chiestogli dal referente editoriale, titolo che avrebbe richiamato quello del romanzo con il quale per la prima volta uno scrittore ungherese, Imre Kertész, ha ricevuto il premio Nobel nel 2002: Sorstalanság (Essere senza destino). Teneva molto al «suo» titolo, rimasto nel sottotitolo: Már elment a Mesijás? Se n’è già andato Messiash? Ma chi è il «Messia» a cui si allude? Nel romanzo compare lo zingaro Messiash, che ha solo due denti ed è una sorta di testimone muto, figura angelica e insieme fool silente, a cui si affidano i lavori pesanti e schifosi, come ripulire dalla merda le tubature e i fossi intasati. Messia potrebbe essere il fratellino di Figlio, «Piccolo», che muore presto, come morta in nuce è la speranza di redenzione e resurrezione, nel romanzo. Del suo libro, Borbély ha scritto: «Ha una base autobiografica, si tratta dunque di finzione limitata». Ci torna in mente quando leggiamo l’episodio dell’angelo passato per il villaggio: «Una volta abbiamo avuto una giornata felice. Me ne ricordo, stavamo raccogliendo le prugne».

Spazi tra le parole

La traduttrice Mariarosaria Sciglitano ha saputo rendere in modo eccellente la lingua de I senza terra, che è quasi puritana, ridotta all’osso. Frasi brevi, a volte di sole due-tre parole, che si limitano a comunicare dati. Il resto è superfluo. La lingua corrisponde allo spazio in cui il romanzo si svolge, a una comunità caratterizzata dal nincs, dal non essere e non avere nulla che impedisce una visione complessa dell’esistenza, la riduce ad un’essenza brutale e crudele, rende scarna e cruda la lingua in opposizione a costruzioni retoriche più articolate. Al centro sembra esservi solo la sopravvivenza, e questo dato restringe notevolmente la prospettiva, la lingua e la coscienza. Il lettore non si aspetti un «nuovo Márai», che lo avvolga con dolcezza nella malinconia della fine di un’epoca o nella lucida consapevolezza «borghese» del Diario e dei romanzi tardi. Szilárd Borbély è il cantore del presente che è abitato dal passato, mentre il mondo appare distratto, come si legge nei suoi versi tratti da La sequenza di Auschwitz: «Sono già morto una volta, dunque/ e per sopravvivere alla mia morte/ mi sono rivestito/ di colui che mi assomiglia. L’Altro, da allora, vive qui con me (…).// Vivo ancora, ma non sono io/ L’uomo che verrà vive dentro di me».
[Cinzia Franchi 28/06/2016]

lunedì 27 giugno 2016

Tre giorni e una vita, Pierre Lemaitre


Nessuno avrebbe immaginato che Pierre Lemaitre, dopo l’acclamatissimo Ci rivediamo lassù, di cui solo in Francia sono state vendute più di seicentomila copie, tornasse al romanzo di genere. Invece, Tre giorni e una vita (traduzione di Stefania Ricciardi, Mondadori, pp. 226, euro 18,00), il suo nuovo lavoro, lungi dall’essere l’atteso secondo volume della trilogia storica iniziata con il lavoro premiato al Goncourt nel 2013, è un romanzo nero tesissimo e inquietante: «Mi sembrava giusto dare ai lettori qualcosa che so fare piuttosto bene», ha detto Lemaitre, riconoscendo in sé, implicitamente, l’autore di genere piuttosto che il romanziere impegnato. Eppure, con Tre giorni e una vita Lemaitre offre nuove prospettive alla letteratura nera, virandone l’assunto verso complesse derive psicologiche. Ciò che qui interessa l’autore, infatti, non è come si arriva al delitto o l’atto criminale in sé, e tanto meno la scoperta dell’assassino (che, al contrario, è conosciuto fin dalle primissime pagine) ma come si vive con il crimine – o meglio, come gli si sopravvive.
Proprio perché tutta la narrazione – dalle angosce del protagonista ai giochi del caso che sembrano garantirgli incolumità fino agli inattesi colpi di scena finali – si a snoda partire dalla scena dell’omicidio, si può tranquillamente rivelare come la vicenda ruoti intorno all’assassinio di un bambino di sei anni da parte di un ragazzo di dodici. Lo stesso autore, del resto, ha più volte sottolineato come il suo romanzo abbia per protagonista un criminale atipico, che per età apparterrebbe ancora all’universo dell’innocenza, e che compie il suo gesto in maniera fortuita, senza alcuna premeditazione.
Si può essere criminali a dodici anni? E, convivendo con segreti tanto gravosi, può succedere che si finisca per adattarsi alla propria criminalità nell’età adulta? Sono queste, secondo l’autore, le questioni alla base del libro. Più che in altri romanzi di Lemaitre, qui il noir è il naturale sbocco di quella visione tragica dell’esistenza che caratterizza tutta la sua narrativa, e che in Ci rivediamo lassù ha trovato la sua resa migliore. Di scena non è, ovviamente, un «nero» convenzionale, piuttosto una sorta di Delitto e castigo contemporaneo, ambientato nell’estrema provincia francese e avente per protagonista un Roskolnikov dodicenne. Segreto, colpa e espiazione ne sono i temi portanti. Il piccolo Antoine, che ha ucciso per rabbia e per errore, si trova, anche in virtù di un concorso di casualità imprevedibili (non ultima una tremenda alluvione che si abbatte sul suo villaggio un paio di giorni dopo l’omicidio) a portare da solo il peso delle sue azioni, senza trovare la forza di costituirsi o di confessarle. Così la sua colpa continua a ossessionarlo, soprattutto nei tre terribili giorni in cui si svolge la prima parte del romanzo: tre giorni del 1999 in cui, solo di fronte a un mondo provinciale che non cessa mai di sospettare di tutto e di tutti, in assenza di un giudice che lo condanni, diventa egli stesso il proprio carnefice, attraversando tutti gli stadi di una coscienza torturata dalla colpevolezza. E poiché, come ha spiegato lo stesso Lemaitre, «chi dice segreto dice espiazione», nella seconda parte del romanzo, a distanza di una dozzina d’anni, Antoine, futuro medico di belle speranze, costretto a tornare al paese natio e confrontarsi con un passato che ha lottato duramente per rimuovere, paga in maniera del tutto inattesa il prezzo di quella terribile colpa infantile, che un’intera vita non basterà a espiare.
Tre giorni drammatici, sufficienti a rovinare tutta un’esistenza: questo il significato del titolo del romanzo, che propone una situazione tragica del tutto plausibile, passibile di suscitare nei lettori empatia tanto nei confronti del protagonista (per cui nella prima parte non si può non provare pietà) quanto per i genitori della piccola vittima, che non sanno quale sia stata l’atroce fine del figlio scomparso. Lemaitre gioca su questa ambivalenza in un autentico tour de force narrativo, e cala i propri letori, nella prima parte del romanzo che è anche la più lunga, all’interno di una coscienza infantile lacerata dalla colpa.
Grazie a un uso sapiente del discorso indiretto libero, che gli permette di entrare non solo nella mente di Antoine, ma anche in quella dei molti personaggi minori, ma non per questo meno importanti, che abitano il paese di Beuval, Lemaitre riesce a mantenere il lettore in questa ambigua posizione. Non per caso, la costruzione della scena in cui si svolgono gli eventi è fondamentale: Beuaval è un piccolo mondo pettegolo facilmente riconoscibile. Colpito dalla crisi poiché la sua economia si regge su una fabbrica di giocattoli in legno che stanno andando rapidamente fuori moda, il villaggio è scosso dal risentimento di quanti hanno perduto o stanno perdendo il posto di lavoro; poi, grazie al turismo, che favorisce nuove assunzioni e fa prosperare i commerci, Beauval ritrova la serenità: «una città con i negozianti soddisfatti – commenta sarcasticamente l’autore – è una città contenta di sé». E se il tema della crisi e della disoccupazione rimanda a Lavoro a mano armata, un gioiello narrativo in cui Lemaitre riusciva a fondere in maniera esemplare noir e impegno sociale, i diversi sguardi degli abitanti di Beauval conferiscono una particolare impronta visuale al racconto, commentando la storia, da un lato, e costruendo e ricostruendo la scena, dall’altro.
Da questi sguardi, Antoine si sente ossessionato nei tre giorni di sofferenza del 1999; e da essi si ritroverà a temere di venire smascherato, al suo ritorno nel 2011. Del resto, è proprio a partire da un elemento visivo, una fotografia, che gli eventi precipitano, in maniera ancora una volta del tutto imprevedibile. Di fronte a un’immagine riproducente le fattezze che bambino da lui ucciso avrebbe avuto a diciotto anni, una immagine ottenuta grazie a un software di elaborazione fotografica, Antoine, ormai divenuto un adulto opportunista e per nulla incline a prendersi le proprie responsabilità, vede riaffiorare i peggiori incubi di quei tre giorni maledetti: «Antoine vedeva il proprio riflesso sulla vetrina sovrapporsi stranamente al volto di quel ragazzo che non aveva conosciuto e di cui era il solo a sapere che non esisteva. La speranza che tutti covavano, a Beauval, di ritrovare il piccolo Rémi ancora vivo, cresciuto da qualche parte senza ricordare più chi fosse, era un’illusione, una menzogna». Una bugia pronta a rivoltarsi contro l’omicida che, nei dodici anni trascorsi dal suo folle gesto, ha concentrato «tutti i suoi sforzi, tutta la sua attenzione… verso se stesso, verso l’aspirazione alla propria sicurezza, all’impunità».
A partire da qui, il romanzo subisce un’accelerazione che porterà a una serie di scioglimenti del tutto inaspettati, fino all’epilogo a sorpresa, datato all’anno 2015. Ma Tre giorni e una vita si impone all’attenzione del lettore di certo non solo per il finale sconcertante: ciò che innanzi tutto muove la lettura d’un fiato è il tormento del piccolo Roskolnikov di Beauval, che rimarrà nella mente dei lettori ben oltre l’ultimo colpo di scena.
[Silvia Albertazzi 26/06/2016]

