venerdì 29 aprile 2016

L’ape che punge i sogni

A cent’anni dalla morte di Giuseppe Pitrè, Donzelli torna sulla sua figura di studioso. E presenta le storie siciliane che si erano aggiunte alle trecento leggende popolari pubblicate in un corpus di quattro volumi nel 1875.

La parola che affiora alle labbra andando a curiosare nella vita e nell’opera di Giuseppe Pitrè è «miracoloso», anche se si ha una fiducia grande nelle forze naturali dell’uomo.
Questo leggendario studioso palermitano (1841-1916), nato in una famiglia di marinai o di pescatori, svolgeva la professione di medico e con quella si era guadagnato la fama di amico dei poveri. Sembra che fosse amatissimo dai suoi concittadini, tanto che gli venne proposta più volte la carica di sindaco, che lui rifiutò benché sedette nel Consiglio comunale, e per meriti fu infine nominato senatore del Regno. I motivi di queste onorificenze si devono tanto alla sua compassione quanto alla dedizione nello studio e nella tutela della cultura siciliana, soprattutto quella popolare. Per la maggior parte si deve a lui, e alla collaborazione con Salomone Marino (1847-1916), compagno di ricerche e cofondatore dell’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» nel 1882, la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano, così come si manifestò in quei cinquant’anni circa di indagini, dal 1870 fino alla Grande Guerra. E a lui si deve pure la conservazione del patrimonio materiale, dato che nel 1909 fondò un museo con i millecinquecento oggetti che aveva collezionato.
La comunità senza più segreti
Non si può proprio tralasciare di menzionare alcune sue opere di storico e di linguista, come la Grammatica siciliana (1875), importante documento sulle varietà dialettali siciliane, o La vita in Palermo cento e più anni fa (1902), saggio amabilissimo nel quale racconta, e si potrebbe dire fotografa, le abitudini sociali della comunità palermitana.
Ma la sua opera maggiore sono i venticinque volumi della Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, che raccoglie documenti e studi di ogni tipo riguardanti la demografia, il folklore, la cultura popolare, l’etnologia. Canti, poesia e versificazioni, fiabe e racconti, proverbi, spettacoli e feste, giochi dei bambini, usanze (tra cui l’analisi dei comportamenti mafiosi), credenze e superstizioni, rimedi medici popolari, indovinelli e scioglilingua, feste patronali, leggende, motti, pasquinate, tradizioni domestiche e familiari. Migliaia e migliaia di trascrizioni dalla cultura orale, con la scrupolosa annotazione di modalità, luoghi, fonti del prelievo, e con chiose comparative, non solo tra diverse versioni locali ma anche con quelle italiane ed europee. E poi saggi e studi, suoi e di altri. La mole di documentazione prodotta non ha quasi paragoni con altre attività simili. Per tutto questo lascito intellettuale ed editoriale, Pitrè si meritò due Edizioni nazionali delle opere, che permisero l’edizione di lavori rimasti inediti; una presieduta da Giovanni Gentile e dalla figlia Maria Pitrè, prevista in cinquanta volumi, e un’altra istituita nel 1985 e portata avanti fino al 2007 dal Centro internazionale di etnostoria, organizzata in sessanta tomi.
 Giuseppe Pitrè
Una parte ragguardevole del repertorio della Biblioteca – cinque volumi – era già di per sé il risultato di un incredibile lavoro di trascrizione della narrazione orale del popolo siciliano. Pitrè, anche con l’aiuto di corrispondenti, aveva setacciato nei tre angoli dell’isola un mondo destinato alla silenziosa scomparsa e al rapido cambiamento; e da questa ricerca emergeva, selezionata, una vasta gamma di storie, che aveva raggruppato per tipologie e argomenti. Un tesoretto di narrazioni che non era mai stato tradotto in italiano in modo integrale, finché l’editore Donzelli e la Fondazione Sicilia non si sono incaricati dell’impresa. Già nel 2013 erano stati presentati i quattro volumi di Fiabe, novelle e racconti popolari e ora, proprio a cento anni dalla morte di Pitrè, esce il volume di Fiabe e leggende popolari siciliane (pp. XLVI-916, euro 45).
La traduzione, lo sottolinea Giovanni Puglisi nella prefazione, rende finalmente accessibile e condivisibile, sia in Italia sia all’estero, questo patrimonio narrativo. E la resa, curata da Bianca Lazzaro, risulta brillante ed efficace; forse perché estremamente fedele al lessico e rispettosa dell’ordito sintattico, è capace di riportare la lingua siciliana scelta da Pitrè a un italiano mediano e vario. Che è certamente quello di oggi e che tuttavia non indulge mai in forme gergali, tipiche del linguaggio dei grandi mezzi di comunicazione, forse l’insidia e la trappola più facile in cui inciampare. La lettura scorre piana e disinvolta, e il testo originale a fronte facilita chi volesse provare la lettura del siciliano.
Come spiega Jack Zipes in una nota introduttiva al volume, Pitrè aveva ridotto la varietà delle parlate dell’isola al palermitano dell’epoca. Lo studioso ascoltava e faceva ascoltare, trascriveva e faceva trascrivere i racconti di un ventaglio largo e socialmente diversificato di voci. Non solo di «vergini di istruzione», come  Pitrè stesso chiama gli analfabeti, ma anche di persone istruite; e, a volte, da fonti scritte. Bellissima la sua introduzione, e chiarissima nel dichiarare un indirizzo che si potrebbe definire sociolinguistico: come esiste una differenza profonda tra scritto e parlato, nella cultura orale è presente la stessa differenza tra il dire domestico e il raccontato. Quella del racconto è una lingua particolare rispetto alla versione quotidiana, così come il narrare costituisce un momento speciale della vita, per quanto possa essere frequente. Un’altra distinzione che suggerisce, senza però approfondire, è quella tra «raccontatori» e «novellaie», come se il genere portasse con sé un repertorio o forse uno stile. Fiabe incantate, storie di santi, racconti morali, novelle, racconti di fondazione di luoghi e monumenti, storie di animali, narrazioni che spiegano come si siano prodotti proverbi o modi di dire. Nelle sei serie che ordinano le leggende si trova di tutto, per grandi e piccini, per insipienti e per dotti, e qualsiasi tentativo di sintesi non può che rivelarsi parziale.
Quel tesoro di gatto
Bellissima, ed esercitando questa arbitrarietà si potrebbe dire la più bella di tutte, è la storia 135. Due contadini se ne stanno stesi su un campo, uno dorme l’altro è sveglio. Questi vede uscire dal naso del compagno un’ape, che dopo un bel po’ vede rientrare nella narice. Quando l’altro si sveglia, racconta di aver sognato di essersene andato in giro; al che il primo, senza dire nulla, si convince che l’ape sia la mente dell’amico. Purtroppo nessuna spiegazione accompagna questo raccontino, intensamente visionario e poetico, che forse dà conto (non poteva essere altrimenti) di un’espressione comune che riguarda il vagare del pensiero.
La 156, intitolata La birbunazza!, è un’incredibile fiaba circolare che presenta una figura con una funzione narrativa ben conosciuta: il gatto che porta ricchezza, una sorta di variante del gatto con gli stivali. Il carattere di fiaba è dato anche dalla immotivazione degli ingranaggi narrativi, che rendono quasi impossibile una vera sintesi. Tutto parte da un gatto che di nascosto si mangia una minestra; per colpa sua, una bella fanciulla, la birbantona, entrerà in una vicenda che nei suoi vari episodi può risolversi nel bene o nel male, e che solo la sottile astuzia della ragazza, non priva di cinismo e crudeltà, farà superare, finché lo stesso felino non aiuterà la fanciulla a procurarsi una grande ricchezza che le permetterà di sposare il re.
Magnifico il gruppo di racconti dedicati alla nascita di modi di dire, di motti e proverbi. Ricorda la giornata sesta del Decameron, in cui i novellatori hanno a tema i motti sagaci, e che in qualche modo poteva aver influenzato i criteri di ordinamento di Pitrè. In fondo, è sempre racconto orale la materia delle due raccolte. E cattura come un mistero la narrazione che ha la funzione di spiegare il linguaggio. Fa precipitare l’immagine di Sancho Panza del Don Quijote, che parlava solo per proverbi. Fa turbinare l’idea di un effetto comico che circola nei vari gesti narrativi. E associato al paragone istintivo con il libro eccezionale di Giambattista Basile, che da autore compose Lo Cunto de li Cunti, ci si può anche accorgere quanto sia labile la frontiera tra la grande letteratura e la narrazione popolare. Ma presi in questa vertigine, sta già girando a tutti la testa.
[Fabrizio Scrivano 29/04/2.016]

