giovedì 28 agosto 2014

Ucciso a Resaca, Ambrose Bierce

Il soldato migliore del nostro stato maggiore era il tenente Herman Brayle, uno dei due aiutanti di campo.
Fra gli effetti personali del defunto c'era un portafogli di cuoio bulgaro, tutto imbrattato. Toccò a me nella distribuzione dei ricordi del nostro povero amico, stabilita dal generale in qualità di esecutore testamentario.
Un anno dopo la conclusione della guerra, mentre ero in viaggio verso la California, lo aprii e mi attardai ad ispezionarlo. Da uno scomparto che non avevo notato cadde una lettera senza busta e senza indirizzo. Era scritta da una mano femminile e iniziava con parole tenere, ma senza nessun nome.
L'intestazione era questa:"San Francisco, California, 9 luglio 1862". La firma era "Tesoro", fra virgolette. Il testo riportava casualmente il nome completo di chi l'aveva scritta: Marian Mendenhall.
La lettera dava prova di cultura e di buona educazione, ma era una lettera d'amore convenzionale, se mai lo può essere una lettera d'amore. Non vi era poi molto, ma qualcosa si. Era questo: " Il  signor Winters, che detesterò sempre per questo, è andato dicendo che in non so quale battaglia in Virginia, dove è stato ferito, siete stato visto rannicchiato dietro un albero. Penso che egli voglia guastare l'opinione che io ho di voi, ed egli sa che l'effetto sarebbe questo se io prestassi fede a quanto dice. Potrei reggere alla notizia della morte del soldato che mi ama, non però a quella della sua codardia."
Erano quelle parole ad avere ucciso un centinaio di uomini in quel lontano pomeriggio di sole. E le donne sarebbero deboli?
Una sera mi recai da Miss Mendenhall per restituirle la lettera. Intendevo anche raccontarle ciò che aveva provocato, ma senza dire che era stata lei. La trovai in una elegante residenza sulla Rincon Hill. Lei era bella, di buone maniere... in una parola, affascinante.
"Conoscevate il tenente Herman Brayle" dissi senza tanti preamboli. "E sapete certamente che è caduto in battaglia: Fra i suoi effetti personali è stata rinvenuta questa vostra lettera. Sono qui per restituirvela".
Lei prese meccanicamente la lettera, ne scorse il contenuto arrossendo man mano e poi disse, guardandomi sorridente:
"Molto gentile da parte vostra, anche se sono sicura che non ne valeva la pena." All'improvviso trasalì e cambiò colore. "Questa macchia" disse " non sarà... certo non sarà...".
"Signora" dissi "vorrete scusarmi, è proprio il sangue del cuore più sincero e più ardimentoso che abbia mai palpitato".
Gettò frettolosamente la lettera sui carboni ardenti. "Uh! non sopporto la vista del sangue!" esclamò. "E' come è morto?"
Mi ero alzato istintivamente per salvare quel pezzo di carta, che era sacro persino per me, e mi trovavo in piedi un po' arretrato rispetto a lei. Nel pormi la domanda aveva girato la testa di lato e un poco verso l'alto. La luce della lettera che ancora bruciava si rifletteva nei suoi occhi e le tingeva la guancia con un tocco di quel medesimo rosso che macchiava la pagina. Mai avevo visto niente di più bello di quell'abominevole creatura.
"E' stato morso da una serpe" fu la mia risposta.














 