Crepuscolo, Kent Haruf


Intorno a Kent Haruf, spentosi nel 2014 a settantuno anni, lasciando in eredità sei romanzi e un pugno di racconti e saggi non ancora raccolti organicamente neppure negli Stati Uniti, si è creato in Italia una sorta di piccolo culto, i cui adepti aumentano costantemente di numero. Merito di un editore piccolo ma coraggioso e agguerrito, N.N., che si propone come missione, e fin dal nome, il lancio di autori – italiani o stranieri, poco importa – che non hanno mai avuto o non hanno più da tempo, nel nostro panorama editoriale, lo spazio e l’attenzione che meritano.
Ora, dopo Benedizione, atto conclusivo della cosiddetta «Plainsong Trilogy» cui è affidata, anche in America, la fama dell’autore, e Canto della pianura, suo primo capitolo (uscito originariamente per Rizzoli, nel disinteresse più totale della critica, e opportunamente ritradotto per l’occasione), N.N. propone il secondo volume della trilogia stessa, Crepuscolo (pp. 315, euro 18,00 euro), tradotto, come i precedenti e con perizia e identificazione sempre maggiori, da Fabio Cremonesi.
È poi già annunciata la pubblicazione di Our Souls at Night, l’ultimo romanzo di Haruf, uscito negli Stati Uniti ad alcuni mesi dalla morte dell’autore, e sembra del tutto ragionevole attendersi che anche le prime due opere, The Tie That Binds e Where You Once Belonged, si aggiungeranno presto all’elenco, visto il loro legame geografico ma soprattutto tematico con la materia narrata nella trilogia.
Proprio dalla geografia è necessario partire, per esplorare la scrittura di Haruf e comprenderne a pieno il fascino. Come l’Ohio e Winesburg per Sherwood Anderson, o il Michigan per i racconti di Nick Adams di Ernest Hemingway, è il Colorado e la cittadina immaginaria di Holt, non lontana da Denver, a costituire il cuore della trilogia. Un luogo fatto di comunità sparse, di vite sovente isolate, di diner, spacci, supermercati, fattorie e roulotte. E di paesaggi scabri, naturali o umani, dove la quotidianità è scandita da piccoli gesti, tutti apparentemente irrilevanti ma in grado, purché li si racconti nel modo giusto, di rivelare mondi interi.
Haruf si colloca insomma in perfetta continuità con la grande tradizione americana nella quale, del resto, gran parte della critica lo ha ricompreso, e che proprio da Anderson e Hemingway prende le mosse, per arrivare fino a Richard Ford: una tradizione che si identifica concretamente e geograficamente con il Midwest e si oppone in modo deliberato tanto alla genteel tradition del New England, quanto, in tempi più recenti, al glamour newyorchese, rifiutando i barocchismi, le orchestrazioni dalla complessità esibita, i compiacimenti letterari fini a se stessi e lavorando invece sempre per sottrazione e per sintesi.
Se però in Anderson e in Hemingway la ricerca di questa sintesi estrema portava quasi naturalmente a privilegiare la forma del racconto, nella quale veniva messa in scena la scissione – o comunque il rapporto contrastato e difficile – tra un protagonista (il George Willard dei Racconti dell’Ohio o il Nick Adams di Nel nostro tempo) e il milieu nel quale era costretto a vivere e da cui progettava costantemente la fuga, Haruf opta invece per una costruzione a cappella, un coro di voci che, per poter suonare assieme e convergere verso un canto unico, necessitano di uno spazio più ampio e di una traiettoria compiutamente romanzesca, al punto di proiettarsi addirittura oltre i confini del singolo volume e di distendersi dentro le novecento pagine della trilogia tutta, dividendosi il proscenio in una costante variazione di prospettive e sfumature.
Se si seguono le sua vicende da un capitolo all’altro della «Plainsong Trilogy», appare evidente come la comunità di Holt – paese immaginario, si è detto, ma molto simile alla cittadina di Yuma dove Haruf ha trascorso larga parte della sua vita – non abbia nulla di irenico o di falsamente rassicurante: i personaggi che la popolano sono tutti, chi più chi meno, induriti e segnati da un cumulo di avversità che sembra rispecchiare la monotona asprezza del paesaggio contro il quale si stagliano. D’altro canto, però, tutti i protagonisti di Crepuscolo, fatta eccezione forse per il solo Hoyt Raines, villain alcolista e violento, condividono un sistema di valori elementari, nel quale la solidarietà, l’onestà e l’autenticità delle parole e dei comportamenti rappresentano gli unici puntelli certi contro i rigori di un mondo nel quale l’abbandono e il fallimento la fanno troppo spesso da padroni.
La luminosità dei personaggi, la loro capacità di mantenere dignità e coerenza anche di fronte alle prove più difficili, primi fra tutte i lutti che li colpiscono spesso negli affetti più profondi e consolidati, è al centro del secondo capitolo della trilogia ancor più che del suo predecessore. Se infatti in Canto della pianura – centrato sul sofferto percorso esistenziale di Tom Guthrie, il quale, abbandonato dalla moglie, cercava faticosamente di ricostruirsi un’esistenza senza perdere la propria integrità di insegnante di storia americana, e sulla infanzia tormentata dei suoi due figli, Ike e Bobby – la sofferenza e il dolore dei protagonisti sembrava rispecchiarsi nel gelo di un paesaggio quasi sempre notturno, squassato dal freddo e dalle intemperie, in Crepuscolo il centro della scena viene occupato da Raymond McPheron, che nel romanzo precedente, insieme al fratello Harold, aveva accolto in casa propria la giovane Victoria Roubideaux, incinta e abbandonata dal fidanzato, e che ora deve fare i conti prima con la partenza della stessa Victoria, che si trasferisce insieme alla figlia bambina a Fort Collins per studiare all’università, e poi con la perdita di Harold, travolto e ucciso da un toro sotto i suoi occhi, in una scena di straordinaria delicatezza e strazio.
Un doppio abbandono, dunque, che però grazie alla bizzarra dolcezza di Raymond, all’amore e al rispetto che ha saputo guadagnarsi negli anni e dal quale è circondato, si traduce nella premessa di una rinascita, grazie al rinnovato affetto e alla vicinanza di Victoria e del suo nuovo ragazzo, ma soprattutto all’incontro con Rose Tyler, l’assistente sociale che, come già Maggie Jones, l’insegnante di Canto della pianura, funge da collante per un’intera comunità.
Proprio la concentrazione su Raymond – e su D.J., il ragazzino orfano che cresce insieme a un nonno anziano e malandato ed è sorretto da un senso della giustizia e da un’istintiva volontà di rivolta contro ogni forma di sopruso che gli conferiscono quasi la statura di un piccolo eroe – fa sì che i toni di Crepuscolo siano infinitamente più dolci e toccanti rispetto a quelli del primo capitolo della trilogia. D’altro canto, anche quando prende di petto i sentimenti più profondi e fa vibrare le corde della commozione, Haruf non abbandona mai quello che è il suo credo estetico: scrivere, per usare le sue stesse parole, il più possibile «vicino all’osso», alla sostanza ultima delle cose e degli stati d’animo. Basti pensare al finale del quarto capitolo, nel quale i fratelli McPheron, appena abbandonati da Victoria e subito dopo aver venduto i loro vitelli all’asta cittadina, tornano alla fattoria, ormai deserta. «Risalirono a casa attraversando il vialetto coperto di ghiaia. Ma l’eccitazione della giornata era ormai passata. Erano stanchi e spenti. Scaldarono sul fornello una zuppa in scatola che mangiarono al tavolo della cucina, poi misero i piatti in ammollo e si spostarono in salotto per leggere il giornale. Alle dieci accesero il vecchio, massiccio televisore in cerca di un notiziario qualsiasi proveniente da qualunque punto del mondo, prima di salire le scale e buttarsi a letto sfiniti, ciascuno nella propria stanza ai due lati del corridoio, confortati oppure no, demoralizzati oppure no, da ricordi e pensieri familiari logorati dal tempo».
In pagine come queste, delle quali il romanzo strabocca e in cui il sentire filtra senza intoppi attraverso i gesti più abusati, Haruf rinnova il piccolo, grande miracolo che rappresenta, probabilmente, la ragione ultima di un successo in costante crescendo: anziché elevare il quotidiano o trasformarlo in metafora di altro, lo ripropone in quanto tale, scandendo il succedersi delle azioni e soffermandosi sui dettagli, quando non sulle minuzie. E costruisce così un’epica minimale, tutta decentrata rispetto ai fasti massimalisti di tanti romanzi contemporanei, sperimentali e non, ma di un’autenticità e di un nitore così accecanti da lasciare un segno indelebile nella memoria dei lettori.
[Luca Briasco 26/06/2016]

Brexit.