martedì 26 aprile 2016

"Ruggine" di Anna Luisa Pignatelli

Vincitrice nel 2010 del "Prix des lecteurs du Var", l'autrice toscana che attualmente vive in Guatemala è al suo secondo romanzo


In un borgo toscano una donna anziana vive sola e con la schiena piegata da un dolore ai lombi continuo e quasi malefico.
La donna è soprannominata Ruggine e la sua solitudine è risanata solo dalla presenza di un gatto da lei chiamato Ferro. Ruggine vive parlando con se stessa, al proprio passato e dei propri incubi e malanni a chi occasionalmente la incrocia tra le strade sghembe del paesello.
La realtà per Ruggine non conta perché la sua dimensione è quella di un stato di perenne presenza, di contemporaneità assoluta che trasforma le sue paure e suo il dolore in un perfetto connubio in cui anima e corpo si intrecciano senza possibilità di slegarsi, di distinguersi.
Il romanzo di Anna Luisa Pignatelli si intitola come la sua protagonista. Ruggine (Fazi editore, pp. 150, euro 16) è la storia minima di una donna che resiste alle angherie ipocrite e beghine dei propri compaesani opponendo loro la durezza e l’asprezza di una vita ostinata. Una donna povera, vedova ormai da molti anni, piegata da una salute malferma si oppone a un conformismo di comunità che è al solito la prima forma di muro, la prima barriera a issarsi contro la diversità e contro chi come lei pretende di vivere a modo suo o ancor più semplicemente fa della sua vita una forma di aspra resistenza alla morte che tutti considerano imminente.
Il corpo e l’anima di Ruggine vengono ripetutamente violati dalla volgarità come dalla presunzione del sapere, dai giovani come dai vecchi.
Il suo destino è di opposizione alla durezza di un mondo che si fa forte delle proprie stesse paure a cui la donna dà forma: la solitudine, la follia, la morte e certamente la vecchiaia.
Il libro ha la densa unità di un racconto la cui sensibilità è specificatamente femminile, il personaggio vive una forma di resistenza minoritaria che si sviluppa in un anfratto della società italiana, ma che ha origine nel cuore di una cultura maschilista che seppure spesso ormai si esprime attorno ai bordi delle cose, nei margini della società è comunque a livello di linguaggio imperante e sostanzialmente dominante.
Ruggine è un romanzo che ha la rara forza di svelare il doppiogiochista di un paese la cui modernità è sempre legata a una costruzione arcaica del pensiero come della società che vi si sviluppa intorno.
Anna Luisa Pignatelli scrive con una lingua rarefatta, lontana da effetti stranianti o costruzioni ardite. Il suo linguaggio è una pasta che cresce indurendosi e dando forma a spigolature affascinanti come anche a fragilità retoriche spesso un po’ troppo convenzionali, ma che fanno comunque parte di un prisma che è materia compatta, inscindibile. L’autrice si pone ben oltre lo schematismo impressionista di Elena Ferrante ed evita accuratamente una più generale mistica del dolore oggi molto di moda.
Un libro appartato e anche per questo importante che definisce un percorso che parte da una storia condivisa eppure estranea: Ruggine non è altro che l’elemento irriducibile di un paese e di una nazione che mai è stato popolo, ma solo comunità diffidente.
[Giacomo Giossi 26/04/2016]