martedì 19 agosto 2014

rassegna stampa

Carissime come prima cosa vi comunico di essere passato relativamente   indenne da quella sorta di tempesta perfetta che è stato ferragosto di quest'anno che con il susseguirsi di venerdì sabato e domenica ha comportato in sequenza: pranzo di ferragosto , tradizionale cena con amici il sabato e pranzo per compleanno materno ( 85 anni) oggi. Uno tsunami epatico. Ma ho resistito e sono pronto a comunicarvi alcune nuove. Nemmeno troppo belle.
Sono, infatti, ancora ai necrologi. E' stata un'estate terribile.
Si parlava l'ultima volta della morte del multiforme jazzista Charlie Haden. Ebbene il nostro tra le tante cose aveva fondato un gruppo il "Quartet West" dedito a rievocare con cover e pezzi originali l'atmosfera della California anni'40, quella di Dashiel Hammett   e soprattutto Raymond Chandler. Uno degli album più belli si intitola "We always say goodbye" ed è tutto ispirato a "Il grande sonno" di Chandler. Dopo l'ultimo pezzo si sente per una manciata di secondi una meravigliosa voce di donna, roca e sensuale. E' quella di Lauren Bacall indimenticabile donna e  diva che ci ha lasciato il 13 agosto. E sono le battute finali della versione cinematografica del romanzo, firmata nel 1946 da Howard Hawks, con lei e Humphrey Bogart . Più importante ancora è ricordare il film immediatamente precedente, quello che segnò il suo esordio e il suo innamoramento per Bogart:  "Acque del sud", sempre di Hawks, tratto da Hemingway, del 1944. Il film, pur essendo un film d'avventura, del filone propaganda alla "Casablanca", contiene forse i più bei dialoghi "amorosi", nel loro understatement, di tutta la Hollywood classica. E non per caso dal momento che lo sceneggiatore non era Hemingway ma un tale William Faulkner.
E contiene soprattutto la battuta che ha  reso da subito il tipo di donna incarnato dalla Bacall: " Sai che con me non occorrono tante commedie. Non devi dire niente. Non devi neanche fare niente, neanche un gesto. O se vuoi basta un fischio. Sai fischiare, no?" .
Lauren Bacall è stata una grandissima attrice, al di là del personaggio e della sua storia d'amore con Bogart, e mi piace chiudere questo breve ricordo con un altro film, molto più recente ( si fa per dire) . Un film che può veramente essere considerato "l'utlimo western". Si tratta de "Il Pistolero" del 1976 di Don Siegel. Con John Wayne, realmente già malato di cancro ( è il suo ultimo film), che interpreta un pistolero, ammalato di cancro, che deve concludere la sua ultima resa dei conti. La Bacall è l'ex maestra del paese che gli affitta una camera e con cui Wayne ha un'ultima, necessariamente casta, breve storia. Decisamente struggente ( e di molte cose si ricorderà Eastwood quando girerà "Gran Torino").
Mi scuserete se non mi soffermo altrettanto sulla morte di Robin Willimas per il motivo molto semplice che, pur dispiacendomene sul piano umano, non l'ho mai sopportato come attore. 
Una scomparsa che mi ha molto colpito è stata , invece, quella di Stefano Bonilli, il fondatore de "Il gambero rosso" e del movimento Slow Food. E qui c'è un fatto curioso in cui gioca la mia memoria di anziano. Perchè mi ero dimenticato del nome Bonilli e quando, in tutti questi ultimi anni, intervistavano Carlo Petrini, l'attuale responsabile dello Slow Food, io non riuscivo a riconoscerne la faccia. Poi con al morte di Petrini e le relative rievocazioni si è messo tutto a posto. Il "Gambero rosso" era stato fondato da Bonilli nel 1986 come supplemento al "Manifesto" con Petrini  come collaboratore. E da lì era partito tutto ( e io mi ricordavo gli interventi di Bonilli e il suo viso) . Era nata, poi, la rivista e poi i libri, i presidi, le guide, lo Slow food ecc. ecc.