L’orologio del divorzio, la messa in atto dell’articolo 50 che regola l’uscita dall’Ue, ha già cominciato a ticchettare furiosamente. Quasi in malo modo, i ministri degli esteri di tutto il continente hanno intimato all’«untore» di andarsene in tutta fretta prima di contagiare il resto dell’Unione, in una mossa brusca temperata soltanto dall’invito di Angela Merkel a non precipitare i toni e a non assumere atteggiamenti duri o punitivi nei confronti di questa separazione poco consensuale.
Ciononostante, il commissario britannico europeo Lord Jonathan Hill, rappresentante di massimo rilievo presso l’Ue, pur sottolineando il proprio rammarico per la decisione presa dal popolo britannico ha dato le dimissioni dalla commissione Juncker, commentando: «Quel che è fatto è fatto».
Non la pensano così gli autori dei 2 milioni di firme raccolte attorno a una petizione per indire un secondo referendum, che venerdì, in poche ore, ha mandato in crash il sito del governo. La petizione recita testualmente: «Noi sottoscritti ci rivolgiamo al governo di Sua Maestà perché promulghi una regola per cui se il voto per leave o remain è inferiore al 60% e basato su un’affluenza di meno del 75% si dovrebbe indire un secondo referendum». Per essere prese in considerazione dal parlamento, la soglia minima di firme è centomila.
L’uscita di Hill, che sarebbe stato uno choc solo qualche settimana fa, è ormai l’ordinario effetto collaterale di una reazione a catena innescatasi venerdì mattina dopo la notizia della vittoria del leave e che ha causato le dimissioni di un David Cameron dagli occhi umidi.
Contemporaneamente, sul sito Change.org, altre 151mila firme in poco tempo andavano a sottoscrivere la richiesta al sindaco di Londra Sadiq Khan di dichiarare Londra indipendente dal Regno Unito e rientrare nell’Unione Europea. Sono due sviluppi che fino a qualche tempo fa uno avrebbe potuto leggere su un romanzo di fantapolitica e che trasmutano bruscamente Britain da Great a Little.
Che danno l’idea dello sgomento generalizzato soprattutto fra le giovani generazioni metropolitane e globalizzate, la cui non sufficiente affluenza alle urne è probabilmente fra le cause della sconfitta di misura del remain che, lo ricordiamo, ha perso per due punti percentuali, 48 a 52%. In una ripartizione che riflette abbastanza quella geografica del voto, la maggior parte dei firmatari proviene dalle zone metropolitane del paese, e in particolare da Londra.
Nel partito conservatore si apre intanto la questione del post-Cameron. Nella sua conferenza stampa accanto a Michael Gove, Boris Johnson, assediato davanti al suo domicilio londinese da una folla ostile in uno strano trionfo nel posto sbagliato, pareva uno che sa di averla fatta grossa. Ha commentato la vittoria in tono sommesso e serissimo, in una performance lontana anni luce da quelle per cui è noto e amato dall’elettorato conservatore. Forse pensa all’equivoco che lo esporrà al ludibrio dei votanti del leave, cui Nigel Farage ha fatto credere che la vittoria avrebbe del tutto interrotto il flusso migratorio nel paese: una cosa naturalmente impossibile.
I Tories che non appartengono al suo fan club e che temono di mettergli in mano le redini del paese in un momento simile, pensano di anteporgli il ministro dell’interno Theresa May.
Nel frattempo continua la turbolenza finanziaria.
L’agenzia di rating Moody’s ha abbassato da stabile a negativo l’outlook sul rating del paese in quello che ha definito un periodo di prolungata stabilità successivo all’uscita del paese dall’Unione. Anche a Standard & Poor’s hanno ribadito che la «tripla A» del rating della sterlina è a rischio.
Sempre sul fronte della disgregazione statuale, Nicola Sturgeon, la primo ministro scozzese, che venerdì ha messo in chiaro che un secondo referendum sull’indipendenza scozzese è probabile, ha detto che cercherà «discussioni immediate» per proteggere il posto della Scozia, che ha votato al 62% per restare, nell’Ue.
A questo fine, ha anche intenzione di fare lobby presso tutti i diplomatici europei presenti su suolo scozzese invitandoli a incontri «informali».
Intanto Corbyn è alle prese con la fronda interna che alcuni backbenchers moderati – risoluti come al solito a lasciarsi sfuggire un’occasione d’oro per attaccare i Tories in difficoltà – gli hanno mosso approfittando della sua opaca performance a difesa della permanenza.
Contestato dalla platea del Gay Pride londinese cui partecipava, il leader ha risposto «Ho fatto tutto quello che ho potuto».
[Leonardo Claudi 26/03/2016]

giovedì 23 giugno 2016

Ludovico Einaudi - "Elegy for the Arctic" - Official Live (Greenpeace)


Punto d’ombra, Teju Cole

Gradito ritorno in Italia, Teju Cole sarà ospite questa sera a Massenzio, protagonista dell’incontro «Se la memoria è un impegno» durante il quale leggerà il testo inedito «Memoria come Uguaglianza». Scrittore e fotografo, Cole è nato in America nel 1975 da genitori nigeriani, è cresciuto in Nigeria con la nonna fino a diciassette anni ed è poi tornato negli Stati Uniti, dove attualmente vive, a New York.
Il suo romanzo d’esordio, Every Day is for the Thief, scritto e pubblicato in Nigeria nel 2007 (ripubblicato da Penguin Random House nel 2014 e, nello stesso anno, in Italia da Einaudi, con il titolo Ogni giorno è per il ladro), narra del ritorno alla nativa Lagos – tentacolare e corrotta metropoli africana contemporanea – di un eroe innominato, dopo una lunga permanenza negli Stati Uniti. La seconda pubblicazione, Open city (Città aperta, Einaudi 2013), si riferisce ad una altrettanto caotica e allucinata New York, la cui percezione arriva al lettore distorta dalla lente deformante dei disturbi psichici del suo giovane protagonista-narratore. L’opera è stata finalista al National Book Critics Circle Award come miglior romanzo, vincendo numerosi premi internazionali, è stata definita da importanti testate giornalistiche uno dei migliori libri dell’anno e tradotta in dodici lingue.
Teju Cole è critico fotografico per «The New York Times Magazine» e ha collaborato con il «New Yorker», «Granta» e altre importanti testate americane. Dopo aver esposto alcune sue immagini in mostre collettive in India, Islanda e Stati Uniti, la sua prima mostra personale, «Punto d’ombra», a cura di Alessandra Mauro, è stata presentata a Milano a Forma Meravigli nella primavera 2016.
Con lo stesso titolo Punto d’ombra, il suo nuovo libro esce ora in Italia per Contrasto nella collana «In parole» (pp. 166 pagine, euro 22, traduzione di Gioia Guerzoni), in una serie di scatti (107 fotografie a colori) e parole appunto che, come le pagine di un diario visivo, seguono e testimoniano i diversi viaggi e le numerose peregrinazioni dell’autore in giro per il mondo. A detta stessa di Cole «secondo una logica pertinente, ogni fotografia si trova nell’anticamera della parola», e così un dettaglio metropolitano, l’interno di un hotel, una persona qualunque, persino un albero o un bidone di latta assumono dignità narrative e di rappresentazione. In seguito ad un periodo di semi-cecità di cui l’artista è stato vittima qualche anno fa, nelle sue opere più recenti Cole si pone una serie di riflessioni legate ai temi del «vedere» e della «memoria», arrivando in Punto d’ombra, all’operazione ardita e ai limiti di ogni canonica definizione di genere di corredare i suoi scatti fotografici con brevi e poetici racconti. Il rapporto speciale tra testo e immagine che si crea nell’opera viene così sintetizzato da Siri Hustvedt nell’introduzione al libro: «Quando l’otturatore si chiude, il mondo si ferma in un’inquadratura. Anche le parole vengono fissate dalla scrittura».
Lei è scrittore e fotografo, riconosciuto e apprezzato in entrambe le arti e ora si cimenta nella loro mescolanza sperimentale e creativa. In che maniera la sua scrittura influenza la sua attività di fotografo e viceversa? Cos’è venuto prima e cosa viene prima ora?
Sono arrivate nella mia vita quasi simultaneamente, circa una dozzina di anni fa. Ho trovato la voce che volevo usare nei miei scritti nello stesso momento in cui ho iniziato ad usare una macchina fotografica per farne qualcosa di più che scatti di famiglia. Ed esse si sono sviluppate insieme, così che Città aperta è infestata di fotografie (sebbene non ne contenga nemmeno una) e tutte le mie fotografie sembrano contenere un pensiero articolabile, un pensiero nascosto al loro interno che potrebbe essere trascritto.
In «Punto d’ombra» lei mescola letteratura e fotografia, ha per caso come modello un autore come Sebald? Qual è il processo creativo di raccontare una storia attraverso immagini e parole?
Non considero tanto Sebald un modello per questo mio lavoro. Sono più vicino ai registi di documentari che combinano le immagini con il memoir e la speculazione filosofica, come Chris Marker, che ha fatto Sans Soleil e Le Jetée. Mi piace anche molto l’approccio umano e personale al documentario di Louis Malle. Il processo consiste nel pensare il progetto con un «lavoro aperto» nel senso che io raccolgo moltissime cose nel corso della mia vita e dei miei viaggi e più tardi rifletto su come queste potrebbero relazionarsi l’una all’altra. Potrei essere in Indonesia e concepire un certo pensiero, e quando poi sviluppo il mio rullino dell’Indonesia, potrei realizzare che questo pensiero – che approfondisco e rifinisco mentre lo metto per iscritto – si connetta ad una delle fotografie. O potrei sviluppare il rullino e trovare una fotografia che mi dica qualcosa che non sapevo, conducendomi a delle parole che non avevo premeditato. È sempre un processo organico. Non posso programmarlo tutto in anticipo, né vorrei farlo.
Nelle sue opere precedenti, soprattutto in «Città aperta», aveva già iniziato a sfidare, o almeno a tentare di ridefinire la struttura tradizionale della narrazione, in che misura questo era intenzionale? Ha qualche modello in mente?
Veramente no. Cioè, sono stato influenzato da Gente di Dublino di James Joyce per quanto riguarda la lingua e da Mrs Dalloway di Virginia Woolf per il modo in cui i pensieri si muovono liberamente. Ma per la maggior parte volevo semplicemente raccontare questa storia come l’esperienza interiore di un uomo nel modo in cui doveva essere narrata. Penso che l’opera sia un po’ sperimentale, ma non così sperimentale come l’Ulisse o L’uomo senza qualità ad esempio.
Il suo protagonista è un «narratore inaffidabile», spesso allucinato e ambiguo, si tratta di un limite di coscienza o questo gli concede (e concede anche a lei) una maggiore libertà di espressione individuale e artistica?
Volevo fare un lavoro che fosse vicino alla vita, dove ricordiamo le cose in maniera imperfetta e non siamo sempre al meglio di noi stessi. Volevo che la possibilità di disappunto fosse parte dell’opera.
In «Ogni giorno è per il ladro» un eroe senza nome torna in Nigeria dopo una lunga esperienza di migrazione negli Stati Uniti. È un suo alter ego o è un’allegoria del migrante contemporaneo? O forse sta cercando di guadagnare quanto più spazio e libertà possibile evadendo le categorizzazioni?
Esattamente. In parte sono io, in gran parte no. La libertà è tutto ciò che conta. Mentre il lettore legge. Voglio che si dimentichi della tecnica e sia semplicemente assorto nel flusso di pensieri e osservazioni, così da sentirsi realmente coinvolto in una visita a Lagos.
Quali sono le sue influenze, letterarie e non?
Michael Ondaatje, Anne Carson, Johannes Brahms, John Coltrane, Luigi Ghirri, Lee Friedlander, Federico Fellini, John Berger, Michel Serres. Mia nonna.
Com’è cambiata la sua vita dopo la pubblicazione dei suoi libri?
Città aperta mi ha dato l’enorme privilegio di fare quello che mi piace per vivere. Mi ha detto che era ok andare per la mia strada, essere creativo, ed essere anche un po’ difficile. Ogni giorno è per il ladro ha raddoppiato quel vantaggio. Senza l’accoglienza che quelle opere hanno ricevuto probabilmente non avrei avuto il coraggio di provare qualcosa di così sperimentale come Punto d’Ombra.
[Francesa Giommi 23/06/2016]