venerdì 22 aprile 2016

Addio Prince, genio iconoclasta del funk

Nessuno come Prince. Solo Ray Charles, Michael Jackson. Rogers Nelson, Prince, ha riscritto la musica afroamericana. Impossibile immaginare la musica degli ultimi trent’anni senza Prince. Le innovazioni introdotte da Prince nella musica pop sono state cataclismatiche. Talento precocissimo, multistrumentista, reinventa il funk e il soul alla fine degli anni Settanta. Gli bastano due dischi, peraltro ottimi, For you e l’omonimo album del 1979, per sconquassare il mondo con Dirty Mind. Basta leggere le memorie di Ahmir «Questlove» Thompson, batterista dei Roots, per comprendere, in profondità, come Prince abbia contemporaneamente spostato il baricentro della musica afroamericana verso il pubblico bianco, l’introduzione dell’elettronica, e allo stesso tempo radicalizzato l’approccio erotico, transessuale, al funk.
Prima che i Repubblicani costringessero l’industria discografica ad appiccicare etichette di autodenuncia sui dischi, Prince dava vita a sensuali jam erotiche, groove sessuali di disumana potenza, dove l’ondulare del ritmo annunciava una nuova era della percezione erotica del performer.
Se Michael Jackson è stato il folletto lunare e apollineo, Prince ha reintrodotto il puro dionisiaco nel soul. Funk (ossia l’odore del sudore dei corpi) e il soul (l’anima) che anela a Dio ma che, grazie a Dio!, resta ancorata alla terra attraverso un groove che non perdona. Dal 1980 al 1982, nell’arco di tre dischi inimitabili prepara il terreno per il capolavoro, la pietra angolare della musica degli anni Ottanta. Purple Rain. E mentre il mondo della musica, teso fra spasimi post-punk, ritirate più o meno geniali nella tradizione rock e sperimentazioni e contaminazioni, sembra parlare soprattutto a se stesso, Prince con Purple Rain riscopre la vocazione messianica, universalista del soul. Come solo la grande musica afroamericana ha saputo fare. Come solo Louis Armstrong, Duke Ellington e Charlie Parker hanno saputo. Restare nella tradizione ma ritrasformarla in cosa viva, scoperta pulsante del presente. Al punto quasi da oscurare, con la sua stessa trascendentale genialità, la propria creazione ridotta, grazie alle enormi vendite, a un luogo comune della musica.


Un luogo comune del calibro di Thriller, per intenderci. Prince, però, non ha mai inteso ripetersi. Ed è li che nascono i problemi e le incomprensioni. Tutti ad aspettarsi il seguito di Purple Rain e Prince invece è già lontanissimo. Around the World in a Day (1985) è il suo omaggio all’era psichedelica. Un disco a colori, lontano dal melò al neon del suo capolavoro. Prince, come una fantasmagorica macchina divora musica, si reinventa nell’arco di un disco, lasciando tutti a bocca aperta. Non mancano le critiche, ma Prince ha già pronta la prossima mutazione. Si. Prince è stato il Bowie del soul. Lo Ziggy Stardust del funk. Parade (1986) si presenta con un singolo epocale. Lo scheletrico ritmo metronomico di Kiss che lascia tutti senza fiato. Il meglio, però, doveva ancora venire. Ancora una volta, a un solo anno di distanza, Sign ‘O’ the Times (1987), impossibile capolavoro doppio, sbaraglia concorrenza e critica. Un disco di quelli che, davvero, lasciano il segno nel tempo e diventano ponte per il futuro. Prince scippa mercurialmente alla cultura rock «bianca» il concept dell’album doppio e la conduce alle sue estreme conseguenze. The Cross, poi, brano dal titolo inequivocabile, fornisce indicazioni su una spiritualità e contradditoria.
Sino alla musica composta per il Batman di Tim Burton, Prince non sbaglia un colpo. All’inizio degli anni Novanta, i conflitti insanabili con la Warner. Lui cancella il suo nome con un simbolo impronunciabile e inizia a sperimentare le sue «directions in music», seguendo la lezione di Miles Davis. La critica musicale, si stanca. Non segue più Prince o se lo fa, ne scrive con accondiscendenza. Colpa gravissima. Prince si presenta come schiavo dell’industria musicale. Gli scribacchini, per lo più bianchi, ironizzano che uno schiavo ricco come lui non si è mai visto. Lui se ne frega. Boicotta la Warner con dischi «bellissimi»: Gold Experience (1985), Chaos and Disorder (1996) e soprattutto il triplo Emancipation (1996).