Poi Bonilli e Petrini, essendo di sinistra, avevano litigato ecc. ecc. di nuovo.
Viene ricordato tutto abbastanza bene sul "Manifesto" del 3 agosto con una lunga e affettuosa  intervista a Petrini. Ma non solo si ricorda questo. Si ricorda anche che Il Manifesto, grosso modo tra l'80 e l'85,  aveva dato vita a tutta una serie di iniziative collaterali che costituirono allora, veramente, un ampliamento straordinario delle prospettive di chi ragionava e militava a sinistra e una modalità importante di uscita dal clima degli anni di piombo.. Oltre al "gambero rosso" la rivista "Antigone" nata sulla spinta del 7 aprile, che si occupava di carceri e giustizia, "Nautilus" in rapporto all'anti psichiatria, "L'indice" la prima rivista di sole recensioni un po' sul modello del New Yorker, i supplementi Alias e La talpa libri.
E, poi, mi sono ricordato che io  in quegli anni , almeno  fino al '95 direi, leggevo Il Manifesto e tutta quella roba. Che cosa mi sia rimasto di allora, in cui ancora credevamo di capire tutto perché leggevamo e discutevamo tanto, non mi è molto chiaro, al di là di avere in testa una serie bibliografie, discografie, filmografie ( e altre ..grafie) con cui continuo a rompere un po'  i coglioni, di avere in tasca una tessera del PD che ogni tanto osservo con una certa inquietudine, e di sapere che lo champagne può tranquillamente invecchiare fino a 50 anni ( fino a 100 sostiene qualcuno, ma non stapperei la bottiglia). 
Bah, tormenti di fine estate (si fa per dire, quest'anno). Per consolarmi e tranquillizzarmi  ho intanto finalmente scelto il pezzo n. 5 che vorrei venisse suonato al mio funerale. Si tratta di "At last I am free" degli Chic. E il pezzo n.7 : "Dream baby dream" ma non nella versione originale dei Suicide né tanto meno la cover, come sempre un filo retorica, di Bruce Springsteen. Voglio che venga suonata la versione incisa nel 2012 da Neneh Cherry che è veramente tosta. 
Detto anche questo, una segnalazione bibliografica e cioè la ristampa di "Matriarcato e dee madri" testo breve del 1951 di James G. Frazer ( la cui lettura, che non farò in tempo a fare, penso mi sarebbe utile per Lulu di cui, per inciso, sta per arrivare la terza parte.  Ma che fatica, troppa roba da sintetizzare).
E per concludere due frasi di Antonio Gramsci su cui meditare. L'occasione di scriverle mi è data dall'averle scoperte, più o meno contemporaneamente, come citazione di apertura di due opere di due intellettuali americani di età assai diversa.
La prima apre la versione cinematografica de "Il Don Giovanni" di Mozart girata nel 1979 a Vicenza da Joseph Losey (classe 1913) il grande regista e comunista americano ( ma costretto, per questo,  all'esilio in Inghilterra negli anni 50) allievo di Bertolt Brecht e di Eizenstein. La seconda è invece contenuta nelle note di copertina di "Historicity" inciso in trio nel 2008 da Vijay Iyer, alla data dell'incisione trentanovenne,  newyorchese di origini indiane, cibernetico, musicologo ma soprattutto forse il pianista jazz più interessante oggi in circolazione.   