martedì 21 giugno 2016

Finché non saremo liberi, Shirin Ebadi

«In Iran il velo non è una scelta». Nessuno spazio per i fraintendimenti nelle parole di Shirin Ebadi – primo giudice donna del Paese, poi scrittrice e Nobel per la Pace nel 2003. Coglie l’occasione delle diverse platee che si stanno riunendo, proprio in queste settimane, per la presentazione del suo ultimo libro: Finché non saremo liberi, tradotto da Alberto Cristofori per Bompiani (pp. 247, euro 18). L’obiettivo appare chiaro sin dalle prime battute di ogni incontro: ribadire la difficile condizione femminile in Iran. «Aiutate le donne iraniane. Mi chiedo perché le vostre rappresentanti indossino il velo quando vengono a Teheran. È un’imposizione».
Più che un grido di protesta, quella di Ebadi è una testimonianza coraggiosa. Come, del resto, lo è tutta la sua opera, da Il mio Iran (2006) fino a La gabbia d’oro (2008). Finché non saremo liberi è il ritratto privo di omissioni di una donna che ha messo a repentaglio la sua vita e quella dei familiari, per difendere i diritti negati ai suoi connazionali. Nell’ultimo romanzo, la profondità con cui il racconto delle esperienze personali interseca la narrazione degli eventi politici dell’Iran, negli anni ’90 e 2000, permette di esplorare molti dettagli, dalle perquisizioni intimidatorie all’esilio: «Scesi le scale verso il taxi in attesa, sentendo ancora il calore della sua mano sulla schiena. Non sapevo che non avrei mai più rivisto la mia casa, o il mio paese».
Ampio spazio viene riservato al racconto della vita pubblica, con uno spaccato rilevante sull’ascesa al potere di Mahmud Ahmadinejad, dall’elezione a sindaco di Teheran al secondo e controverso mandato di presidente della Repubblica islamica. «In quelle tese giornate di fine giugno, lo Stato inviò la polizia, gli agenti di sicurezza e i paramilitari in giro per le strade. Tutti in assetto di guerra. Un miliziano sparò a una giovane donna di nome Neda Agha-Soltan. Una passante riprese la scena e la postò online; l’uccisione di Neda divenne virale e il suo volto raggelato finì per simboleggiare la brutalità di quel periodo».
Finché non saremo liberi è un romanzo complesso e completo, i cui venti capitoli compongono una parabola di sensazioni, talvolta contrastanti: la paura di un arresto, l’indignazione per le ingiustizie, l’ansia per la propria famiglia, la determinazione nel portare a termine i propri obiettivi. Un climax dal valore liberatorio, quasi salvifico. Un macigno da portare sulla testa, tutti insieme.
Minaccia di morte, la coppia di pagine d’apertura, in cui Ebadi cita il messaggio intimidatorio ricevuto nel 2004, fa da prologo al testo: «Se continui così, saremo costretti a porre fine alla tua vita. Se ci tieni, smettila di diffamare la Repubblica Islamica». Lei, invece, non ha mai smesso di difendere i diritti umani, prima come avvocato – impegnandosi nella tutela di donne e bambini, e offrendo assistenza legale gratuita ai perseguitati politici del suo paese – poi come scrittrice e attivista, con i suoi libri e le testimonianze in giro per il mondo. «Non si può dividere la mia storia da quella dell’Iran. Sono strettamente collegate. Questo libro testimonia quello che il popolo iraniano ha subìto negli ultimi dieci anni». Finché non saremo liberi è il resoconto di intercettazioni telefoniche illecite, sequestri e ostacoli burocratici immotivati. Eppure, non è tutto: nonostante Shirin Ebadi viva in esilio in Gran Bretagna, da circa sette anni, il fisco iraniano continua a pretendere il versamento delle tasse sul Nobel ricevuto nel 2003, sebbene quel tipo di premio ne sia esente per legge.
L’esilio, poi, è l’occasione descrivere un fallimento inatteso: il matrimonio. Suo marito Javad, accusato di adulterio per aver avuto una relazione con un’altra donna, viene imprigionato a Evin: il carcere costruito nella periferia Nord di Teheran durante la Rivoluzione del ’79, per la detenzione dei prigionieri politici. Il tradimento – orchestrato dal Ministero dell’Intelligence e filmato da agenti di sicurezza – oltre a mandare all’aria il trentennale legame coniugale, diventa uno strumento di ricatto nei confronti di Javad: «Lei deve mettersi davanti a una cinepresa e dire quello che io le chiederò di dire. Se lo fa la lasceremo andare». Javad avrebbe dovuto sostenere che il Premio Nobel ricevuto anni prima da sua moglie fosse immeritato, e che Ebadi fosse una confidente del governo. Una rottura del rapporto matrimoniale, generata più dall’infedeltà amorosa che dal forzato tradimento ideologico. La tenacia della donna che aveva combattuto contro il regime e le sue ingiustizie si fa silente. Ebadi si trasforma in una donna fragile, schiacciata dalle miserie della propria vita personale, quando anni dopo Javad – seduto su una panchina del parco a Boston – le dice: «L’unica cosa che sei riuscita a fare è rendere infelice te e la tua famiglia».
Insomma, non c’è finzione narrativa nelle 247 pagine di questo libro, né artifizi letterari. Non c’è spazio per tracciare il profilo psicologico dei personaggi. O forse manca la volontà di farlo. Lo schema della narrazione è reso avvincente dalla sua veridicità. Ebadi cerca di rendersi voce distinguibile in un contesto necessariamente corale, come quello di un paese. E il risultato primario è un romanzo che porta i segni di un’assenza: quella del proprio paese, l’Iran.
[Francesca Del Vecchio 20/06/2016]