Instancabile, lavora contro l’industria musicale seguendo la sua musa ondivaga. Recupera Larry Graham e Chaka Khan, George Clinton e Sly Stone. Gioca a tutto campo, dettando regole e legge. I duemila si inaugurano con The Rainbow Children (2001), disco segreto della sua opera. Jazz raffinatissimo, ma si preferisce puntare il dito sul suo essere diventato un testimone di Geova. E poi. Di fronte all’avanzata inarrestabile dell’hip-hop, Prince rilancia il primato della musica suonata. Magistralmente. E della sperimentazione. Dare un ascolto a N-E-W-S per farsene un’idea o alla magnifica raccolta di «scarti» Crystal Ball (1998). Ed è proprio nel ruolo di alfiere della tradizione che il musicista si reinventa. Musicology (2004) (evidente omaggio a Bird), il micidiale 3121 (2006) e lo splendido Planet Earth (2007) che promuove con un mese di concerti all’O2 londinese.
Come un jazzman della vecchia guardia, riempie il puntuto O2 sera dopo sera. E ogni sera è una musica nuova e diversa. Mai quello che si aspetta il pubblico, ma mai come Bob Dylan che gode a far soffrire il pubblico. Prince offre in chiave e veste nuova le canzoni più famose. Suona in media tre ore e oltre a notte. E, in una notte particolarmente incantata, offre una versione al fulmicotone di Whole Lotta Love dei Led Zeppelin. E When Doves Cry non l’ha mai negata. E Purple Rain non l’ha mai fatta mancare.


E quando stavamo tutti in piedi a cantare con lui, con le lacrime agli occhi, non avremmo mai pensato che in un qualsiasi 21 aprile del 2016, sarebbe venuto a mancare per una stupida influenza, ucciso dal più criminale sistema sanitario del mondo. Ecco, ancora una volta con le lacrime agli occhi, ti chiedo, con le tue parole, How can you just leave me standing? Alone in a world that’s so cold? (come puoi abbandonarmi? Solo in un mondo cosi freddo)?
[Giona A. Nazzaro dal "il Manifesto" del 22/04/20156]