"Il vecchio muore e il nuovo non può nascere; e in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati".

"  L’inizio dell’elaborazione critica è la coscienza di quello che si  è realmente, cioè un “conosci te stesso” come prodotto del processo storico finora svoltosi che ha lasciato in te stesso un’infinità di tracce accolte senza beneficio d’inventario. Occorre fare inizialmente un tale inventario".    

Buona settimana.
Andrea    
           

martedì 5 agosto 2014

Rassegna stampa

Rinfrancato dalla sferza del lunedì vi scrivo le consuete poche righe.
Innanzitutto due ricordi, per due grandi musicisti e due compagni ( bella parola da dire ancora, quando ha senso).
Il primo era  un mio "eroe". Il contrabbassista, capo orchestra, compositore, cantante, agitatore culturale, comunista americano Charlie Haden.
Haden è stato uno dei più grandi   contrabbassisti della storia del Jazz e in questo ruolo ha partecipato da protagonista a tutte le fasi più importanti e salienti della sua storia  a partire dalla fine degli anni '50. Per ricordarne solo due è stato il contrabbassista, unico bianco,  dei quartetti storici di Ornette Coleman con cui ha inciso, tra gli altri il fondamentale "Free Jazz", ed ha costituito negli anni   '70, insieme ad un altro grandissimo, il batterista Paul Motian,  la sessione ritmica del quartetto "americano" di Keith Jarrett   ( il quarto era il sassofonista Dewey Redman, unico nero,   un altro ornettiano) che ancora oggi, dopo più di trenta anni è il gruppo migliore del pianista. Tra l'altro , in modo commovente, i due amici si erano ritrovati nel 2010 a casa di Jarrett incidendo degli straordinari duetti fatti  di quel jazz così lirico e soffuso che piace anche a chi di solito non ama il Jazz. Il primo album ricavato dai duetti  è intitolato "Jasmine"  ed era uscito un paio di anni fa, il secondo è uscito qualche mese prima della sua scomparsa  ed è intitolato, ahimè, "Last dance" e non l'ho ancora ascoltato.
Ma l'apporto forse più importante dato da Haden alla storia del Jazz è stata la fondazione nel 1969 della "Liberation Music Orchestra" che riuniva i musicisti più all'avanguardia della New York di allora, tra cui il trombettista Don Cherry e il sassofonista Gato Barbieri. Era un'orchestra dichiaratamente militante e impegnata politicamente ma, data la statura artistica del gruppo, dai risultati estetici straordinari. La formula era data dal recupero, in chiave free negli assoli, ma in forma ben strutturata dalla straordinaria arrangiatrice Carla Bley , della grande tradizione della canzone politica e militante: nel primo album i canti della guerra di Spagna ma anche le musiche di Hans Eisler il musicista comunista collaboratore di Brecht  e la "Canzone del Che" di Carlos Puebla. 
Dopo il primo, la formazione - che vide via via cambiamenti di organico ma con sempre Haden e la Bley a condurla - incise altri 3 album più uno dal vivo, aprendosi anche alla grande tradizione dello spiritual e del gospel. L'ultimo album dal titolo significativo "Not in our name" , inciso in opposizione alla seconda Guerra del Golfo, contiene una versione strepitosa del classico spiritual "Amazing grace" , così strepitosa che ho lasciato scritto che sia il terzo pezzo da suonare al mio funerale.
Un ultimo brano da ricordare è  una versione dal vivo  a Montreal nel 1995 in trio con Don Cherry e il batterista Ed Blackwell , gli altri due membri del quartetto originale di Coleman, di "Mopti", una composizione di Cherry.  Mopti è una città del Mali, in terra  Dogon.
L'altro maestro che voglio ricordare è il nostro Giorgio Gaslini. Il padre  del jazz italiano, musicista "totale" come amava giustamente definirsi fin dagli anni '50, didatta, intellettuale militante, teorico,  con le sue proposte straordinarie di fusione tra jazz e musica dodecafonica ( ma che swing, sempre) che sono diventate di uso comune solo trent'anni dopo.
Di Gaslini ho una conoscenza assai meno approfondita ma un ricordo personale.
Avrò avuto 19 anni e al Teatro Sociale (allora queste cose, ogni tanto a Rovigo accadevano) Gaslini tenne un concerto straordinario, alternando spiegazioni e esecuzioni in piano solo, sulle musiche del sommo Thelonious Monk, e ci fu anche una coda orchestrale con i suoi allievi del Conservatorio di Milano ( e c'era pure un rodigino, alla tromba, Ilich Fenzi). Fu in  quella sera memorabile che scoprii definitivamente il Jazz  e se oggi sono qui a scriverne lo dovete anche a lui.
Abbiamo evocato Rovigo, e...
E per concludere una segnalazione libraria se siete amanti come autrici e/o spettatrici della fotografia.
In attesa della mostra di Mario Dondero, intitolata "Partigiani del Polesine" gli ultimi dei quali il maestro è venuto a fotografare l'anno scorso e  che si aprirà a Fratta verso fine settembre ( ho potuto visionare in anteprima il catalogo e mi sembra tutto di grandissimo valore), potete leggere  un suo libro intervista intitolato  "Lo scatto umano". Il libro è un intenso excursus sul foto - giornalismo e  (quella che dovrebbe essere ) la sua etica,  di cui Dondero è stato ed è uno dei grandi esponenti internazionali.
Lo segnala Marco Belpoliti su Tuttolibri e conclude la recensione scrivendo "La fotografia di Dondero ha una sola definizione: umana. Uno dei pochi maestri che ci restano".
Di nuovo buona settimana.
Andrea       