lunedì 20 giugno 2016

Il colore della scrittura, Charlotte Brontë

Il duecentenario della scrittrice di «Jane Eyre» viene celebrato da una serie di libri, mentre la National Portrait di Londra le dedica una mostra con acquerelli che dipinse lei stessa, pagine di diari, lettere e opere della sua infanzia.
«Aveva i capelli di un castano luminoso che cadevano sulle spalle in riccioli pieni di grazia e occhi di un blu violetto, con sopracciglia marroni ben disegnate». È la descrizione di Anne Brontë fatta dall’amica di Charlotte, Ellen Nussey (la stessa con cui la scrittrice scambiò centinaia di lettere e che fu la prima ad essere messa al corrente della scomparsa dell’autrice di Jane Eyre). E quella sorella minore – che dette alle stampe Agnes Grey – venne dipinta rispettando in tutto questi canoni di bellezza. Appare proprio così nell’ovale esposto alla National Portrait di Londra la giovanissima Anne, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento: è un acquerello, uno dei tanti con cui Charlotte Brontë si dilettava, copiando dai maestri paesaggi o scene mitologiche e facendo posare conoscenti e famigliari. Da principio, infatti, lei voleva diventare un’artista del pennello e condivideva con suo fratello Branwell la passione per la pittura e per le visite ai musei.
Quest’ultimo, anzi, aspirava a diventare un ritrattista di professione: la piccola e preziosissima mostra che si può visitare nella sala 24 della National Portrait di Londra (in omaggio al duecentenario della scrittrice) ruota tutta intorno a un quadro eccezionale per il suo valore documentario. È il dipinto che Branwell fece a diciassette anni, intorno al 1834, con le tre sorelle in posa e al centro, una grande macchia di colore che, ai raggi ultravioletti, si è rivelata essere il residuo di una cancellazione, un «pentimento» in cui l’autore ha tagliato via se stesso da quell’immagine di famiglia. Noto agli studiosi perché ripreso nella celebre biografia che Elisabeth Gaskell dedicò a Charlotte Brontë per rinverdire la sua reputazione – affinché il ricordo della sua figura non si fermasse al suo ruolo di istitutrice presso case di campagna – e farne una figura potente e tragica, è il fulcro della mostra: è il solo ritratto sopravvissuto probabilmente a molti disegni realizzati in quegli anni e le sue condizioni non buone sono dovute al fatto che per cinquant’anni è rimasto piegato, nell’armadio della fattoria dove visse il vedovo di Charlotte, il reverendo Arthur B. Nicholls con la sua seconda moglie. Fu lei, Mary Anne, a scovarlo nel 1914 e la National Portrait lo acquistò.
Il comitato scientifico del museo decise poi di non restaurarlo per lasciare visibili le tracce della sua particolare storia. Insieme a quel dipinto, nello stesso armadio, venne ritrovato anche quello dell’altra sorella Anne (che troviamo nel percorso espositivo). Il volto di Charlotte Brontë lo conosciamo anche grazie all’opera di George Richmond, fatto su commissione dell’editore Smith nel 1850: la leggenda vuole che lei fuggisse in lacrime di fronte alla richiesta del pittore di cambiare pettinatura, sciogliendo i capelli per levarsi di dosso quell’aria ammuffita e da vecchia.


Un acquerello della scrittrice esposto in mostra

La rassegna, visitabile con entrata gratuita fino al 14 agosto, si presenta come una imperdibile occasione per chi non può spingersi fino a l villaggio di Haworth, nello Yorkshire, dove la famiglia Brontë visse e dove oggi, nella loro casa, c’è il Parsonage museum. Molti degli oggetti che raccontano la vita privata e l’infanzia della scrittrice provengono da lì e sono concessi molto raramente in prestito. Nelle teche e sulle pareti sono narrate due storie che si intrecciano. C’è quella pubblica e letteraria che si dispiega attraverso le prime edizioni del romanzo Jane Eyre, della sua biografia scritta da Gaskell, con le lettere più «professionali» e i ritratti dei personaggi di riferimento nella costellazione «Brontë», da Byron al duca di Wellington, l’eroe che sconfisse Napolone a Waterloo fino al critico Lewes. George Henry Lewes, influente critico e giornalista, ebbe uno scambio epistolare tempestoso, nel corso degli anni, con la scrittrice: la redarguì per le sue produzioni letterarie «melodrammatiche» (la sua stella era Jane Austen) e disse anche che per le donne era meglio occuparsi di gravidanze. Lei non si scoraggiò e più volte rispose per le rime.

Poi, c’è il secondo racconto che si snoda in mostra insinuandosi tra i ventisei oggetti appartenuti a Charlotte Brontë. Pagine di diario, lettere più intime, ritratti eseguiti a gessetto delle amiche, un paio di stivaletti di stoffa che era solita indossare. Bellissimi, infine, i libri lillipuziani con pagine cucite a mano, scritti fitti e corredati da allegri disegni. Li creavano tutti insieme a Haworth, e soprattutto Charlotte con Branwell. I due avevano inventato un regno fantastico, Glasstown, scrivevano le avventure dei loro personaggi e ne illustravano le storie. La loro era già una coppia di smaliziati fumettisti.
[ Arianna di Genova 20/06/2016]

La letteratura è una felicità senza nome

Crescere è un atto di immaginazione. Così Lyndall Gordon descrive l’inclinazione di Charlotte Brontë nell’esercizio della sua grandezza. Decisiva è stata «la sua capacità di scrivere dall’oscurità – le tenebre di un sé non visto». Di Gordon, che ha all’attivo altre biografie tra cui quella di Emily Dickinson e un volume dedicato a T.S. Eliot, ora si può leggere anche Charlotte Brontë. Una vita appassionata (Fazi, pp. 496, euro 18, traduzione di Nicola Vincenzoni), che ripercorre la vita della scrittrice di cui quest’anno ricorrono i 200 anni dalla nascita.
Nell’occasione del bicentenario dell’autrice di Jane Eyre, sono state pensate alcune pubblicazioni anche in Italia.
È di qualche mese fa la riedizione per Castelvecchi della biografia scritta dalla sua cara amica Elizabeth Gaskell, tradotta la prima volta nel 1987 per La Tartaruga. E poi le lettere (1847- 1853), tra cui spiccano alcune traduzioni inedite raccolte nel volume Ho tentato tre inizi, edito per L’Iguana, in cui si può ammirare il carattere indomito e schietto che Brontë attivava nelle sue interlocuzioni con amici ed editori – sia con il suo nom de plume che dopo lo svelamento della sua vera identità. Newton Compton, invece, ripropone Shirley, per la cura di Fedora Dei. 
Tuttavia, in questo scenario piuttosto articolato, il volume di Lyndall Gordon e la prima traduzione italiana – a cura di Martina Rinaldi – sempre per Fazi, del romanzo Il professore (pp. 304, euro 18) sono da leggere con grande attenzione.
Intanto riguardo alcune collocazioni biografiche della scrittrice, lo sguardo di Gaskell che consegnava la scrittrice a una insopprimibile postura tormentosa, assume nelle parole di Gordon una torsione di libertà, apertura sulla stoffa esistenziale e di scelte che Brontë è riuscita a portare a compimento. Proprio il tratto introspettivo già notato da Gaskell e definito moderatamente come «carattere domestico», Lyndall Gordon lo fa esplodere di forza luminosa riconoscendo alla minuta autrice dello Yorkshire una rara e consapevole tenacia guerriera.
Il professore, primo romanzo scritto da Brontë e pubblicato postumo nel 1857, consente invece di ricostruire l’arco lungo che arriva fino alla scrittura di Villette
Il professore William Crimsworth nella sua relazione con la studente Frances Henri, interroga allora le consonanze esperienziali della giovane Charlotte nella sua relazione con Constantin Heger, insegnante incontrato nel 1842 durante il suo soggiorno a Bruxelles per imparare il francese.
«Un esserino nero», dotato di grande acume e capace di una collera da «iena delirante» e irascibilità. Crudeltà, patimento e passione sono al fondo delle parole che Heger dedicava alla giovane allieva. Primo e significativo ricettacolo di desiderio, erotico e intellettuale, elementi sinestetici permangono ancora in Villette e anche in alcuni punti del ben più noto Jane Eyre in cui Rochester accusa un’aria di famiglia con Heger. L’eccitazione provata da Brontë non era tuttavia imputabile a una banale e scolastica infatuazione verso un mentore che manipola la propria posizione dispari.
Non è un apprendistato alla sessualizzazione del conflitto, né del fascino verso il potere maschile. In carne viva, è «una felicità senza nome», l’idea di essere vista attraverso un reciproco e «potente sentimento», amalgama in preda a vertigini ondivaghe senza nessun preavviso, «che mettono a repentaglio le nostre vite». Grazie a questo impeto, solo una donna già liberata come lo era Brontë poteva concedere a se stessa di moltiplicarsi nella scrittura, corpo del desiderio e del godimento insieme. Che ciò abbia determinato lo stare sulla faglia, dinanzi a un’eccedenza pericolosa vien da sé. Come il genio, avventato e «audace sforzo dell’io» in cui far convergere la disciplina – perché a Charlotte Brontë, nonostante l’inaddomesticato che la abitava, controllo della parola ed esercizio formale non mancavano affatto.
E se sono questi gli elementi che la restituiscono a un orizzonte che non sia puramente di emancipazione bensì di libertà femminile, non stupisce constatare che ancora oggi Charlotte Brontë sia letta e interpellata seriamente. 
Nasce così il volume a più voci L’ho sposato lettore mio (Neri Pozza, pp. 300, euro 18) a cura di Tracy Chevalier e composto da 21 racconti di altrettante scrittrici a partire dalla celebre frase contenuta in Jane Eyre. Tra le mani di Tessa Hadley, Sarah Hall, Helen Dunmore, e poi ancora Susan Hill, Francine Prose e altre, il fascino di quella affermazione di un io che sporge dalla pagina, diviene l’invenzione per ulteriori narrazioni. Amori, risentimenti e atti di trasformazione multipla, arrivano a risignificare un posto nel mondo che non cede al mero risultato matrimoniale ma è unione di desiderio in cui non vi è riscatto, ancora una volta, se non nel simbolico atto di saper enunciare se stesse.
[Alessandra Pigliaru 20/06/2016]