venerdì 15 aprile 2016

Seduta accanto ad un'altra donna


Sotto la fermata della metro di Istanbul, nei pressi di Sultanahmet, proprio nel quartiere del centro storico dove è avvenuto l’attentato terroristico del 12 gennaio scorso, campeggia una gigantesca immagine a carboncino di una supereroina che, almeno dal punto di vista dell’immaginario, è capace di sconfiggere qualsiasi mostro. Nei dintorni, i muri che costeggiano gli antichi viottoli pavimentati di ciottoli sono pieni di graffiti e murales della writer Elif Nursad che si riappropria degli spazi metropolitani disegnando enormi gatti.
Volti di donne, uomini, figure a volte rabbiose, altre rassicuranti, sono i soggetti che compongono la «pinacoteca» che Elif – questo il suo logo – dipinge anche su tela e che vende durante le sue esposizioni e nello shop online. Figlia d’arte (suo padre Ilhami Atalay è una personalità ad Istanbul e un pittore consolidato a cui è stato sgomberato, in tempi recenti, l’atelier per far posto a un hotel di lusso proprio nel cuore di Sultanahmet), Elif Nursad Atalay è l’ultima di tre fratelli, tutti pittori; è anche una graphic novelist che ha collaborato per lungo tempo con il magazine umoristico Bayan Yani, (in turco vuol dire «seduta accanto a una donna» e si riferisce alla tradizionale usanza che impone a una ragazza che acquista un biglietto dell’autobus per un viaggio di lunga distanza, l’obbligo di sedere accanto a un’altra persona del suo stesso sesso), gestito esclusivamente da donne. I suoi fumetti sono fonte di ispirazione per tantissime turche impegnate a rivendicare i propri diritti, così come i suoi murales sparsi un po’ ovunque a Istanbul.
È considerata tra le artiste più promettenti della nuova ondata underground , e assieme al collettivo Avalerer (nome ispirato ai quaranta ladroni) e gli Ha Za Vu Zu, può essere considerata una tra le figure più rappresentative della protesta turca.
In Italia si è fatta conoscere per la partecipazione al videoclip del brano hip hop Parte tutto quanto, estratto dal secondo album Hardcorebaleni (2015) dei fratelli baresi Tenko e Scriba. Una collaborazione che non sorprende: il writing ha legami con la sottocultura hip hop sin da quando è nato, oltre quarantacinque anni fa i vagoni della metro di New York. Nel filmato, girato tra le vie di Istanbul dal regista Orcun Behram, Elif rappresenta se stessa mentre dipinge, su un testo che parla di odio razziale. Ma l’hip hop non è l’unica passione che la writer e pittrice post-graffitista condivide con i due rapper baresi: con loro ha in comune anche l’idea di un’arte intesa come strumento di impegno politico e sociale capace di veicolare messaggi, diffondere ideali, sprigionare passione. L’arte come missione, per abbattere i confini materiali (territoriali) e simbolici (culturali, religiosi, razziali,) di genere e di classe.
«Attraverso l’hip hop – racconta Elif – riesco a esprimermi. Anni fa ho anche disegnato l’animazione di un video. Non mi piace uscire. Ricordo che lo scorso agosto sono stata rinchiusa dentro casa per tutto il mese e con quel caldo cocente non ho fatto altro che ascoltare musica e dipingere in maniera maniacale. Il ritmo e la velocità fanno parte del mio dna e divento una macchina senza sosta quando ascolto hip hop».
Lei è pittrice, writer e fumettista e i soggetti dei suoi quadri, disegni, fumetti e murales raffigurano spesso animali e apparizioni inumane (la serie di felini, di cani, etc). La metropolitana di Istanbul ospita un suo murales gigantesco con una supereroina. Cosa rappresentano queste figure?
Ho sempre dipinto, sin da bambina, ma quindici anni fa ho iniziato a lavorare con i fumetti, conosciuti come la «quarta arte». È un mestiere duro e complicato e richiede molta devozione e motivazione. Non è sufficiente saper disegnare: devi avere una bella storia ed essere in grado di riprodurla. E’ necessario usare un proprio stile, un linguaggio originale e farlo in maniera tale che gli interlocutori lo possano comprendere. Bisogna avere una mente brillante. I disegni e i fumetti sono due discipline differenti; mi ritrovo spesso a un bivio in cui devo scegliere su cosa puntare per comporre la mia narrazione. Mi piacciono molto anche i murales: è però difficile oggi che riescano a sorprendere e incantare. Eppure possono creare un mondo, essere potenti e incisivi nel comunicare un concetto. I murales di protesta, con la loro forza e l’immediatezza dell’esecuzione (che non permette errori), sono la base solida di espressioni spontanee. La mancanza di regole, lo spettacolo, l’energia che trasmettono sono gli elementi che più apprezzo in questa forma d’arte.
Quale significato assume la street art in città come Istanbul?
Io intendo la street art come una prova eccitante della mia stessa esistenza, del mio respiro: aiuta a mettere da parte ciò che è falso e volgare, sepolto in anime inaridite e cementificate dal profitto. I graffiti, trovandosi in strada, hanno la capacità di comunicare e riaccendere l’animo dell’essere umano. Se vivi rinchiuso nel tuo palazzo, non puoi lasciar travolgere il tuo spirito da questo tipo di arte. Quindi, scendere in strada assume un potere simbolico. Il writing fa parte del mio lavoro, ma ritengo sia meglio esprimermi restando nell’ombra. Agire in segretezza consente di conservare un fascino indicibile.
Come fumettista lei ha collaborato con il magazine umoristico «Bayan Yani», diretto da sole donne che ha ospitato per lungo tempo la tua storia «My father & My Master». Lei si batte anche per l’uguaglianza dei diritti e l’empowerment delle donne turche. Qual è la condizione delle donne in Turchia? Esistono movimenti femministi?
Bayan Yani, con cui ho lavorato per anni, ha dato l’opportunità e il coraggio, sia a me che a altre fumettiste e fumettisti di esprimersi. Non è in grado però di superare il cliché che descrive le donne come vittime ed è circoscritto a una tipologia femminile disegnata e voluta secondo canoni maschili. Pertanto, non crea vero potere. Contrariamente all’opinione diffusa, credo che le donne turche abbiano la stessa concezione di libertà ed emancipazione di quelle che vivono in altri paesi europei. Noi turche veniamo percepite come individui con minore consapevolezza a causa di un fraintendimento culturale e dei precetti della religione musulmana. In realtà, la subordinazione e l’uccisione delle donne – che è una piaga sociale in Turchia – aumenta in maniera inversamente proporzionale rispetto al livello di istruzione. Viviamo in un’epoca in cui le donne, in generale, sono molto svalutate. Molte, a mio avviso, non hanno coscienza di sé e sono molto meno libere di quello che credono: sono giocattoli in mano ai media che contribuiscono ad edificare ruoli e stereotipi. Sono troppe a non avere rispetto né per il loro corpo né per il loro cervello.
[Grazia Rita Di Florio 15/04/2016]

mercoledì 13 aprile 2016

domenica 10 aprile 2016

L’ultimo raccolto strappato alla paurae

Vite esemplari. "Al giardino ancora non l'ho detto", di Pia Pera: in forma di diario, l’epilogo di una vita allenata ai distacchi necessari per concedersi, in esclusiva, al più amato dei beni: il proprio spazio verde