lunedì 4 agosto 2014

Tahar Ben Jelloun, "la Repubblica" del 4/08/2014

UNA VIA DI USCITA DALLA BRUTALITÀ
A scuola impariamo la storia, ma non ci insegnano come leggerla. L’attuale guerra tra Israele e Gaza non solo è letta male, ma si sta ingolfando in una spirale senza uscita. Una semplice constatazione: non è mai accaduto che un territorio occupato o un popolo colonizzato siano rimasti tali in eterno. Presto o tardi i valori di libertà, giustizia e dignità prendono il sopravvento su qualunque brutalità, per potenti che siano le armi in campo. C'è stato un tempo in cui nessuno avrebbe osato immaginare un'Algeria indipendente o, un Sudafrica liberato dall'apartheid. Eppure la storia è stata più forte dell'irrazionalità e delle pretese degli uomini.
Una maggioranza di israeliani è convinta di arrivare alla pace con la forza. Ma chi anche in tempi "normali" esercita un dominio infliggendo vessazioni non può che esacerbare gli animi. In nome di un impegno sia religioso, sia nazionalista, i popoli palestinesi lottano affinché la storia renda loro giustizia. Si possono discutere i loro metodi, ma non rimproverarli perché lottano contro un'occupazione inasprita da un embargo disumano. Certo, Hamas non rappresenta tutti i palestinesi, ma se esiste è per volontà di un elettorato convinto che l'occupante non desideri non desideri la pace, e non voglia la coesistenza di due Stati.
L'autorità palestinese ha fatto tante concessioni da ritrovarsi oggi priva di mezzi per riprendere, quantomeno, i negoziati. Israele ha il diritto di esistere e vivere in pace; ma coi suoi comportamenti ha dimostrato che il suo desiderio di pace è un'illusione; e non fa nulla per promuovere un dialogo sincero, per dare consistenza a quel miraggio. Esiste una base giuridica: la risoluzione 242 delle Nazioni Unite, legittima per tutti gli Stati, ad eccezione di Israele. Da decenni i governi israeliani hanno posto due condizioni per la definizione dello status dei territori occupati. La prima è il riconoscimento dello Stato di Israele da parte di arabi e palestinesi: una condizione ormai soddisfatta dai trattati con Egitto, Giordania e Autorità palestinese. Il suo diritto a esistere non  è più in discussione. A Israele se chiede solo di riconoscere lo stesso diritto ai palestinesi. Seconda condizione: confini sicuri e riconosciuti e cessazione di ostilità. Di fatto però Israele non ha mai smesso di colonizzare i territori occupati, impedendo qualunque accordo per la coesistenza di due Stati. A Mahmud Abbas - come già ad Yasser Arafat - ha rifiutato ogni concessione. Ha costruito un muro che non ha risolto nulla.
Tutto ciò spiega il successo elettorale di Hamas nella striscia di Gaza. Proprio sull'assenza di risultati tangibili nel processo di pace Hamas ha fatto leva per riprendere l'azione armata, con i suoi attentati e attacchi inefficaci. L'intransigenza dello Stato ebraico è direttamente responsabile del potere di Hamas e del sostegno di cui gode tra la popolazione palestinese, soffocata da un embargo economico, sanitario e umano che gli osservatori del mondo, compresi i media americani, considerano inaccettabile. Israele ha in dispregio le numerose risoluzioni dell'ONU, e non c'è Stato né potenza che sia in grado di esercitare pressioni sul suo governo. Così stanno le cose. Ma chiunque si esprima criticamente è tacciato di antisemitismo.
Alcuni intellettuali si stanno impegnando in un'operazione volta ad assimilare l'antisionismo all'antisemitismo, in una sorta di terrorismo intellettuale: è la sconfitta del pensiero, la rinuncia all'obiettività. Sono contrario alla politica coloniale di Israele, ma non per questo sono antisemita. E mi ritengo diffamato ed insultato da chiunque sostenga il contrario. In Palestina, il mio paese il poeta Mahmud Darwish scrive: "L'israeliano detta al palestinese la lingua e le intenzioni che dovrebbero essere le sue. L'alibi degli israeliani - la necessità di lottare per la propria sopravvivenza - esige che l'altro sia sempre e immancabilmente un selvaggio, il cui "antisemitismo" giustificherebbe l'occupazione, così come tutte le occupazioni a venire, destinate a consolidare quelle precedenti" (Editions de Minuit 1988). E' la débâcle del pensiero, soppiantato da un discorso passionale, colpevolizzante, manicheo.
Le immagini delle centinaia di bambini uccisi dalle bombe israeliane hanno fatto il giro del mondo, e Israele non potrà mai scrollarsi di dosso questo crimine contro l'umanità. Conosciamo la litania dei dirigenti: la responsabilità dei morti ricadrebbe su Hamas, che usa i civili come scudi mentre lancia razzi su Israele. Abbiamo appreso da un dirigente della polizia israeliana che il rapimento e l'assassinio dei tre adolescenti non è stato commesso da Hamas, ma da un gruppo estraneo al movimento. Hamas avrebbe dovuto associarsi a Mahmud Abbas nella condanna di un crimine così orrendo. Ha sbagliato. Ma questo errore politico non può giustificare ciò che Tsahal, l'esercito israeliano, sta facendo, fino a raggiungere, il 27 luglio scorso, la cifra fatidica di 1000 morti?
E' normale che un cittadino francese di confessione ebraica si senta solidale con Israele; non potrei fargliene una colpa. Ma perché non ammettere che gli arabi di Francia esprimano solidarietà con un popolo colpito da bombardamenti sanguinosi? Con buona pace di Manuel Valls, questa politica di due pesi e due misure è purtroppo una realtà: e se fossi al suo posto tenderei l'orecchio per ascoltare ciò che i popoli del Maghreb dicono oggi della Francia. Politica miope, priva di una visione. Tutto ciò è sconfortante.
In un'intervista al Nouvel Observateur lo storico israeliano Zeev Sternhell ha detto che "la destra israeliana è portatrice di un disastro senza nome, che si sta abbattendo su di noi. (....) Vuole conquistare la Cisgiordania, non lo dice ma punta all'annessione. Vuole che siano gli stessi palestinesi
 ad accettare la propria inferiorità davanti alla potenza israelian". la speranza - per quanto tenue - di uscire da questo inferno verrà dall'interno di Israele, dalla sua società civile, lucida e coraggiosa.