domenica 19 giugno 2016

Acciaio contro acciaio, I. J. Singer

Quando arrivò al fatale appuntamento con l’industria nazista dello sterminio, la comunità ost-juden era già stata squassata e minata irreparabilmente nelle sue fondamenta dall’irruzione della Storia. La specificità eminente dell’ebraismo orientale era stata proprio l’aver costruito, più che nelle altre realtà della diaspora, una sorta di «patria» nell’esilio, fondata sulla consapevolezza dell’esilio e sull’esaltazione della propria radicale alterità. Gli ebrei orientali avevano eretto siepi più alte delle altre comunità ebraiche nel mondo per difendersi dal flusso minaccioso della Storia: non si poteva evitare di subirlo, quando si presentava sotto forma di pogrom o di arruolamento forzato nell’esercito zarista, ma si trattava sempre di un fenomeno esterno, non diverso dalle calamità naturali. Non era e non doveva essere partecipato.
A cavallo tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del secolo seguente, quella barriera iniziò a cedere. I racconti del ciclo Taiwe il lattivendolo di Shalom Aleichem, l’opera più significativa della letteratura yiddish prima dei fratelli Singer, descrivono appunto l’impatto della Storia sulla comunità chiusa ost-juden e l’effetto di progressiva dissoluzione che ne consegue. Taiwe fu pubblicato nel 1894. Un anno prima era nato Israel Joshua Singer, lo scrittore che avrebbe poi raccontato in tutta la sua opera lo sfaldamento di quel mondo.
Israel era il più adatto ad assolvere a quel compito. Scriveva, a differenza del suo grande fratello, prima della Shoah, dunque senza essere condizionato dalla consapevolezza di quale sarebbe stata la tragica sorte degli ebrei orientali. Il rifiuto della cutltura nella quale era nato e cresciuto lo aveva coinvolto direttamente: l’insofferenza e la conflittualità nei confronti delle corti rabbiniche, della mistica degli hassidim e della rigida chiusura della cultura ost-juden sono il cuore dell’autobiografia uscita postuma nel 1946, pubblicata in Italia da Adelphi l’anno scorso, La pecora nera.
A lungo e a torto considerato solo «il fratello di Isaac Bashevish», Israel Singer, nonostante le somiglianze superficiali, è un autore molto distante dal fratello minore e per molti versi ne è anzi l’opposto. La sua poetica è del tutto scevra da aspetti fantastici o visionari, e non si affida mai alla lente deformante della nostalgia. È uno scrittore realista con robusta venatura epica, capace di delineare caratteri e fisionomie interiori con pochissimi tratti di penna ma riportando sempre, anche quando sembra raccontare solo saghe di famiglia, i percorsi dei suoi personaggi nel grande flusso di quella Storia che aveva travolto il mondo chiuso dello Shtetl.
Acciaio contro acciaio (Adelphi, «Biblioteca», pp. 240, euro 16.00) è il suo primo romanzo, pubblicato nel 1927 in yiddish. La traduttrice, Anna Linda Callow, ha compiuto una lavoro straordinario, partendo dalla traduzione inglese curata da Joseph Singer, figlio dell’autore, per poi confrontarla minuziosamente con l’originale yiddish per ripristinare e integrare almeno una parte dei tagli apportati dal curatore americano, il cui lavoro di editing mirava a snellire un testo giudicato altrimenti molto pesante. Il protagonista del romanzo è Binyamin Lerner, soldato dell’esercito zarista impegnato nella guerra mondiale, disertore non per viltà ma per incapacità di tenere a freno la lingua al cospetto dei superiori, operaio dopo l’occupazione tedesca di Varsavia, braccio destro di un miliardario filantropo che si è dato come missione la trasformazione di una moltitudine miserabile di rifugiati ebrei in armoniosa comunità di lavoratori, carcerato, rivoluzionario nella Pietroburgo d’Ottobre.
Ma lo stesso Lerner è solo un «personaggio principale». Vere protagoniste del romanzo sono le masse, che campeggiano praticamente in ogni pagina: flagellate dalla guerra, martoriate dall’occupazione tedesca, dalla fame e dalle epidemie, costrette a un lavoro tanto simile alla schiavitù da far quasi rimpiangere a Lerner le trincee, traversate da sussulti di coscienza collettiva che per farsi largo devono scontrarsi con l’ignoranza, le rivalità etniche, il razzismo, la diffidenza reciproca, il nodo scorsoio della tradizione, il terrore atavico dell’autorità.
La vicenda si snoda nei due anni centrali della Grande Guerra. Binyamin Lerner si ritrova disertore, più per caso e circostanze fortuite che per scelta, all’inizio del 1916. Lo lasciamo quando entra alla testa di una milizia operaia nel Palazzo d’Inverno, mentre l’Aurora cannoneggia Pietroburgo. Sono gli anni nei quali si verifica, sulla spinta di una guerra di proporzioni sino a quel momento inaudite, l’entrata in scena delle masse come protagoniste della Storia. Comincia lì il secolo breve, quello che nel bene e nel male sarà segnato e condizionato dal protagonismo delle masse sino a quel momento relegate sullo sfondo e condannate al mero ruolo della carne da cannone.
Il Singer del 1927 non è quello che dieci anni più tardi, deluso dalla Rivoluzione, scriverà A oriente del giardino dell’Eden, però non c’è nulla di oleografico o di ingenuamente superficiale nella sua visione delle masse. L’immagine che ne restituisce è colma di partecipazione ma impietosa: alla vicinanza e alla rabbia per le condizioni in cui sono tenute si accompagna sempre la percezione delle pulsioni minacciose che le agitano, la messa a fuoco lucida dei limiti che possono trasformarle in pericolo mortale. Anche per se stesse.
Tra il dissolvimento del tessuto sociale e culturale ebraico-orientale e l’acquisizione di protagonismo da parte delle masse il nesso è immediato. Il vento che spinge verso il centro della scena le moltitudini anonime è lo stesso che abbatte la siepe eretta dall’ebraismo orientale per impedire alla Storia di contaminarne la diversità. Proprio perché Singer ignora l’epilogo apocalittico della Shoah, nei suoi libri la fine dell’ebraismo orientale figura come riflesso parziale in grado di esaltare un sommovimento generale. Nella sua «separatezza», la vicenda particolare degli «ebrei dell’Est» funziona come traccia privilegiata per decodificare e interpretare il quadro complessivo.
A diffferenza che nei grandi romanzi successivi, in Acciaio contro Acciaio il tema della secolarizzazione e della conseguente disgregazione della comunità ebraica non è affrontato direttamente, né citato esplicitamente, pur rappresentando parte essenziale dell’insieme. Lo Shtetl è già alle spalle e Israel, tanto più in questa fase giovanile, è del tutto impermeabile al richiamo della sua mistica, che pervaderà invece l’opera di Isaac. Gli operai ebrei che lavorano a Varsavia sotto il comando tedesco sono una comunità etnica non diversa da quelle polacche e russe con cui dividono un lavoro massacrante. I miserabili rifugiati che Lerner, su mandato del miliardario e filantropo ebreo Aharon Lvovic, tenta di trasformare in comunità operosa e coesa sono e resteranno una ciurma ignorante, superstiziosa e infida.
Lerner, come prima di lui Aharon Lvovic, sono il prodotto più vitale della disgregazione dello Shtetl: energici, intraprendenti, divorati dalla necessità di fare, dall’urgenza di incidere sul mondo, ma anche soli e disancorati. Nonostante disponga di forza, intelligenza e orgoglio in quantità, Lerner non trova mai un controllo sulla propria esistenza. Finisce sempre in situazioni che non dipendono da una sua scelta: è disertore, operaio, educatore e rivoluzionario, sempre per caso. Una scialuppa senza ormeggio, in balia della tempesta della storia del ventesimo secolo.
[ Andrea Colombo 19/06/2016]

mercoledì 15 giugno 2016

Quel «nido sacrale» di ogni rifiuto

Nel primo atto, scena quinta, di Hamlet, il fantasma di re Amleto, padre del giovane principe di Danimarca, afferma che mentre la virtù non potrà mai corrompersi, «la lascivia, per quanto a braccetto di un angelo radioso» è destinata a giacere in un «letto celeste e cibarsi di immondizia». La parola che usa Shakespeare è garbage, giunta col tempo, nell’inglese moderno, a significare non solo il pattume, ma anche «ciarpame, balle, fesserie». Lo stesso accade al lemma shit, così spesso mal tradotto nei nostri film doppiati, in cui quasi sempre rimanda proprio all’ambito delle stupidaggini, più che a una dimensione puramente scatologica.
Una quasi ambiguità che trae in inganno. Molti anni fa il critico marxista Terry Eagleton si divertì a giocare col significato incerto di un cartello della metro di Londra che recitava, «refuse to be put in the bin»: intimava, ovviamente, di «gettare i rifiuti nel cestino», ma la grammatica poteva anche permettere di leggervi un invito di tutt’altro tipo: «rifiutatevi di essere buttati nel cestino». Entrambi consigli utili, non c’è che dire, e di una saggezza per certi versi complementare.