Al giardino ancora non l’ho detto di Pia Pera (Ponte alle Grazie, pp. 216, euro 15,00) è un finale di partita, la cronaca di una malattia inesorabile, l’ultima immagine del mondo elaborata da un essere vivente che sente arrivare la fine. L’unica forma possibile del libro era quella del diario, proprio perché questa immagine del mondo è mutevole e sfrangiata come una nuvola, e non smette di cambiare e di arricchirsi col passare del tempo, mentre le cose continuano ad andare di male in peggio.
Come la selva oscura di Dante, la malattia è un luogo e una condizione di cui è difficile riferire precisamente come ci si sia entrati. Anche la prima avvisaglia è in realtà una manifestazione dell’irreparabile. Un giorno qualcuno fa osservare a Pia che cammina zoppicando leggermente. Quel minimo atto di consapevolezza è una frattura che inaugura un tempo del tutto diverso da tutto ciò che può essere presentito, immaginato, appreso dall’esperienza di altri. Non solo perché la mente deve adattarsi a un’emergenza. Questo adattamento infatti è di per sé sempre provvisorio, ogni giorno che passa portando ulteriori difficoltà, erigendo nuove barriere fra l’io e il possibile.
Presto diagnosticata, la patologia è di quelle che peggiorano e basta, il massimo della scienza medica consistendo nel rallentarla e poco altro. Il decorso prevede la perdita progressiva dell’uso del proprio corpo: arti, organi volontari, tutto. Non c’è nulla che renda in qualche modo preparati all’appuntamento con la propria sorte. E Pia ci arriva troppo presto, tra i cinquanta e i sessanta, nel pieno delle forze. Ormai da molti anni, si era dedicata completamente a una passione che per molti è un semplice hobby e che per lei era diventata una filosofia e una vera e propria forma integrale di vita. Molte cose della sua vita precedente lasciandosi alle spalle, infatti, Pia Pera ha inventato e accudito uno splendido giardino, nella campagna di Lucca.
È un luogo indimenticabile, in cui ogni minimo dettaglio possiede una storia e un significato ben precisi, ma dove tutto, in virtù di un supremo e definitivo artificio, è dotato della potente, ammaliante bellezza del selvatico. I libri e gli articoli che intanto andava scrivendo, le conferenze, le interviste hanno presto fatto di Pia un’autorità internazionale in quest’arte del giardino che sta conoscendo (a differenza di moltissime altre arti) un’epoca d’oro sia in Italia che in America, tra innovazioni sorprendenti e meditati ritorni alle più antiche tradizioni.
Il giardino esige un accordo fondamentale tra la mente che inventa, proiettandosi nel futuro, e il corpo che esegue, adagiandosi ai ritmi delle stagioni e alle leggi, al tempo stesso immutabili e sorprendenti, della vita vegetale. Questa è la castastrofe che Pia Pera ci racconta nel libro: il progressivo sfinimento che le impedisce dapprima di piegarsi per raccogliere un cespo d’insalata nell’orto, e che finirà per costringerla a faticose visite in sedia a rotelle in quello che fino a poco tempo prima considerava quasi come un’estensione del suo corpo, o il frutto di una simbiosi. E proprio nel momento in cui ciò che aveva progettato per la sua vita, tagliandosi alle spalle molti ponti, si rivela rapidamente impraticabile, giunge all’autrice il soccorso di una poesia di Emily Dickinson, il cui primo verso, «I haven’t told my garden yet», fornisce al suo libro il titolo.
Quella di Emily Dickinson è una grande meditazione sulla mortalità. Se è vero che presto, troppo presto anche lei «penetrerà dentro l’Ignoto», come farà l’amato giardino a comprendere che la sua giardiniera non verrà più a curarlo? Meglio nascondergli la verità, meglio nasconderla anche all’ape che ronza fra i cespugli, alle foreste e alle praterie dove Emily ha amato passeggiare. Che non si faccia parola della morte, insomma, la cui coscienza lancinante è un appannaggio esclusivamente umano. Che il giardino non venga turbato dalla notizia che chi tanto l’ha amato e accudito è prigioniero di un destino ben diverso dal suo.
Sarà importante osservare, a questo punto, che molti libri affini per l’argomento a quello di Pia (libri anche molto belli e capaci di scuotere profonde emozioni) ci raccontano di una saggezza, o perlomeno di un nuovo e faticato accordo con la vita, che seguono alla scoperta della malattia e delle sue conseguenze. Tutto ciò che viene prima del trauma potrà essere rimpianto, ma ormai è relegato nel regno dell’inconsapevolezza, dell’approssimazione, della mancata capacità di decifrare gli eventuali segnali provenienti dal futuro. Il grande archetipo dei racconti di malattia è quello della caduta sulla via di Damasco, non perché necessariamente venga implicata una conversione, ma perché quell’evento genera una metamorfosi radicale, come un’iniziazione e dunque una seconda nascita conseguente a una morte simbolica.
Pia Pera, però, si porta dietro un’esperienza umana e artistica che la costringe a sovvertire questo schema classico. In qualche modo, che sicuramente non è stato del tutto cosciente, tutta la sua vita, anche quella trascorsa in salute, è consistita in una serie di rinunce e di distacchi, a partire dalla sua identità di scrittrice e di traduttrice di tanti capolavori della letteratura russa (citerò solamente le sue memorabili, efficacissime versioni dell’Onegin di Puškin e di Un eroe del nostro tempo di Lermontov).
Il giardino, in questo percorso d’esistenza, ha assunto il ruolo di manifestazione concreta di un desiderio di solitudine che non escludendo l’amore per il prossimo, concedeva allo spirito quella libertà che si ottiene solo sciogliendo o allentando gli innumerevoli vincoli sociali e psicologici che sono le sbarre delle nostre prigioni. E dunque si potrebbe pensare che Pia sia sempre vissuta pensando alla morte, come si propone di fare Prospero alla fine della Tempesta. Ma nessuno ci dirà mai se Prospero in questo modo sia arrivato più sereno di fronte al grande salto.
La verità è che l’unica saggezza sembra consistere nel renderti conto che ogni saggezza, alla prova dei fatti, possiede la stessa forza di chi l’ha coltivata. «Com’è che tutto questo non è stato chiamato col suo nome, paura della morte?», si chiede Pia mentre ripensa a sogni ricorrenti e molto lontani ormai nel tempo. «Com’è che avevo sempre creduto di non averne paura?». Durante le notti che sembrano interminabili, questa paura sembra dilagare come un’onda densa e scura nella mente di Pia. E noi pian piano, pagina dopo pagina, ci rendiamo conto che una filosofia, una terapia, una pratica di meditazione che pretendessero di annullare la fragilità di uno spirito affacciato sul vuoto non sarebbero altro che chiacchiere di fanatici.
È proprio perché non sa essere saggia fino in fondo che Pia può regalarci le sue lancinanti intuizioni terminali, può comunicarci qualcosa della «limpidezza dell’essere soli al mondo». Leggendo questo libro, ho immaginato la nostra vita come un grande transatlantico, con tanta gente che lavora, o mangia nelle sale ristorante, o dorme inconsapevole in cabina. E ho pensato a Pia, ancora su questa grande nave, ma al limite estremo della prua, affacciata sull’aperto, investita dalle raffiche della tempesta. Ancora ama ciò che ha amato, ancora ha paura, e se fosse in grado di scegliere l’ultimo pensiero, questo andrebbe a Macchia, la sua adorata cagnolina, molto più che a Dio, o al Nulla, o a una delle tante parole di cui ci riempiamo la bocca senza che significhino realmente qualcosa.
Prima o poi, tutti noi che viaggiamo in questa nave prenderemo il posto di Pia. E chi ha letto il suo libro gliene sarà grato come di un dono personale, di un amuleto, di una mappa per evadere dal recinto della disperazione.
[Emanuele Trevi 10/04/2016]