Esce in queste settimane, per la collana «Atlante letterario» dell’editrice La Scuola, un importante libro di Alessandro Zaccuri che fa riflettere sui tanti valori aggiunti di ciò che spesso e con troppa faciloneria consideriamo scarto: Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura (pp. 174, euro 14,50). Il critico prende in considerazione una miriade di rappresentazioni della mondezza, e si perita, soprattutto nei primi capitoli, di giocare molto con l’ambiguità dell’etimo connesso, ovvero «mondo»: contrario di «immondo», se preso come aggettivo, ma anche, se considerato sostantivo, della dimensione celeste e di quella universale. Un universo che rimanda all’infinitudine del caos; e sappiamo bene quanto questo abbia a che fare con l’infinita spazzatura mondana che ci circonda. Ma «caos» è forse legato para-etimologicamente anche a «cosmesi», ricorda l’autore, il che complica, e non poco, le cose.
Se fosse solo una questione estetica, un qualunque ri-cercatore di scarti avrebbe di che soddisfare la sua curiosità; a partire dai concetti di sublime e orrido, passando per gli elogi della bruttezza, fino ad arrivare alla sua «storia», compilata da Umberto Eco qualche anno fa. Il problema è che quel sudiciume di cui ci piace disfarci ha implicazioni etiche, economiche, e sociali di ampio respiro e intricata complessità. Zaccuri pare suggerire che un approccio utile alla sistematizzazione del problema dev’essere prima di tutto culturale. Il libro è infatti una rassegna del tema a partire dalla cultura della classicità, per arrivare a quella dell’età post-moderna o del tardo capitalismo, come usa dire.
Uno dei capitoli più interessanti è sul mito di Filottete, sulla sua condizione di emarginato a causa della purulenta e maleolente ferita che rischia di infettare, non tanto dal punto di vista fisiologico, quanto morale, la comunità da cui è estraniato. Ma a questo particolare rifiuto umano capita di essere anche molto prezioso, perché il possesso del suo arco, l’arco di Eracle, è condizione per la conquista di Troia da parte dei greci. A differenziare i rifiuti chi può esser mandato se non lo scaltro Odisseo? Non stupisce che la sua traduzione o riscrittura moderna da parte di James Joyce fornisca anch’essa non pochi chiarimenti sul valore degli scarti: «non per niente, nell’Ulisse il viaggio di Leopold Bloom attraverso Dublino prende le mosse dalla tazza del water».
Il senso scatologico di tanta letteratura di oggi e del recente passato, ma anche di molto cinema, sembra in certi casi sostituire perfino l’escatologia. Ma a ben vedere, il libro di Zaccuri è in grado di fondere le due dimensioni. È il caso del capitolo sulla «pietra scartata» destinata a divenire «testata d’angolo», un feticcio attraverso cui siamo in grado di avvertire «la sacralità che si annida in ogni rifiuto e in ogni rifiutato». La lente è quella delle recenti riflessioni di Bergoglio sulla «cultura dello scarto», che gettano luce critica su un’attualità in cui, quanto è odioso percepire sembra destinato a restare nelle periferie del vero.
In un percorso a ostacoli che passa anche attraverso un’interessante lettura sinottica di Calvino e Pasolini, il testo suggerisce come un’accettazione completa del reale possa partire soltanto da una presa di coscienza del fatto che «la spazzatura – l’immondizia, il rimasuglio, la risulta – fa parte» del reale. Una visione in linea nientemeno che con le opinioni di Shakespeare, il quale nel Giulio Cesare ammonì: «quale immondizia, Roma, che scarti e quali rifiuti, quando serve da vile materia per illuminare cosa tanto abietta come Cesare». Mai monito giunse più saggio, in vista del romano ballottaggio
[Enrico Terrinoni 15/03/2016]

martedì 14 giugno 2016

Ancóra, Hakan Günday

Gazâ non ha che 9 anni quando debutta nel suo lavoro di passeur, la merce di cui vive con suo padre sono infatti gli esseri umani: uomini, donne e bambini che attraverso la Turchia tentano di giungere in Europa alla ricerca di un riscatto o di una nuova opportunità di vita. La sua vicenda e la sua contraddittoria presa di coscienza ci guidano attraverso le rotte della morte lungo il mare Egeo, tra speranze, illusioni, soprusi e violenze. Un viaggio verso i confini ma anche attraverso l’animo umano che semina domande e interrogativi come boe galleggianti cui aggrapparsi per non annegare.
Ancóra (Marcos y Marcos, pp. 492, euro 18) di Hakan Günday è forse il romanzo più bello che sia stato scritto negli ultimi anni sul fenomeno delle migrazioni verso un’Europa che sta chiudendo progressivamente le sue frontiere. Duro, crudo, a tratti nerissimo ma senza perdere la speranza e talvolta perfino l’ironia, riesce infatti a raccontare sia ciò deve affrontare chi si mette in viaggio, sia ciò che avviene nei luoghi attraversati e tra la popolazione di questi paesi, in questo caso la Turchia primo rifugio negli ultimi anni per i profughi siriani. Il tutto attraverso gli sguardi incrociati di un piccolo trafficante e di un piccolo migrante.
Non a caso Günday, 39 anni, tra i protagonisti della nuova scena letteraria turca che ha all’attivo circa una decina di romanzi e che con questo libro ha vinto lo scorso anno il prestigioso Prix Médicis, è stato scelto, insieme a Claudio Magris per inaugurare questa sera la XV edizione del festival «Letterature» di Roma (ore 21 Basilica di Massenzio) con un testo sulle memorie migranti.
Il personaggio principale del suo romanzo, Gazâ, segue le orme del padre divenendo anche lui un «passeur». All’inizio del libro, afferma che l’umanità è in qualche modo figlia di assassini che sono sopravvissuti alla morte di altri: la tragedia dei migranti ci rende tutti colpevoli?
Nel teatro c’è un termine, quello di huis clos,  usato per segnalare che lo spazio e il tempo sono limitati. Soprattutto lo spazio. Eppure, abbiamo la tendenza a dimenticare che la Terra stessa è un huis clos e che perciò non possiamo, come fa la gran parte del pianeta, continuare a dimenticarci che tutto quello che avviene qui riguarda tutti. Guardiamo in tv le immagini dell’ennesimo naufragio dell’ennesima carretta del mare e pensiamo: «Che tragedia!». E quando non ne possiamo più, cambiamo canale. Ci sforziamo in tutti i modi di ignorare ciò che accade intorno a noi e che è invece esattamente ciò che ci rende tutti responsabili e colpevoli. Abbiamo accettato come normale il fatto che mentre noi viviamo comodi nelle nostre città ci sia chi vive in mezzo all’inferno della guerra e dello sfruttamento, che sono poi frutto della vendita di armi e della volontà di profitto a tutti costi. Se poi le persone decidono di fuggire da tutto questo e arrivano dalle nostre parti, allora ci permettiamo perfino di averne paura. Certo che siamo tutti colpevoli.
Nelle pagine di questo libro urgenza narrativa e civile si mescolano drammaticamente, quando e come è nata l’idea di scriverlo?
Ho cominciato a scriverlo nel 2012, prima del picco della fuga dei siriani verso la Turchia, ma quando già il nostro paese, che è da sempre una sorta di ponte tra Oriente e Occidente e dove sono quindi transitate nel corso del tempo milioni di persone, si trasformasse nella prima tappa di un viaggio che per alcuni si conclude spesso con la morte. All’epoca, migliaia di persone attraversavano già da est ad ovest tutti i 1565 chilometri del territorio turco senza però lasciare apparentemente alcuna traccia: su di loro si potevano leggere al massimo tre righe su qualche giornale se finivano annegati nell’Egeo alla fine di quel percorso. Per il resto, niente. Erano degli invisibili, dei fantasmi. E il fatto che nessuno si fosse accorto del loro passaggio e delle loro vite rendeva il nostro paese come quelle case infestate dei romanzi gotici. Così, ho deciso di scrivere un libro che cercasse di dare un nome e un volto, se non a ciascuno di loro, almeno a qualcuno che potesse parlare per tutti gli altri.
Questo romanzo affronta un tema divenuto ancor più centrale per il suo paese dopo l’accordo firmato a marzo tra l’Unione europea e Ankara che fa della Turchia una sorta di gendarme dei migranti del Mediterraneo. Il tutto in cambio di ingenti finanziamenti e di una maggiore apertura all’ingresso dei cittadini turchi in Europa. Cosa ne pensa?
L’idea stessa su cui si basa questo accordo è umiliante. A cominciare dal commercio che viene fatto sulla pelle dei migranti, che per altro smentisce nettamente il discorso umanitario esibito dal regime di Ergogan. Inoltre non esiste alcun rapporto tra il diritto dei cittadini turchi a circolare più liberamente nei paesi dello spazio Schengen e la situazione dei rifugiati. Queste persone rischiano di farsi ammazzare cercando di attraversare l’Egeo, mentre noi turchi chiediamo il diritto di fare i turisti e di andare a farci le foto davanti alla tour Eiffel. Inoltre, l’accordo è nutile. Non è una risposta ai milioni di persone che vogliono raggiungere l’Europa. Dei 3 milioni di siriani che vivono in Turchia, almeno mezzo milione si trova ancora in condizioni durissime nei campi profughi e non ha altra prospettiva che quella di proseguire il viaggio verso ovest.
Intanto il clima politico interno al paese si fa sempre più duro. Vengono colpite l’opposizione, i partiti curdi, giornalisti e intellettuali. Cosa sta accadendo, si sente minacciato anche personalmente?
Nel mio paese c’è un problema di violenza estrema, le fondamenta stesse delle nostre istituzioni sono molto fragili, la vita umana perde ogni giorno di valore come i diritti civili. Di fronte a tutto questo gli intellettuali devono continuare a denunciare la realtà sempre più oppressiva e cercare di far arrivare le loro parole all’opione pubblica. Quanto alle minacce, in realtà in Turchia scrittori e giornalisti hanno spesso subito la medesima sorte. Settanta o ottant’anni fa, al tempo di Atatürk, quelli che urlavano più forte erano i poeti e Nâzim Hikmet, uno dei più grandi poeti turchi, scontò più di dieci anni di carcere perché era comunista. Poi, negli anni Settanta, scrittori come Oguz Atay, sono diventati il nemico pubblico numero uno dei militari golpisti a causa dei temi intimisti e psicologici che trattavano: erano trattati come traditori, disfattisti. Oggi, nel mirino ci sono i reporter: un tweet di 140 caratteri fa molta più paura di un romanzo di 500 pagine. Personalmente, nel 2009 mi è capitato di suscitare l’interesse delle autorità con il mio romanzo Ziyan che parlava del nostro esercito. I generali mi volevano mettere sotto processo, ma alla fine me la sono cavata grazie ad una legge sulla libertà d’opinione che era stata varata solo pochi mesi prima.
La Turchia degli ultimi anni ha però assistito anche ad un risveglio democratico che ha avuto come primo epicentro la rivolta di Gezi Park, a Istambul, nel 2013. Malgrado la repressione, quali tracce ha lasciato dietro di sé quel movimento?
Recentemente, quando sono stato a Parigi, mi sono recato a place de la République e ho partecipato ad uno degli incontri della Nuit debout. Mi sono trovato così a pensare a quel movimento nato nel parco e in piazza Taksim. Nel corso di un paio di anni in Turchia sono scese in piazza qualcosa come 6 milioni di persone che esprimevano punti di vista e richieste diverse ma che erano unite dalla volontà di rivendicare la loro libertà e il loro diritto a manifestare. L’impatto di tutto ciò è stato reale, ha avuto un effetto profondo sulla stessa composizione sociale e culturale del paese che, credo, ne sia uscita modificata per sempre. Credo che niente in Turchia potrà essere davvero come prima di Gezi Park: il seme della rivolta è entrato nei nostri corpi e prima o poi tornerà a farsi notare quando meno ce lo aspettiamo.
[Guido Caldiron 14/06/2016]

domenica 12 giugno 2016

Jerome K. Jerome, fare ridere l’uomo moderno, spaventato

Non saprei se Jerome K. Jerome possa essere anche per i miei nipoti quel grande umorista che è stato per me. Nonché zio archetipico, affettuoso consolatore, amico fidato della difficile infanzia. I suoi due capolavori Tre uomini in barca (1889) e Tre uomini a zonzo (1900), ripetutamente tradotti in italiano fin dagli anni venti, mi fornirono allora i criteri essenziali per capire il mondo degli adulti, la grande distinzione tra le donne (le zie Veronica, Clorinda, Reginarda) e gli uomini (gli zii Cesare, Augusto, Ennio), i cani e i gatti, i cavalli, le barche e i treni, gli inglesi e i tedeschi – e per me entro quegli schemi sono tutti rimasti, malgrado sia trascorsa una seconda guerra mondiale. «I ridenti sono bonari e spesso si schierano nelle file dei derisi; i bambini e le donne ridono più di tutti; gli orgogliosi, che si paragonano continuamente agli altri, meno di tutti; e Arlecchino, che si ritiene una nullità, ride di tutto, mentre il fiero musulmano di niente», scriveva Jean Paul.

E non dimenticava l’aiuto che il riso spesso dà all’uomo moderno, spaventato o perlomeno disorientato da circostanze impreviste: la pausa dell’indecisione, quasi come «il solletico fisico con quel suo tremito e quella sua oscillazione – come un dittongo e un doppio denso un po’ matto – tra dolore e piacere». A chi soffra di ansia in aereo, consiglio un Jerome, meglio di un Woodhouse o di un Thurber. Ma chi soffre di insonnia non legga la mirabile scena del cocchiere cialtrone e del suo ironico cavallo di fronte alla Porta di Bradenburgo. «Disse che era costruita in arenaria, a imitazione dei Propellei di Atene. A questo punto il cavallo, che ammazzava il tempo leccandosi le zampe, volse la testa. Non disse niente, si limitò a guardare il padrone. Questi cominciò da capo, nervosamente. Questa volta disse che era a imitazione dei Propedilei. A questo punto il cavallo decise di proseguire per la Unter den Linden, e niente avrebbe potuto dissuaderlo dal proseguire per la Unter den Linden». E voi non dormirete più, in preda alla misteriosa eccitazione del riso.

Manganelli, che aveva dedicato a Jerome un lungo saggio, raccolto in Angosce di stile, avrebbe festosamente accolto questi scritti inediti del 1898, Sul tempo perso a perdere tempo. I ripensamenti oziosi di un ozioso (Piano B edizioni, nella convincente traduzione di Alessandra Goti, pp. 215, euro 15,00). Fra le tante considerazioni acute di Manganelli su Jerome, una in particolare sembra si adatti a queste frammentarie situazioni quotidiane che ci vengono presentate con la consueta buona volontà di istruire e divertire: l’ineffabile rapporto tra uomini e animali. «Nel mondo pseudo infantile di Jerome vige una condizione di fiabesca uguaglianza fra tutti gli esseri animati, che si estende agevolmente anche agli oggetti. Cavalli, cani e gatti hanno idee, umori, uno stile di comportamento. Le loro figure retoriche sono imparentate alle figure retoriche umane. Non sono infantili». Parlano con proprietà e non bambineggiano, sono colti e sanno da dove provengono, non sopportano di essere trattati con scarsa considerazione, e accampano giuste pretese. Invece a volte è lo stesso inventore dello scambio comico, l’umorista, a doversi destreggiare tra due opposti. «La maggior parte dei drammi della vita possono essere visti sia come farsa che come tragedia, dipende dal capriccio dello spettatore. Gli attori le inscenano sempre come tragedie, ma in fondo è questa l’essenza di una farsa».
Quando Jerome fa uso del buonsenso va spesso in perdita. Con la sua consueta onestà si chiede che tipo di uomo lui sia. La rapidità dei suoi cambiamenti lo spaventa, si vede posseduto dall’altro se stesso, quello odioso, quello che non si può assolutamente dire un brav’uomo, ma che spinge per mettersi nei panni dell’altro, quello buono. «Lui insiste per essere me stesso e sostiene che io sia solo uno sciocco sentimentale che rovina tutte le sue potenzialità. A volte me ne libero per un po’ ma finisce sempre per tornare; poi è lui a liberarsi di me e io divento lui. È tutto molto confuso. A volte mi chiedo se sono davvero me stesso». Ci tiene a precisare che anche del suo sorriso diffida, e non osa affrontarlo in uno specchio. Jerome non è sempre padrone del gioco comico, pericoloso quando non sia calcolato entro una storia che lo pianifica e lo scandisce.
Come quando racconta la surreale storia del quadro del nonno fatto con i tappi della birra allo zenzero, della infernale poltrona a dondolo costruita con un paio di fusti di birra, una trappola mortale ma meno offensiva degli arredamenti per la casa ricavati da confezioni di uova. Con diverse confezioni di uova una giovane coppia costruiva la scrivania, l’armadio, il letto e faceva l’amore su confezioni di uova. «Come erano pittoresche quelle stanze fai da te! Vedo il divano bitorzoluto, le poltrone che potrebbero essere state progettate dal Grande Inquisitore in persona, la cassapanca ammaccata che di notte era un letto, i pochi piatti blu comprati nei bassifondi fuori Wardour Street, lo sgabello smaltato a cui si restava sempre appiccicati, lo specchio incorniciato con la seta, i due ventagli giapponesi incrociati sotto una litografia da poco, la copertura del pianoforte ricamata con piume di pavone dalla sorella di Annie…». Jerome non potrebbe essere più inglese come in questo sarcastico quadro del bel tempo che fu. «I suoi inglesi non sfuggono a quel moderato vilipendio che investe senza acrimonia ideologica anche tedeschi e francesi. Nell’insieme la sua caricatura non è estrosa, ma è nitida e fantasiosa».
C’è in lui qualcosa di Shaw, qualche potente guizzo di fabianesimo, allorché attacca sia le Masse che le Classi, prigioniere di incrollabili pregiudizi, il Vitello d’Oro o meglio il pentolone di carne per cui sacrifichiamo la nostra vita, le inevitabili delusioni di Cenerentola, il patriottismo d’accatto che è solo istinto di Maternità, «di che cosa si tratta se non dell’istinto materno di un popolo?… Maternità! È il diapason dell’orchestra di Dio, brutalità e crudeltà da un lato, tenerezza e abnegazione dall’altro». E non dimentichiamo le riforme politiche che le pazze «Procellarie Tempestose», a cui anche lui appartiene, pianificano ogni giorno: abolizione della Camera dei Lord, repubblica… E l’eroina dei romanzi, di cultura bostoniana, perfetta, abbagliante, nella sua bellezza «penosamente indescrivibile».
Ce n’è per tutti, per il signor Dickens e la sua biasimevole condotta coniugale, per il giovane sposo in viaggio di nozze che dovrebbe evitare il pericolo di una noiosa intimità, per i cani presuntuosi e i padroni malaccorti, per la graziosa ragazza del quadro che va a pesca di trote in calze traforate, «sotto un sole cocente, con un mazzo di primule bagnate dalla rugiada tra i capelli; e ogni volta che scuote la canna con grazia tira fuori un salmone». E non ultimo per se stesso. «È il mondo che invecchia, non noi… Il vino ha perso un po’ del suo sapore. L’umorismo di oggi non è più come prima. Gli amici stanno diventando noiosi e banali; certo è che non siamo noi ad esser cambiati».
[Viola Papetti 12/06/20.16]