martedì 5 aprile 2016

Lo stupore contro la banalità

Uno dei libri che erano in scaletta e avremmo letto il prossimo mese, proposto da Silvia era  «L’uomo sulla bicicletta azzurra» di Lars Gustafsson

Ritratti. Lo scrittore-filosofo Lars Gustafsson, i cui romanzi sono tradotti in Italia da Iperborea, è morto sabato all'età di 80 anni. Ossessionato dal tema dell'identità del soggetto, fautore della meraviglia al posto della realtà, è autore di un ciclo americano ambientato in Texas, di «Morte di un apicultore» e «L’uomo sulla bicicletta azzurra»
Il linguaggio è creatore di mondi, spiegava solerte Popper alla fine degli anni Settanta quando all’universo delle entità fisiche (il cosiddetto «Mondo 1») e degli stati mentali (il «Mondo 2») affiancava quello relativo alle creazioni della mente umana, il «Mondo 3», la cui realtà ha uguale dignità e diritto d’esistenza di quella degli altri due. Ma la natura di questo mondo terzo è appunto linguistica, e Lars Gustafsson, che non era solo un letterato e scrittore, ma anche un puntuale studioso di filosofia del linguaggio – si formò a Oxford con Gilbert Ryle alla fine degli anni Cinquanta –, lo sapeva bene e proprio per questo, da «abitante di un universo in cui non si sentiva di casa», come il Lars Lennart Westin, morituro apicultore di genio del romanzo del 1978 (Morte di un apicultore, traduzione italiana di Carmen Giorgetti Cima, Iperborea, Milano 1989), con il suo linguaggio di mondi ne creò infiniti, esercitando quella salvifica «arte di poter diventare qualcun altro» (L’uomo sulla bicicletta azzurra, Iperborea 2016) che lo caratterizzava nel profondo.
Lars Gustafsson che, come tutti i protagonisti del suo universo narrativo, era nato nel 1936 nel Västerås, Svezia centrale, due giorni or sono ha definitivamente abbandonato il Mondo 1 e 2 lasciando però ancora nel Mondo 3 tutte le maschere con cui volle rivestire il volto di quel se stesso che amava chiamare Chiunque.
Poeta, prolifico romanziere, giornalista e filosofo, insegnò fino al 2006 – per ben ventidue anni – Storia del pensiero europeo a Austin, Texas, dove ambientò tra l’altro il suo magnifico «ciclo americano» (Storia con cane, 1994; Windy racconta, 1999 e Il decano, 2003, tutti tradotti da Giorgetti Cima ed editi da Iperborea) col quale riuscì a restituire con forza la desolazione di un deserto assolato e dimentico la cui voracità non è riuscita a spegnere la vitalità del suo pensiero.
Le sue storie e i suoi personaggi sembrano nascere infatti come immagini volatili attraverso la fessura degli occhi che scrutano un miraggio. Ossessionato dal tema della detestabile identità del soggetto, a cui dedicherà diversi romanzi (uno tra tutti La vera storia del signor Arenander, 1966), preferiva sentirsi e vedersi in absentia attraverso i diversi effetti che procurava sugli altri con la scrittura, piuttosto che apparire in prima persona: «Volevo dimostrare di essere vero, reale. E questo lo si può attestare in un unico modo: provocando un effetto su un’altra persona».
Attento lettore di Paul de Man, originale osservatore degli Yale Critics, è stato uno strenuo sostenitore delle grandi potenzialità che il linguaggio ha di trasmettere soprattutto esperienze, non soltanto concetti. La scrittura era per lui incapace di stare al passo con la velocità della realtà; per questo era convinto che il naturalismo in letteratura restasse sempre un passo indietro rispetto alla vita e che soltanto l’immaginazione, la visione onirica, fossero in grado di rendere ragione dell’accadere reale, e che i concetti si potessero spiegare mostrandoli in azione.
«Nulla è più brutale di un dato di fatto», mise in bocca al protagonista di uno dei suoi ultimi romanzi, è «come un sasso che affiora quando l’acqua – informe, e perciò capace di assumere mille colori e mille forme senza però mai snaturarsi – si ritrae», per questo non resta che rifugiarsi nell’immaginazione, la sola capace di produrre davvero dei cambiamenti nella realtà che viviamo. Immaginazione e meraviglia, quello stupore dinanzi alla realtà che non abbandonò mai lo scrittore-filosofo, sempre capace di distinguere nella trama della quotidianità quelle sporadiche epifanie che non sono che strappi attraverso i quali emerge un senso.
Perché è ancora e pur sempre lo stupore dinanzi all’essere ciò che distingue il filosofo, uno stupore a cui Lars Gustafsson è riuscito a dar voce attraverso lo sguardo di tutti i suoi personaggi, la cui caratteristica è sempre stata quella di interrogarsi, non darsi mai per vinti dinanzi alla spesso gravosa banalità del quotidiano.
Questo interrogarsi continuo assunse nella tecnica narrativa dello scrittore svedese un nome preciso, come lui stesso dichiarò in una recente intervista: «estetica della distrazione». I personaggi messi in scena dallo scrittore divagano infatti in modo inesausto, tanto che spesso le opere di Gustafsson sembrano un susseguirsi di libere associazioni, il cui flusso però non riesce mai a risultare noioso per il lettore, perché in quei personaggi interroganti egli si ritrova e vede rispecchiata una realtà che ha dentro, ma alla quale non riesce a dar voce. E si abbandona così al flusso di un narrare pacato, meditativo, come il movimento di una barca che dondoli sul lago calmo di Amänningen, nel Västmanland, sulle cui sponde lo scrittore ha scelto di vivere gli ultimi anni della sua esistenza.

venerdì 1 aprile 2016

Palcoscenico multiforme per l’orgoglio dei libri

Bookpride. Dopo il successo dello scorso anno, c’è molta attesa. Tra gli ospitit Ginevra Bompiani, Luisa Muraro, WuMing1, Gad Lerner, Francesco Remotti e Tommaso Pincio
bookpride
«Tanti altri mondi», così recita il sottotitolo della seconda edizione di Book Pride che designa anche quest’anno il proposito si stare al passo con i tempi presenti. Attualità, saggistica, narrativa, poesia e teatro, si schiuderanno lungo un programma nutrito. 
Da oggi a Milano a raccontarsi sono i luoghi possibili della letteratura, quelli delle frontiere e delle guerre, del lavoro – anche editoriale – che può riconnotarsi attraverso l’immaginazione. Scritture che traghettano fra le migrazioni discusse e narrate da Khalid Chaouki, Kaha Mohammed Aden e Frank Westerman o negli spazi dei rifugi e «santuari» animali presenti nel territorio italiano con Valentina Sonzogni, Sara D’Angelo e Leonardo Caffo. Sono tanti i mondi a disposizione, dalla indagine narrativa e d’inchiesta del libro di Simone Pieranni, Settantadue, che indaga il territorio della dialisi fino ad arrivare in Cina, quella «mutante» dello scrittore A Yi presente alla kermesse milanese.
In molti tuttavia si confronteranno, sia attraverso le numerose presentazioni di libri previste (Massimo Recalcati, Alessandro Bertante, Rossella Milone, Piero Dorfles, Shady Hamadi, Giuseppe Genna, Lidia Ravera, Laura Lepetit e altri), sia per quanto concerne gli incontri professionali; per esempio sul mercato digitale con il dibattito fra Marco Ferrario, Eugenio Trombetta Panigadi e Alessia Rastelli; inoltre sulla promozione della lettura insieme a Stefano Parise, Marco Zapparoli, Annarita Briganti, Gioacchino de Chirico e Marco Rossari; poi un incontro con Slc – Cgil in cui verrà presentata la Carta dei diritti universali del lavoro e infine «Nuove norme per garantire le pari condizioni», ovvero un approfondimento sulla legge sul libro sostenuta da Odei, con Sandra Zampa e Francesca Puglisi. Per la prima volta anche la discussione sul protocollo d’intesa editori-traduttori Odei-STradE.
Un ampio spazio viene dedicato anche all’editoria indipendente per ragazzi, «Book Young», provvisto di letture animate, laboratori creativi, poesia, e teatro delle ombre.
Per il programma completo si può consultare http://www.bookpride.net/programma/